di Guglielmo Forges Davanzati
I
numerosi tentativi di individuare le cause della crisi del 2007 e, più
in particolare, della crisi dell’Unione economica e monetaria europea
sono sostanzialmente riconducibili a due: la crisi è da imputare a
eccessiva spesa pubblica, voluta da governi spendaccioni (soprattutto
nell’Europa del Sud), che ha gonfiato il rapporto debito pubblico/Pil;
la crisi – seconda interpretazione – è da ricondurre a divergenze del
saldo delle partite correnti all’interno dell’Eurozona e, dunque, in
ultima analisi, a eccessi di esportazioni nette generati dall’economia
tedesca. Quest’ultima tesi viene invocata o per legittimare misure che
facciano crescere la domanda interna in Europa o per legittimare
l’abbandono della moneta unica. Il libro di Riccardo Bellofiore,
Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua, dal titolo Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea
(Rosenberg and Sellier, 2019) prova a proporre un’interpretazione
diversa e, va detto subito, l’esito è del tutto convincente. Così come
va detto subito che non si tratta di un libro di agevole lettura. È
semmai un volume che restituisce una trattazione della crisi fondata più
su dubbi che su certezze e che evita ogni tipo di semplificazione.
Seguiamo il filo logico che tiene insieme i diversi tasselli della loro ricostruzione.
1. Il neoliberismo non è il liberismo nell’accezione classica.
La tradizione liberista ottocentesca e del primo Novecento si
fondava sulla convinzione per la quale un’economia di mercato
concorrenziale e deregolamentata avrebbe prodotto i migliori esiti
possibili in termini di efficienza. Per contro, il neoliberismo è
basato sulla convinzione stando alla quale la presenza dello Stato è
fondamentale per il buon funzionamento di un’economia di mercato.
Il neoliberismo sostiene misure di deregolamentazione del mercato
del lavoro, ma, al tempo stesso non pone freni alla formazione di
monopoli e neppure a politiche di spesa pubblica in disavanzo. Da
questa tesi discende una originale lettura della genesi della crisi
globale, non imputabile appunto a scelte di politica economica
nell’accezione (neo)liberista: la crisi deflagra per l’insostenibilità
di un modello basato sul keynesismo privatizzato – ovvero della
crescita dell’indebitamento privato (prevalentemente) negli USA –
che avviene dopo una breve parentesi di keynesismo militare (le
guerre all’Iraq dell’amministrazione Bush jr.) per tenere alta la
domanda. Il timore di insolvenza, a sua volta, si trasforma in
insolvenza reale, incidendo sul mercato del lavoro, sia sotto forma
di allungamento della giornata lavorativa, sia sotto forma di
ingresso di nuovi lavoratori nel mercato (entrambi i fenomeni
imputabili alla necessità di accrescere i redditi familiari per
rimborsare i prestiti ricevuti dalle banche). Si tratta di ciò che gli
autori definiscono “sussunzione reale del lavoro alla finanza”,
essendo ben attenti a evitare la fallace distinzione fra una
finanza “cattiva” e un’economa “reale” buona. Data, poi, la stretta
interconnessione soprattutto della finanza su scala globale, la
crisi viene esportata dagli USA all’Europa. Le passività bancarie
delle banche statunitensi diventano anche passivi nei bilanci delle
banche europee: gli interventi di ‘salvataggio’ contribuiscono a
far crescere il volume del debito e, data la contrazione del Pil,
anche il rapporto debito/Pil. Le politiche di austerità, nel
medesimo periodo, contribuiscono al deterioramento del quadro economico,
con aumento dei tassi di disoccupazione e peggioramento della
qualità dell’occupazione.
2. La crisi europea è
parte della ristrutturazione del capitalismo su scala globale e
non è esclusivamente da imputarsi al neomercantilismo tedesco.
Qui, gli autori propongono una lettura della crisi in una
“prospettiva marxiana e keynesiano-finanziaria”, prendendo le
distanze da una tesi diffusamente accettata nell’ambito della c.d.
economia eterodossa (di matrice postkeynesiana) secondo la quale la
crisi dell’Unione monetaria europea dipenderebbe da andamenti
asimmetrici delle bilance commerciali dei Paesi membri (avanzi
eccessivi in Germania, disavanzi nei Paesi periferici). La logica
seguita in questo ragionamento fa riferimento a una sequenza così
ordinabile: la riduzione delle esportazioni nei Paesi del Sud Europa –
per effetto dei più alti prezzi relativi rispetto a quelli delle
imprese del centro del continente – produce, via riduzione della
domanda aggregata, un aumento del debito in rapporto al Pil per
questi ultimi, con conseguente maggiore esposizione alle scelte dei
loro creditori. Gli autori imputano alla tesi poskeynesiana un
eccesso di semplificazione, che consiste nel ritenere che i flussi
finanziari siano un semplice riflesso dalle relazioni commerciali.
Pur riconoscendo che le crisi nei Paesi periferici non sono
imputabili a eccessivi debiti pubblici, essi aggiungono che le
asimmetrie vanno spiegate alla luce di una pluralità di variabili:
innanzitutto, le differenti strutture produttive fra i Paesi che
appartengono all’Unione monetaria europea; in secondo luogo le dinamiche
dei flussi finanziari (oggi più rilevanti rispetto alle sole
transazioni in merci); in terzo luogo, il ruolo del sistema del
credito su scala globale, che, potendo generare endogenamente
moneta, mette in discussione l’ipotesi implicita nello schema sopra
descritto per il quale sono i risparmi a generare investimenti;
infine l’idea che esista piena omogeneità fra i Paesi periferici.
3. Abbandonare l’euro è la risposta alla domanda sbagliata.
Gli autori mettono in evidenza il fatto che coloro che propongono
l’abbandono dell’euro fanno (più o meno esplicitamente) riferimento a
una vecchia teoria della dipendenza, per la quale la moneta unica
sarebbe stata immaginata per l’esercizio di un disegno intenzionale di
sfruttamento e colonizzazione della periferia da parte del centro. Sul
piano macroeconomico, viene fatto rilevare che il capitalismo europeo è
sempre più interconnesso, attraverso reti globali del valore e processi
di centralizzazione senza concentrazione. Viene riconosciuto, nel libro,
che l’Unione monetaria europea costituisce un’ulteriore ‘tappa’ di
attacco al lavoro, ma, al tempo stesso, viene riconosciuto che questa
strategia ha natura globale, la aveva già prima della stipula del
Trattato di Maastricht e che, per conseguenza, nel ‘nuovo’ capitalismo
non esistono soluzioni nazionali a problemi che sono sempre più
sovranazionali. In particolare, nel caso europeo, occorre tener conto
delle relazioni che intercorrono fra il capitale tedesco e quello delle
periferie (e dell’Italia in particolare), laddove il capitale tedesco è
ormai pienamente integrato con l’Est Europa e, nel Sud Europa, con
imprese italiane localizzate al Nord. A fronte di questo, gli autori
ritengono che l’architettura istituzionale europea, se è destinata a
crollare, lo è per ragioni politiche e “non già con uno schianto ma con
un lamento” (p.92).
Il volume contiene molte altre tesi su
aspetti correlati a quelli qui descritti, centrati prevalentemente sulle
crescenti interconnessioni (reali e finanziarie) fra imprese. La tesi
che merita, a mio avviso, la massima considerazione attiene alle
prescrizioni di politica economica. Ritenere, come molti fanno a
sinistra, che siano sufficienti politiche fiscali espansive è un’ipotesi
fuorviante. Occorre che queste siano funzionali a interventi sulla
struttura produttiva, in particolare quella più fragile nei Paesi
periferici (Italia inclusa), al fine di generare incrementi di
produttività del lavoro. La proposta viene formulata tenendo ben in
considerazione il fatto che essa presuppone diversi rapporti di forza
fra capitale e lavoro (più favorevoli a quest’ultimo). Il capitale ha il
massimo interesse a politiche di moderazione salariale, sia perché
queste assicurano più alti margini di profitto rispetto all’opzione
alternativa, sia perché – nel gioco neo-mercantilista – costituiscono
una pre-condizione per l’aumento delle esportazioni via riduzione dei
prezzi.
Questo volume ha numerosi pregi. In primo luogo, in
linea con la migliore tradizione italiana di studi economici (tradizione
pressoché persa a seguito dell’importazione di teorie elaborate negli
Stati Uniti), esso fornisce un contributo all’analisi della crisi
globale e dell’Unione Monetaria Europea che combina storia economica e
politica e teoria economica.
In secondo luogo, gli autori sono
ben attenti a non cadere nell’ingenua convinzione – molto diffusa sia
sul fronte pro-euro, sia sul versante no-euro – che siano sufficienti
soluzioni ‘tecniche’ a problemi che in ultima istanza attengono ai
rapporti di forza fra capitale e lavoro e, dunque, alla dimensione
politica. Infine, è da salutare con grande favore la presa di distanza
dai (tanti) economisti che si fanno o cercano di farsi ‘consiglieri del
Principe’. Una presa di posizione implicita in un’argomentazione che
esclude ogni semplificazione e che invita semmai a un lungo lavoro di
elaborazione teorica (e non solo in ambito economico) per capire
innanzitutto quale capitalismo è entrato in crisi per poi individuare azioni di politica economica.
(22 febbraio 2019)
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