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12/02/2019

Mahmood: una diversità che non c’è


Premetto alle mie considerazioni che da trentacinque anni non seguo il festival di Sanremo, da dieci non possiedo più un televisore e non mi viene certo in mente di uscire di casa per andare a seguire quella rassegna sempre più banale musicalmente e antropologicamente triste.

Se prendo la parola su quanto accaduto all’ultimo Festival di Sanremo è solo perché la vittoria di Mahmood ha assunto in molti social e giornali un significato politico, credo peraltro senza grande interesse del cantante se non per questioni di audience.

L’ormai onnipresente media-premier Salvini, che ci informa quotidianamente sul suo amore per la Nutella, il ragù Star e il Moscow mule (ma lo beve nel bicchiere di rame?), è intervenuto sulla questione dichiarando con un tweet che avrebbe preferito la vittoria di Ultimo. Quest’Ultimo se l’è presa con i giornalisti per essere arrivato secondo, ma con quel nome d’arte che ha scelto, gli è andata già molto bene.

Salvini naturalmente può preferire quello che vuole, tra le canzonette di Sanremo, però ecco subito controtwittare la sua ex fidanzata, una show girl della TV, che sostiene che “l’incontro di culture diverse genera bellezza” (ma della canzone o del cantante?). Fin qui, una piccola ripicca tra ex. Ma entra in campo niente meno che Laura Boldrini, con il suo autorevole passato istituzionale, per dare ragione alla soubrette non più salviniana. E allora la questione diventa seria. Infatti subito qualche radio cosiddetta “popolare” comincia a parlare del giovane di “seconda generazione” che ha vinto il Festival.

Ma di chi si parla, infine? Di un giovane di ventisette anni, nato a Milano da padre egiziano e da madre italiana con cui ha vissuto sin da bambino, dopo la separazione dei genitori. E’ cresciuto in un quartiere della periferia milanese, dove è conosciuto e benvoluto da molti, ha studiato nelle scuole italiane, la sua lingua madre è quindi l’italiano, non parla arabo e infine la canzone con cui ha vinto Sanremo rispetta i criteri di molta produzione italiana degli ultimi tempi.

Non si può certo dire che con questa storia personale Mahmood si possa considerare una “seconda generazione” dell’immigrazione. Probabilmente ha condiviso la stessa vita, magari non molto sfarzosa di molti giovani italiani cresciuti nelle periferie urbane. Per quali ragioni, quindi, sottolinearne una presunta “diversità”?

Semplicemente, dovremmo forse accettare l’idea che nella società italiana di oggi, come in tutta Europa, può essere normale avere un padre egiziano senza che questo desti stupore. Dal punto di vista musicale, come ho accennato, la canzone presentata da questo giovane è del tutto inserita in un filone di similrap commerciale italiano e, salvo uno strano riferimento a “chi beve champagne durante il Ramadan” (?), inserito forse per la metrica, è una vieta storiella italiana come tante, dove, se ho ben capito, si accusa una ragazza di essere stata con qualcuno per soldi (si sa come sono le donne...).

Ovvio che nel 2018 lo stile, i temi, l’orchestrazione non siano alla Nilla Pizzi o alla Gino Latilla, ci mancherebbe che la “canzone italiana” fosse ancora quella. Ma è chiaro che, a loro tempo, Adriano Celentano o Peppino di Capri abbiano costituito rotture musicali ben più importanti.

Allora, mi chiedo perché tutto questo ciarlare, anche “a sinistra”, inventandosi la bellezza di una “diversità” che non esiste. Anzi creando danno, perché si enfatizza una “diversità” che in realtà si fatica a cogliere.

Ricordo che nel 1998, quando la Francia vinse i mondiali di calcio, la stampa esultò sottolineando il carattere multietnico di quella nazionale, composta da “blanc, black e beur” quindi da bianchi, neri e immigrati prevalentemente maghrebini (poi evidentemente tutti naturalizzati francesi e tali da anni e anni). Insomma, si volle esaltare il multiculturalismo francese, forse anche con oneste intenzioni. Tuttavia, l’antropologo Jean-Loup Amselle contestò tali entusiasmi poiché, scrisse, tendevano a sottolineare eccessivamente delle diversità che in una società moderna dovrebbero essere considerate normali.

Quindi, attenzione: Mahmood, alla fine, è un giovane cantante italiano come tanti. Può piacere o non piacere, ma buttarla tanto in politica forse è esagerato.

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