“L’uranio sta trasformando il Niger da uno degli stati più poveri del mondo in un paese da boom economico”. Così recitava il New York Times nel 1972
parlando di Arlit, che sarebbe poi diventata la capitale mondiale
dell’uranio impoverito. Il New York Times di allora raccontava, oltre a
indicare gli interessi al potenziale investitore americano, di italiani,
francesi e tedeschi che erano già sul campo per fare affari. Quasi cinque decenni dopo il Niger è ancora uno degli stati più poveri del mondo
e americani, francesi, tedeschi e italiani si intrecciano, talvolta
alleandosi talvolta facendosi concorrenza, per il controllo di quel
paese. Nel frattempo sono stati fatti profitti da boom, finiti
regolarmente fuori dal paese, e, come sappiamo, il sessanta per cento
degli abitanti del Niger vive al di sotto della soglia di povertà.
Potenza della crescita economica.
Certo, come ha scritto il Guardian, nel frattempo il Niger è diventato una delle zone di guerra più remote e caotiche del mondo. Una sorta di zona ai confini della realtà dove si mescolano miseria estrema ed estrema estrazione di ricchezza.
E, in questo scenario, dopo il decreto Gentiloni che a Camere chiuse istituisce la missione, dove verranno collocati i soldati italiani?
Lasciamo la discussione sul fatto se sarà una missione combat o non combat agli amanti delle procedure da decreto e del gergo delle regole militari di ingaggio. Tanto, come sempre, deciderà il campo. Concentriamoci piuttosto su questo luogo: Agadez. Si tratta di una città, nel bel mezzo del Niger, la cui area circostante è stata indicata dallo stesso Gentiloni come snodo del “jihadismo e del traffico di esseri umani” (https://www.difesaesicurezza.com/difesa-e-sicurezza/gentiloni-la-missione-niger-sacrosanta-linteresse-nazionale-dellitalia/ ). Sarà, anzi molto probabilmente lo è visti i numerosi report che circolano su Agadez, ma si tratta anche dello stesso territorio che è ricco di uranio (https://ejatlas.org/conflict/areva-uranium-mines-in-agadez-niger ). E quando Gentiloni, nello stesso discorso, qui riportato, sul jihadismo e sul “traffico di esseri umani” parla di “nuove opportunità da cogliere in Niger” è molto probabile che si tratti di quelle vecchie, descritte dall’articolo del New York Times nel 1972. Magari di opportunità in un mercato mondiale dell’uranio molto cambiato da allora, anche per l’invadenza della finanza, ma con i soliti attori. E con il popolo del Niger che resta tra i più poveri del mondo.
Non bisogna però dimenticare che il Niger, e con lui la zona di Agadez (quella dove vanno colte le opportunità secondo Gentiloni), è anche una zona ricca di petrolio. A nord di Agadez, ad esempio, nell’estrazione di petrolio ha investito Gazprom il colosso russo dello sfruttamento dell’energia.
Già, se stupisce infatti che il Niger sia il quinto esportatore al mondo di uranio (una materia prima che potrebbe ricoprire di soldi una intera nazione) e uno dei dieci paesi più poveri del mondo, ci si prepari al resto. Nel Niger si trova l’oro (tanto da scatenare una popolare corsa all’oro tipo California dei tempi eroici http://www.dailymail.co.uk/wires/afp/article-4468280/Niger-gold-seekers-dig-deep-bullion-dreams.html) e vi è una consistente produzione di petrolio.
Certo non ancora al livello della vicina Nigeria, tra i maggiori
produttori al mondo oggi e stimata ancora su quel piano ancora nel 2035,
ma in una fase di razionalizzazione dello sfruttamento di questa
materia prima. Fase che incontra, come si vede da questo grafico, una
flessione proprio nel 2017.
Tra i maggiori protagonisti del
petrolio in Niger, come in Nigeria, ci sono la Shell e la Chevron con
progetti rinnovati nel 2014 (http://afriqueinside.com/niger-un-pipeline-tchad-cameroun-pour-exporter-son-brut/). E se dici Shell e Chevron dici Usa e Francia. Ed entrambi i paesi sono stati presenti nel Niger con Texaco e Elf-Aquitaine. Non manca la presenza cinese, vista l’attenzione di Pechino verso il continente africano ( https://www.huffingtonpost.com/eric-olander/niger-chinese-oil-africa_b_8278254.html)
La caduta della produzione di petrolio, come da grafico, e l’insorgere della guerriglia islamista in Niger sono fenomeni da collegarsi, tanto che la Gulf si è fatta donatore diretto ed esplicito di fondi contro la guerriglia nel Sahel (https://www.capitalfm.co.ke/news/2017/12/africa-europe-seek-boost-sahel-anti-terror-force/)e
tutto questo avviene in un contesto africano dove l’allentamento della
guerriglia viene prezzato in tempo reale sul mercato del petrolio (si
veda http://www.chron.com/business/energy/article/Oil-surge-in-U-S-Libya-and-Nigeria-could-offset-11267444.php).
E’ evidente che questo enorme conglomerato di interessi, del petrolio e
aggiungersi all’ancora più grande business dell’uranio, fa parte delle “opportunità da cogliere” in Niger da parte di Gentiloni.
Molto più degli “scafisti” da contenere sui quali diversi analisti
sostengono che, in caso di particolare pressione occidentale possono
benissimo trovare altri percorsi, c’è quindi la guerriglia. Un soggetto
che incide direttamente sul prezzi del petrolio e, come abbiamo visto in
Libia, anche in tempo reale.
Ma di che tipo di guerriglia stiamo parlando?
Di sicuro non l’ISIS o, meglio, la sua versione fiction alimentata dalla stessa propaganda dello stato islamico.
Secondo la Reuters di effettivi inquadrabili come Isis in Niger non ci
sono più di 80 persone (non in un cortile ma in un territorio vasto
quattro volte l’Italia, su una popolazione di 20 milioni di individui).
Piuttosto la guerriglia assume, nelle sue figure specifiche,
caratteristiche di professione sostitutiva di quelle precedenti come nel
caso degli allevatori di bestiame (https://www.reuters.com/article/us-niger-mali-security-insight/why-niger-and-malis-cattle-herders-turned-to-jihad-idUSKBN1DC06A
). Insomma piuttosto che lo jiahdismo professionale dei guerriglieri
specializzati e apolidi, che comunque è solo una punta di questo tipo di
guerriglia, in Niger, come in altre zone del Sahel, ha preso
piede una guerriglia diretta espressione delle durissime condizioni di
vita dei territori. E come in Nigeria, dove Boko Haram
a suo tempo ha fatto registrare casi di cannibalismo nei confronti dei
prigionieri, la ferocia delle condizioni di esercizio della guerriglia
nel Niger è immediatamente espressione della disumana condizione sociale
a cui è sottoposta la parte largamente maggioritaria della popolazione.
Classicamente poi la ferocia della guerriglia è una sorta di effetto
collaterale di quella esercitata nell’estrazione di profitto. E, come
sempre, l’effetto collaterale, dell’estrazione di profitto passata,
finisce per danneggiare i livelli di produzione presenti e minacciare
quelli futuri. L’Italia, a supporto di altri paesi, interverrà in questo
scenario.
E per ridurre al massimo gli effetti
collateriali, ma anche come laboratorio delle prossime guerre oltre lo
scenario afgano o mediorientale, gli Usa hanno stanno ingaggiando una vera e propria Drone War in Niger.
Non solo perché recentemente hanno perso quattro soldati proprio in
quell’area, e dopo Iraq e Afghanistan non è il caso di proseguire tanto
oltre, ma sia per valorizzare i risultati ottenuti nell’uso dei droni in
altre aree che per una esplicita divisione del lavoro sul campo: gli Usa fanno prevalentemente la guerra tecnologica, gli altri prevalentemente quella sul campo.
La cosa va benissimo ai francesi, ai quali ha economicamente pesato la
recente presenza di oltre 4000 soldati nel Sahel e possono ridurre gli
effettivi. E va bene agli italiani che, sul campo, trovano un ruolo nel
ritiro dei francesi e a supporto dell’intervento tecnologico.
In questo articolo di securitypraxis, blog globale di analisti della sicurezza, (https://securitypraxis.eu/drone-warfare-niger/)
c’è quindi, non a caso, la notizia del dispiegamento di una vera e
propria strategia americana di drone war, i cui contorni, leggi regole
di ingaggio, non sono affatto chiari. Sul tema, qualche giorno dopo la
notizia è tornata l’agenzia italiana Agi, parlando di futuro chiarimento tra Niger e Usa sulle regole di ingaggio e su “opportunità” e “inefficienze” di questo tipo di guerra (https://www.agi.it/estero/sahel_droni_guerra-3313908/news/2017-12-27/)
In poche parole, gli italiani faranno da supporto, sul campo, alla
drone war americana. Obiettivi ufficiali: jihadisti e “trafficanti di
uomini” poi, come appare oramai evidente, c’è soprattutto l’uranio e il
petrolio da tutelare. La Drone War, la guerra condotta per mezzo dei droni, ha decuplicato il proprio numero di interventi proprio sotto Obama (https://www.thebureauinvestigates.com/stories/2017-01-17/obamas-covert-drone-war-in-numbers-ten-times-more-strikes-than-bush)
e ha prodotto un enorme strascico di polemiche, e di inchieste, a causa
dell’alto numero di civili innocenti rimasti uccisi in questo genere di
operazioni. Si tratta però di uno dei pochi atti della presidenza Obama
che non sono stati messi in discussione da Trump. La logica è
chiara: mettere a frutto l’esperienza afgana, irachena e yemenita nella
Drone War, sperimentando nuove tecnologie, e strategie, cercando di
contribuire a risolvere una guerra difficile dall’alto. Poi le
polemiche sul numero dei civili morti, sempre piuttosto alto negli
scenari descritti, verranno lasciate ai giornalisti liberal americani
(perché su quelli italiani non c’è da scommettere. Basta parlare di
“scafisti” uccisi e sono a posto). Con i francesi sul campo e gli
italiani a supporto. E anche con i tedeschi che, come dimostra questo
articolo di Junge Welt, cercano un nuovo posto al sole del Niger per diversi motivi ( https://www.jungewelt.de/artikel/323989.wettlauf-um-afrika.html
) E così anche la principale potenza europa, leader Ue e gigante della
produzione di energia, cerca di posizionarsi, anche militarmente, in
Niger. Una guerra tecnologica, con una pluralità di scopi, giocata sul
campo, un terreno duro e difficile, dove non è pero’ ancora chiaro il
rapporto tra le potenze occidentali.
Infatti la stessa Analisi difesa,
che abbiamo citato nel primo articolo della serie, non trova chiara la
cornice della missione poi istituita per decreto. Se una prima missione
Ue in Africa, con supporto Drone War americano o altro. Non è un
problema da poco perché riguarda obiettivi, catena di comando,
finanziamenti, scopi e durata della missione. Intanto però il decreto di istituzione della missione, a Camere sciolte, è stato fatto. Per una missione che, secondo questa analisi, “potrebbe comportare un costo elevato in termini di mezzi impiegati e vite umane” (http://eastwest.eu/it/opinioni/open-doors/niger-missione-militare-italia-terrorismo )
Ma sono temi che, oggi, interessano poco all’opinione pubblica italiana. Indirizzata piuttosto sui temi del dolore a distanza ( http://www.corriere.it/esteri/17_dicembre_28/aerei-bambini-trafficanti-cuore-sabbioso-niger-64941f5a-ec03-11e7-9fa2-1bd82b1c1e98.shtml
). Tutto vero per carità, solo che scompaiono le cause del dolore sul
terreno. Sono fatte di uranio, petrolio, droni, miseria e appetiti dei
grandi paesi occidentali. Paesi che sono passati dal Niger prelevando
fortune e lasciando la popolazione a livello record di povertà planetaria. Ma le intenzioni italiane guardano altrove: pochi morti, alzo massimo sulla propaganda fatta di Isis e scafisti per poi sedersi al tavolo degli appalti e delle concessioni dello sfruttamento delle materie prime.
Le idee chiare in questa strategia, quella di sempre, non contano.
Contano il basso profilo e il saper afferrare l’occasione, se capita.
Come è accaduto in Iraq recentemente. Insomma, un modello di sviluppo
pericolosissimo, l’uranio, uno bollito, il petrolio, una guerra feroce e
tecnologica, con i droni che si candidano a fare il killer di una
popolazione ridotta alla fame, e l’Italia è presente. Triste fine, tra l’altro, di Paolo Gentiloni – che da direttore de La Nuova Ecologia
ha fatto la colomba ecopacifista per quasi dieci anni- che rischia di
trascinare l’Italia in quell’inferno del Niger che si disloca in quella
zona ai confini della realtà che si chiama guerra.
Comunque con i media che sono ufficio
stampa delle missioni militari, l’opposizione o complice o senza idee,
per non dire senza strategia, ci penserà la routine della vita del
nostro paese a attutire ogni cosa. Silenzio e rimozione, finchè dura. E
magari qualche appalto e qualche commessa prima che tutto finisca.
Redazione, 29 dicembre 2017
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