Appena un’ora dopo la chiusura dei seggi, scrissi un breve post, in cui pronosticavo la nascita di un governo Lega-Cinquestelle, con Di Maio Primo Ministro e Salvini agli Interni. Pentastellati ben informati ed esperti politologi assicuravano: i grillini mai con la Lega. Qualcuno arrivò anche a scommettere dei soldi su questa irrealizzabile alleanza.
Forse dovrei andare a riscuotere il credito, ma disprezzo il denaro e poi, a dire il vero, sono troppo spossato da un finale che avevo sì previsto, ma a cui si è giunti passando attraverso un imprevedibile e beckettiano teatro dell’assurdo. Un finale che mi ha dato ragione, quindi, solo all’ottanta per cento. E già, perché Salvini è andato effettivamente al Viminale mentre, a Palazzo Chigi, ci è finito Conte. Come dire, un compromesso accettabile per un prestanome, semplice esecutore, verosimilmente, di un’agenda che gli verrà imposta dai due vice ministri.
Ottantotto giorni dopo, dunque, nasce l’esecutivo gialloverde. Ottantotto giorni ci sono voluti, per rendere effettivo quanto era immediatamente palpabile a chi, con un minimo di lungimiranza e di conoscenza di questo fantasmagorico paese – fonte inesauribile di storici compromessi e inciuci, ma incapace di rivoluzioni, foss’anche soltanto istituzionali – aveva intuito come sarebbe andata a finire. Ottantoto giorni per dar vita all’esecutivo più gattopardesco della storia repubblicana. D’altrone, è costume italico: tutto cambi perché nulla cambi. E, difatti, non cambia, e anzi si conferma, la matrice culturale, verrebbe quasi da dire antropologica, che informa di sé quella che Dante, attento osservatore di questi lidi, appellava, giá nel 1300, con rammarico: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!». Cultura servile, demagogica, qualunquista, razzista, piccolo-borghese, meschina, familista, fascista.
Parafrasando Kant, la nascita di questo governo potrebbe racchiudersi in una massima: il cinque stellato sopra di noi, il nero profondo dentro di noi. Laddove i pentastellati sono apparsi, per la presa che hanno avuto sull’ingenuità di un elettorato stanco del ceto politico vecchio, corrotto e soprattutto ancorato a pauperistiche politiche di austerità, come una limpida volta in una notte stellata, recante con sé adolescenziali illusioni d’amore; mentre, alle sue spalle e nei bui recessi del suo più profondo inconscio, s’avanzava l’incubo fascio-leghista e reazionario di una società razzista, omofoba, machista, classista, poliziesca.
Durante questi ottantotto giorni di gestazione, abbiamo assistito ad una farsa tragica e assurda, in bilico tra Feydeau di Finale di Partita e il Beckett di Aspettando Godot, in cui si sono avvicendati momenti drammatici, comici, grotteschi, densi di agghiacciante ironia, nel frenetico succedersi di equivoci, situazioni di stallo esistenziale, dichiarazioni categoriche, smentite, entrate ed uscite teatrali dalla porta presidenziale, violazione dei rituali costituzionali, fino anche ad una richiesta di impeachment, ritirata appena ventiquattrore dopo.
Il tutto, a detrimento di una democrazia che appare, ormai, sempre più simulacro di sé stessa, nella sua soggiacenza ai mercati e a quelle istituzioni sovranazionali (Ue, Bce, Fmi) che, di fatto, ne determinano la risicata sopravvivenza, da tempo solo formale, sottraendola ai popoli, non più esecutori dei propri destini.
Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da garante della Costituzione si è trasformato, durante questi ottantaquattro giorni, in organo di garanzia dell’Unione Europea, della stabilità dell’euro e dei trattati di Maastricht. Compiendo, tra l’altro, da qualunque angolazione lo si voglia guardare, un golpe bianco di stampo presidenzialista, all’interno di una Repubblica, fino a prova contraria, ancora Parlamentare. Nonostante ciò, peana inconsulti sono stati levati, dalle pagine social e dai media mainstream, vicini alla “sinistra”, alla figura di un Presidente, fiero oppositore del fascismo, tutore dei risparmi italici e garante della democrazia europea; per scoprire, solo due giorni dopo, che all’ex Dc, Mattarella, un razzista al Viminale andava benissimo, mentre era inaccettabile un moderato euroscettico liberale a Via XX Settembre.
E allora, date tali premesse, viene da domandarsi se si è ben compreso e decodificato questo intricatissimo plot teatrale, apparentemente elaborato da un drammaturgo sotto Lsd, e, tra le sue fitte trame, dove sia finita quella democrazia liberale, che tutti sembrano invocare, ma che ciascuno tradisce a seconda del proprio interesse particolare, politico, economico.
Ci domandiamo, pertanto, se sia democratico ammazzare il prossimo, solo per difendere la proprietà privata. Se sia democratico annegare in mare chiunque abbia pelle o accento diverso. Se sia democratico il razzismo. E, ancora, se sia democratico reprimere quel dissenso e quel conflitto, che pure dovrebbero rappresentare l’essenza stessa di una democrazia. E, spingendoci un po’ oltre, nella valutazione delle designazioni ministeriali: le “geometrie variabili” di Moavero Milanesi, agli Esteri, garantiranno il bombardamento di chiunque ostacoli gli affari e i profitti dell’UE, all’interno di un quadro di alleanze che rispondano ai malleabili criteri dell’opportunità. Anche questo è molto democratico, ovviamente.
Di Maio, al Lavoro e allo Sviluppo Economico, garantirà, ne possiamo essere certi, il padronato – piccolo, medio e grande – sull’invariabilità delle Leggi del mercato del lavoro, che regolano il Capitale, soprattutto “umano”: praticamente, sgravi all’impresa e costante impoverimento della classe lavoratrice. Di fatto, si realizzerà il corporativismo di stampo fascista o, se si preferisce, di matrice peronista. Con il reddito di cittadinanza che potrebbe diventare – e son certo che qualcuno la proposta la avanzerà – se approvato, un sostitutivo, di fatto, della Cassa Integrazione; permettendo così, alle imprese, di licenziare a cuor sempre più leggero. Insomma, una sorta di Tutele Crescenti all’inverso.
Cui va aggiunta quella Flat Tax che, se realizzata, costituirà, in combinato disposto con la misura di cui sopra, un attacco alla classe lavoratrice feroce, di cui i precedenti si possono rintracciare solo nelle gabbie salariali degli ‘anni ’70 o nella cancellazione della scala mobile, firmata dal “compagno” Bruno Trentin, segretario della Cgil, all’inizio degli anni ’90.
La ministra Trenta – capitano della riserva, presente in Iraq e in Libia, esperta di intelligence – alla Difesa, garantisce, invece, a sua volta, la Nato e gli affari per la lobby della guerra.
Sempre restando in tema di ritualità costituzionali, si delineerebbe, come segno di garanzia e osservanza della Carta, una innovazione mai vista: bocciare un Primo Ministro, per poi riaffidargli l’incarico. Non mi pare siano rintracciabili precedenti, in tal senso.
Non sarebbe democratico e non garantirebbe gli italiani, invece, un Ministro dell’Economia che si dichiara moderatamente euroscettico. D’altra parte, democratico sarebbe dirottare, lo stesso Savona, bocciato dall’Europa e dai Mercati, alle Politiche Comunitarie.
Un profilo altamente democratico garantisce anche il neo ministro alla Famiglia, Fontana, che, in un colpo solo, vorrebbe riportare l’Italia al Medioevo oscurantista, cancellando i diritti della comunità Lgbt e condannando la libertà di aborto. Mentre, al Mibact, Bonisoli avrà ben poco da fare, considerato che il contratto Lega-Cinque Stelle prevede quasi nulla in materia culturale. E, visto il clima poco rassicurante, riecheggia in questi giorni, a tal proposito, nella mia testa, la famigerata frase di Baldur von Schirach, comunemente attribuita a Goebbels: “Quando sento parlare di cultura, tiro fuori la pistola”.
D’altro canto, siamo altresì certi che, con Bonafede – nomen omen – alla Giustizia, finiremo tutti in galera: con buona pace dei diritti democratici. Mentre, il professor Tria, all’Economia, andava prescritto a mo’ di tranquillante, da assumere, in base ai protocolli ordoliberisti, contro l’emotività ciclotimica dei Mercati e l’ossessività compulsiva della Troika.
Stabilito, quindi, sulla base di tali valutazioni e presupposti, che i Gialloverdi hanno chinato il capo e obbedito all’Ue, ottenendone, come contropartita, carta bianca sul massacro degli immigrati e sulla libera galera; stabilito che imperverserà la demagogia propagandistica, tanto di misure minimaliste quanto del massmediatico “avremmo voluto ma non ce l’hanno permesso“, liddove non potranno realizzarsi le misure più ardue previste dal contratto; premesso che costoro sono dei pericolosi impostori, cui solo chi capisce poco di politica, chi è in malafede – razzisti, omofobi, speculatori borsistici, casapoundini, integralisti cattolici – o chi è davvero ingenuo può credere.
Stabilito ciò, la domanda che ci dovremmo porre qui, è la seguente: e la Sinistra, in tutte le sue variabili, in tutte le sue ramificazioni e cespugli, in tutte le sue atomistiche scissioni – per parafrasare un divertente Guzzanti – in questo deserto sociale, morale e intellettivo, prima ancora che politico, dov’è sparita?
Evocando Godard, si potrebbe affermare che, con rigorosa, pervicace e perversa mania autopersecutoria e autopunitiva, persa tra deliri di onnipotenza moralisticheggianti e scissorie, o deleuziane schizofrenie capitalistiche e antiedipiche, ha trasformato, negli ultimi cinquant’anni, la Lotta di Classe in Lutto di Classe. A botte di storici e presenti compromessi, si è consegnata all’oblio, in un progressivo rinnegamento delle proprie matrici culturali, in una perdurevole apostasia delle proprie idee, in una costante abiura della propria Storia. Storia principalmente rivoluzionaria, ci terrei a ribadire.
Perché il Comunismo, piaccia o no – e a noi piace – è principalmente sinonimo di Rivoluzione. Purché per questa Rivoluzione, le contingenze storico-politiche, i contesti reali, i rapporti di forza offrano un minimo di possibilità realizzativa. Un po’ come accadde in quegli esaltanti, temerari, furenti anni ’70, durante i quali una generazione diede – senza riuscirci, per proprie ed altrui miopie – l’assalto al cielo.
Ordunque, proseguendo sull’impervia e dolorosa strada di questa riflessione, non posso fare a meno di dire che io non ce l’ho con i Cinqueleghe. Arruffa popoli gli uni. Razzisti e parafascisti gli altri. No. Io ce l’ho esattamente con la cultura compatibilista, legalitaria, compromissoria, riformista, pacifista, mediatrice, socialdemocratica, moralista, cospirazionista, statolatra, eurocomunista, sostanzialmente doppia e ambigua – dalla politica delle due fasi, alla rivoluzione esaltata in altri paesi ma mai realizzabile in Italia; dalle lotte operaie alla delazione operaia – che ha plasmato e condotto, con scientifica e dialettica volontà nichilista, quel Pci – e con esso i tanti Partiti Comunisti europei occidentali – distruggendo, soffocando e, infine, cancellando dalla Storia (per incomprensibile senso di quello stesso Stato che avrebbe dovuto sovvertire, o per smanie di potere personale) qualunque fremito, insurrezionale e di classe, potesse sollevarsi in questo paese. Eppure qualcuno, come detto, ci ha provato!
Da Yalta al Compromesso Storico, insomma, questa è l’Italia che le sinistre “largamente intese” (per citare la compagna Balzerani) ci hanno consegnato. L’Italia che ci hanno consegnato i Togliatti e i Berlinguer. Gli Ingrao e i Cossutta. I D’Alema, i Veltroni, i Bersani. I Bertinotti e i Vendola. E i Giudici in politica. Da Ingroia a Grasso. Un’Italia compromessa, compromettente, servile. Si è passati, in pratica, nel corso di poco meno di un secolo, dalla cultura egemonizzante alla cultura egemonizzata.
A furia di spostamenti tattici a destra, di dialoghi e trattative con i padroni e i loro rappresentanti istituzionali, a furia di invocare questioni morali e manette, questa sinistra è diventata la destra, ma non solo in Italia, se questo può consolarci. E destra neoliberista (Pd), compiendo una mutazione genetica aberrante. Un’idra a nove teste, capace di tenere dentro e fagocitare un’eterogeneità di culture politiche, ormai indigeribili da chiunque si definisca marxista. E, in questa confusione destabilizzante, la cosiddetta “sinistra radicale” si è trasformata – per riprendere quanto affermava Gramsci circa il Partito Socialista di Turati – nella peggior socialdemocrazia immaginabile.
E non siamo messi meglio sull’altro fronte. Il fronte dei duri e i puri. Quelli che, a furia di criticare tutto e tutti e affermare, con stupido orgoglio narcisistico, che loro e solo loro hanno la chiave dell’Aletheia marxista, comunista, rivoluzionaria, sono rimasti, appunto, loro: in rappresentanza di sé stessi e in deroga ad ogni principio marxiano e comunista. Compiono sfracelli sui social, e a chiacchiere fan rivoluzioni, citando Guccini. Ma poi, nell’incessante bisogno di distinguersi, restano fermi, attanagliati in un immobilismo che ricorda molto quello dell’Amleto teorizzato da Nietzsche: conscio della verità impietosa, che sottende la vita, nella sua essenza tragica, pur avendo a disposizione una potenzialità inesauribile, egli, nauseato dall’azione, finisce per non agire.
A costoro, mi verrebbe di esortarli a prendere un’arma e a farla, questa benedetta insurrezione, sempre invocata. Nessuno ve lo impedisce! Se non, forse, quei contesti storici e quei rapporti di forza, a noi comunisti, attualmente tutti sfavorevoli: ed uso un eufemismo. Nonché quello straccio di analisi del reale che una rivoluzione richiederebbe.
E allora, non di rado, guardandomi indietro, ho considerato – come la parodia amara del celebre quadro di Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato – che, alle mie spalle, non c’era più nessuno. I compagni, la classe, il popolo si erano ritirati, dissolti, liquefatti. Delusi e sconfitti. La mia generazione ha perso cantava Gaber. E io, spesso, mi sono detto, colto dall’atroce pessimismo della ragione, che siamo rimasti soli, inutili, avviliti. Soli con i nostri sogni. Soli con i nostri incubi. Soli con i nostri fantasmi. Soli con i nostri errori. Soli con le nostre merci. Merci tra le merci.
Così, per il momento, ci teniamo, o meglio dobbiamo tenerci, Mattarella – cui molti sedicenti compagni hanno cantato odi antifasciste e filo europeiste: l’antinomia della prassi – la repressione, l’omofobia, il maschilismo, il razzismo, l’Europa, il neoliberismo, l’euro, la Troika. E speriamo non si vada oltre.
Ma questo, solo finché la miccia non tornerà a bruciare. Perché il sogno di una società diversa, di un mondo migliore possibile, è ancora lì. Intatto nelle nostre intelligenze e nelle nostre mani. È una promessa di Lotta che vogliamo rivolgere, minacciosi, a tutti coloro che, in questi decenni, hanno affermato che la Storia era terminata e il Capitalismo aveva stravinto. Noi comunisti ci siamo e ci saremo. E forse, quella miccia ha già cominciato ad ardere. Di nuovo!
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