Ad una prima lettura, questa breve premessa potrebbe sembrare fuori luogo. Ma se si tenta di districare il fondamentale nodo dialettico dell’era “post-ideologica”, si rischia ancora di scoprire una realtà dominata da un conflitto tutto politico, combattuto all’oggi sul crinale delle relazioni tra capitale e lavoro. Gli effetti di questa cruciale contrapposizione, ormai evidenti, hanno a che fare con lo sgretolamento delle pratiche democratiche nel loro senso più profondo e con l’inarrestabile impoverimento di massa che sta sperimentando l’intera popolazione mondiale. Le cause, ahi noi, sono invece ancora lontane dall’essere comprese.
Nel tentativo di portarne alla luce almeno alcune, è utile partire dalle parole del presidente della Bce, Mario Draghi, pronunciate solo qualche giorno fa in un discorso alla Commissione Affari Economici del Parlamento Europeo: “un Paese perde sovranità quando il debito è troppo alto” perché a quel punto “sono i mercati che decidono”. In quest’affermazione, che ha comunque il pregio della chiarezza, la forza disciplinante delle sferzate neoliberiste restringe il perimetro della democrazia alle sole scelte compatibili con una tranquilla accumulazione di capitale, mentre il debito pubblico diviene il cappio al collo dell’interesse collettivo: questa dunque la metanarrazione a guardia dello stato di cose presente.
Ma le cose stanno realmente così? E se si, in che termini? Per provare a capirne di più, occorre di nuovo muoversi tra le increspature della storia.
Era l’11 settembre del 1973 quando un colpo di Stato in Cile dava vita al primo esperimento “sul campo” delle ricette economiche liberiste, elaborate qualche anno prima soprattutto presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Chicago. Di li a poco, i due colossi del conservatorismo liberale, Ronald Reagan e Margaret Thatcher, avrebbero tributato il trionfo in tutto l’occidente dell’idea di un necessario ritorno a mercati privi di regolamentazione, governati dalle sole forze della domanda e dell’offerta e liberati dalle storture autoritarie dell’intervento statale.
Sull’altare dello Stato Minimo, pezzo per pezzo veniva smontato il complesso di politiche pubbliche messe in atto nei decenni precedenti a garanzia del benessere sociale; venivano indebolite le organizzazioni sindacali; veniva proposto (e spesso realizzato) l’annullamento delle regolamentazioni poste a limite dell’indiscriminata ricerca di profitto; veniva chiesta (e praticata) la privatizzazione dei servizi pubblici.
Portato avanti in nome della libertà individuale e di una maggiore efficienza economica, l’effetto del processo appena descritto fu peraltro l’esatto opposto: l’aumento delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e la precarizzazione della vita di milioni di persone contribuirono infatti a corrodere lentamente tanto le possibilità di mobilità sociale quanto i saggi di rendimento del capitale privato. Occorreva quindi forzare una via d’uscita attraverso ulteriori accelerazioni liberiste, questa volta attuate sul terreno dei mercati finanziario e monetario.
In questo senso, se la letteratura economica tornava a guardare alla stabilità dei prezzi come a un valore supremo (indicando come imprescindibile presupposto l’indipendenza delle banche centrali), le istituzioni finanziarie subivano a loro volta profonde modifiche nel quadro normativo di riferimento, modifiche tutte dirette alla piena liberalizzazione dei movimenti di capitale.
Le carenze di domanda create dalla riduzione dei salari sarebbero state parzialmente mitigate dal proliferare dei rapporti di debito/credito, ciò avrebbe consentito un sostanziale sganciamento della dinamica dei consumi da quella dei redditi da lavoro. Per contro, nel circuito degli scambi economici e dell’accumulazione di capitale, al sentiero “Denaro-Merce-Denaro” si sarebbe sovrapposto sempre di più quello apparentemente più breve e profittevole nel quale il capitale diviene quantità maggiore di sé senza alcuna creazione di “merce reale”.
Tuttavia, come se si leggesse un libro in cui ogni capitolo racconta sempre la stessa storia, ancora una volta le vittorie liberiste non si sarebbero tradotte che in precarietà individuale e crescente disparità nella distribuzione dei redditi, fenomeni cui ora si sarebbe aggiunto il susseguirsi di crisi finanziarie sempre più frequenti, imprevedibili, violente.
E’, questa, la globalizzazione dei mercati, accompagnata a braccio dalla finanziarizzazione dell’esistente, costruita nel solco della “fine della Storia” e sullo sfondo di una narrazione tutta politica, ove il debito appare solo come minaccia per disciplinare le pulsioni democratiche (debito pubblico) o come forza di “creazione distruttrice” in grado di modificare la distribuzione dei redditi a favore dei più ricchi (debito privato).
Ribaltare i rapporti di forza a partire dal sovvertimento del punto di vista dominante diviene allora conditio sine qua non del nostro stare nella storia. Abbiamo l’urgenza di riaffermare l’universalità dei diritti sociali (e la spesa in deficit ne può essere strumento utile e sostenibile), di raccontarne lo smantellamento non come fattore di modernità ma come cedimento a tentazioni autoritarie. Ancora. Abbiamo il dovere di rigettare con forza l’ormai quasi inarrestabile finanziarizzazione dell’economia, strumento in mano al capitale per mettere a profitto ogni aspetto dell’esistente. E’ da qui che vorremmo partire, dalla costruzione di una nuova visone del mondo, volta all’abbandono completo dei dogmi del liberismo.
Naturalmente, queste poche righe non sono che un primo passo, un piccolo quanto necessario contributo per resistere all’ideologia della perfezione dei mercati e a tutti i suoi eclettici epigoni che ne fanno da megafono.
Febbraio 2019, Potere al Popolo – Civitavecchia
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Nell’apprezzare questo intervento, la Redazione di Contropiano contribuisce con un’altra citazione che ci sembra pregnante:
Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.Fonte
Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poichè la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna.
(Il Capitale, libro I, Sezione VII, Il processo di accumulazione del capitale, Capitolo 24, La cosiddetta accumulazione originaria)
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