28/02/2019
Il Venezuela visto da dentro “i barrios”
Caracas. Se vuoi conoscere lo spirito più profondo del processo bolivariano, devi andare dritto al suo cuore. E il suo cuore sta nei quartieri popolari, quelli che in cui il popolo, quello brutto, sporco e cattivo, quello occultato e vilipeso, vive e si organizza.
“Barrio 23 de enero”, Caracas, un quartiere in cui alle costruzioni volute dal dittatore Marcos Perez Jimenez si alternano le auto-costruzioni che nei decenni la gente ha via via messo su. Blocchi di cemento enormi, case popolari, si alternano ad uno scenario di piccole abitazioni costruite con i materiali che si avevano sottomano. Un quartiere il cui nome la dice già lunga sullo spirito rivoluzionario di chi lo abita: 23 de enero ricorda la data, il 23 gennaio 1958, in cui fu abbattuta la dittatura di Perez Jimenez. Cominciava allora, ben 61 anni fa, la cosiddetta “Quarta Repubblica”, una spartizione di potere tra liberali e conservatori, tramite il patto di Punto Fijo. L’oligarchia venezuelana, con l’inganno dell’alternanza elettorale, avrebbe così governato fino al 1999, anno dell’insediamento di Chàvez.
È nel 23 de enero che si possono conoscere le esperienze più avanzate di organizzazione popolare. Decine di associazioni, gruppi, collettivi, che provano a coprire ogni esigenza della popolazione del quartiere: dal cibo alla salute, dalla cultura allo sport. Qui l’arrivo del chavismo non ha significato l’inizio di tutto, ma l’inizio di una nuova storia. Quella in cui i brutti, sporchi e cattivi cominciano ad esistere.
Anche per lo Stato, per la “Quinta Republica”. Che, orrore degli orrori, li prende addirittura a riferimento. Dalle esperienze di autorganizzazione popolare, infatti, vengono fuori alcune delle più importanti leggi di uno Stato che ha avviato un processo di transizione dal capitalismo al socialismo. E qui questa parola non è più taciuta, non te ne devi vergognare. La si pronuncia con l’orgoglio di chi sa di essere un attore fondamentale, per quanto piccolo, della lotta per raggiungere quest’orizzonte. In che rapporto sta una “comuna” come la “Comuna Simòn Bolivar” con lo Stato? In un rapporto dialettico, in cui né si aspetta che tutto cali dall’alto, né si vive come se lo Stato non esistesse; in cui le leggi dello Stato traggono linfa dalla vita reale e quotidiana, non sono costruzioni perfette ma astratte, ma cercano di fare un passettino in avanti, di dare gli elementi normativi affinché il meglio del Venezuela possa arrivare anche nelle altre città e negli altri “barrios” del paese.
Parliamo di vita quotidiana, di organizzare una risposta ai bisogni concreti. Come il cibo. Così nella Comuna Simòn Bolivar hanno messo su una panetteria autogestita, che ogni giorno sforna pane per le circa 30.000 persone che ne fanno parte. Come la salute, con la costruzione di un piccolo centro che permette di dare soddisfazione ai bisogni di base. È qui che incontro Mariela e, cominciando a parlare, scopro che è della Isla de la Juventud. Non Venezuela, ma Cuba. E non puoi non renderti conto che mentre Trump e Duque, il presidente colombiano, organizzano la farsa degli “aiuti umanitari”, un cavallo di Troia per giustificare un’aggressione militare, c’è chi da anni è davvero accanto al popolo venezuelano. Cuba è stato un alleato chiave per avviare progetti come Misiòn Milagro, che ha permesso a milioni di venezuelani di recuperare letteralmente e metaforicamente la vista.
Nella Comuna Simòn Bolivar ci sono tanti progetti e tanti aspetti che meriterebbero di esser raccontati, di esser spiegati. Non perché siano perfetti, i problemi esistono anche qui. Ma perché danno un’idea di quello che il popolo organizzato, alla base e in governo, può ottenere. Che non è comprensibile solo alla luce della materialità della vita quotidiana, ma anche dei livelli di crescita culturale, di avanzamento della coscienza. Francisca lo spiega in poche parole: “ora sappiamo chi siamo. Il chavismo ci ha restituito l’orgoglio della nostra identità, della nostra storia, prima ancora che un progetto di futuro. Non eravamo una massa informe, oggi sì che siamo ‘popolo’ ”.
Qui il video
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