A dicembre era stato il Senato, ieri la Camera lo ha finalmente
seguito: i deputati statunitensi hanno votato a favore di una mozione
che chiede la fine dell’assistenza militare americana alla coalizione
guidata dall’Arabia Saudita impegnata in una brutale guerra contro lo
Yemen.
Il 13 dicembre con 56 voti a favore e 41 contrari, il Senato – a maggioranza repubblicana – aveva per la prima volta in 45 anni invocato il War Power Act,
legge entrata in vigore nel 1973 durante l’era Nixon e con cui il
Congresso si riprendeva il potere di dichiarare guerra e di ritirare le
truppe americane in caso di dispiegamento senza autorizzazione. Erano gli anni devastanti della guerra in Vietnam.
Ora è un altro Vietnam, quello yemenita, a muovere il
Congresso Usa. Quella mozione approvata dal Senato era stata bloccata
dalla Camera ancora a maggioranza repubblicana. Ieri, però, la “nuova”
Camera post-midterm ha seguito le orme dei senatori: con 248 s e
177 no i deputati hanno approvato una risoluzione simile, che chiede la
fine del sostegno Usa alla coalizione a guida saudita. Stavolta non c’è
stato – o quasi – un voto bipartisan: solo 18 repubblicani hanno
appoggiato la mozione dei democratici, che dopo il voto di midterm di
novembre sono maggioranza alla Camera.
Anche stavolta la mozione si fonda sul War Power Act. Prossima
mossa: la mozione passa al Senato per il voto. Se dovesse passare
finirà nello Studio Ovale, sul tavolo del presidente, per la firma: se
Trump dovesse porre il veto, sarebbe il primo della sua presidenza.
L’obiettivo dei parlamentari è interrompere l’assistenza che da anni
Washington fornisce in Yemen a Riyadh, dalla condivisione di
intelligence ai rifornimenti in volo, fino alla logistica. “Non si
tratta di una complessa questione di politica estera, ma di decenza
umana – aveva detto a gennaio il deputato californiano democratico Ro
Khanna, firmatario della proposta, in preparazione del voto – Questa
risoluzione dice con chiarezza che la coalizione deve interrompere la
campagna di bombardamenti e sedersi al tavolo del negoziato”. “Abbiamo
aiutato a creare e a peggiorare la più grande crisi umanitaria del mondo
– ha detto ieri la parlamentare dem Barbara Lee – Il nostro
coinvolgimento in questa guerra, francamente, è una vergogna”.
Per il presidente Trump, in rotta con il Congresso da mesi,
tra shutdown e negoziati sul muro con il Messico, si tratta
dell’ennesima frenata. In gioco c’è l’intera strategia mediorientale
dell’attuale amministrazione che su Arabia Saudita e Israele fonda i
perni della propria politica estera. Lo si è visto bene dopo il
brutale omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi:
con Congresso e Cia che hanno apertamente puntato il dito sul principe
ereditario e reggente de facto di Riyadh, Mohammed bin Salman, Trump ha
fatto finta di nulla e proseguito normalmente nei rapporti con la
petromonarchia.
In ballo c’è l’architettura trumpiana per la regione mediorientale,
il conflitto contro l’Iran che sta costruendo passo dopo passo grazie al
sostegno indefesso degli alleati regionali e la normalizzazione – in
corso in questi giorni a Varsavia – tra paesi sunniti e Israele.
L’Arabia Saudita, da parte sua, sente la pressione montare. Una settimana fa è stato il Marocco ad abbandonare la coalizione sunnita anti-Houthi in Yemen.
Si sa ancora poco, di certo Rabat ha sospeso il coinvolgimento dei
propri caccia nella campagna di bombardamenti del paese del Golfo e non
parteciperà più a meeting degli Stati coinvolti nella guerra.
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