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14/02/2019

Yemen - La Camera USA vota per l'abbandono di Riyadh

A dicembre era stato il Senato, ieri la Camera lo ha finalmente seguito: i deputati statunitensi hanno votato a favore di una mozione che chiede la fine dell’assistenza militare americana alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita impegnata in una brutale guerra contro lo Yemen.

Il 13 dicembre con 56 voti a favore e 41 contrari, il Senato – a maggioranza repubblicana – aveva per la prima volta in 45 anni invocato il War Power Act, legge entrata in vigore nel 1973 durante l’era Nixon e con cui il Congresso si riprendeva il potere di dichiarare guerra e di ritirare le truppe americane in caso di dispiegamento senza autorizzazione. Erano gli anni devastanti della guerra in Vietnam.

Ora è un altro Vietnam, quello yemenita, a muovere il Congresso Usa. Quella mozione approvata dal Senato era stata bloccata dalla Camera ancora a maggioranza repubblicana. Ieri, però, la “nuova” Camera post-midterm ha seguito le orme dei senatori: con 248 s e 177 no i deputati hanno approvato una risoluzione simile, che chiede la fine del sostegno Usa alla coalizione a guida saudita. Stavolta non c’è stato – o quasi – un voto bipartisan: solo 18 repubblicani hanno appoggiato la mozione dei democratici, che dopo il voto di midterm di novembre sono maggioranza alla Camera.

Anche stavolta la mozione si fonda sul War Power Act. Prossima mossa: la mozione passa al Senato per il voto. Se dovesse passare finirà nello Studio Ovale, sul tavolo del presidente, per la firma: se Trump dovesse porre il veto, sarebbe il primo della sua presidenza.

L’obiettivo dei parlamentari è interrompere l’assistenza che da anni Washington fornisce in Yemen a Riyadh, dalla condivisione di intelligence ai rifornimenti in volo, fino alla logistica. “Non si tratta di una complessa questione di politica estera, ma di decenza umana – aveva detto a gennaio il deputato californiano democratico Ro Khanna, firmatario della proposta, in preparazione del voto – Questa risoluzione dice con chiarezza che la coalizione deve interrompere la campagna di bombardamenti e sedersi al tavolo del negoziato”. “Abbiamo aiutato a creare e a peggiorare la più grande crisi umanitaria del mondo – ha detto ieri la parlamentare dem Barbara Lee – Il nostro coinvolgimento in questa guerra, francamente, è una vergogna”.

Per il presidente Trump, in rotta con il Congresso da mesi, tra shutdown e negoziati sul muro con il Messico, si tratta dell’ennesima frenata. In gioco c’è l’intera strategia mediorientale dell’attuale amministrazione che su Arabia Saudita e Israele fonda i perni della propria politica estera. Lo si è visto bene dopo il brutale omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi: con Congresso e Cia che hanno apertamente puntato il dito sul principe ereditario e reggente de facto di Riyadh, Mohammed bin Salman, Trump ha fatto finta di nulla e proseguito normalmente nei rapporti con la petromonarchia.

In ballo c’è l’architettura trumpiana per la regione mediorientale, il conflitto contro l’Iran che sta costruendo passo dopo passo grazie al sostegno indefesso degli alleati regionali e la normalizzazione – in corso in questi giorni a Varsavia – tra paesi sunniti e Israele.

L’Arabia Saudita, da parte sua, sente la pressione montare. Una settimana fa è stato il Marocco ad abbandonare la coalizione sunnita anti-Houthi in Yemen. Si sa ancora poco, di certo Rabat ha sospeso il coinvolgimento dei propri caccia nella campagna di bombardamenti del paese del Golfo e non parteciperà più a meeting degli Stati coinvolti nella guerra.

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