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26/02/2019

Una pericolosa autonomia regionale

Sembra ormai di dominio pubblico la richiesta, avanzate da tre importanti regioni Italiane, di maggiore autonomia dallo stato centrale, anche se forse in pochi hanno compreso sino in fondo il valore non solo politico di tale richiesta. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che da sole producono oltre il 40% del PIL nazionale, hanno infatti chiesto di procedere, sull’onda del referendum sostenuto dalla Lega nelle sue due regioni di maggior rappresentanza e la pessima riforma del Titolo V approvata nel 2001 dal governo Berlusconi, con un accordo capestro e liberatorio dal "dominio" di Roma.

In pratica i Presidenti di queste Regioni chiedono al governo a guida “Leghista a 5 Stelle”, di procedere all’applicazione dell’accordo siglato nel febbraio 2018 con il Governo Gentiloni che, in barba al parlamento, condurrebbe a una vera e propria secessione per ora solo amministrativa.

Presentata come un’operazione banale e in continuità all’applicazione dell’art.116 della Costituzione, questa scelta politica, applicata senza consultare la popolazione e il parlamento italiano, rischia in realtà di minare seriamente l’unità nazionale. Un atto di totale mancanza di rispetto verso le nostre istituzioni, da parte dei Presidenti di regione, che farebbe impallidire anche i più iperliberisti.

Le singole intese, sottoscritte dal precedente governo, infatti definiscono chiaramente le regole a senso unico. Ovvero se verranno sottoposte al dibattito alle Camere del parlamento, non potranno essere emendabili ne sottoponibili a referendum abrogativo. Praticamente una vera e propria legge delega che rende impossibile, senza accordo tra le parti, la sua modifica per i prossimi 10 anni.

Verso lo Stato autonomo

In concreto la “secessione dei ricchi”, come qualcuno l'ha già soprannominata, di fatto pone un problema fondamentale nell’equilibrio del nostro ordinamento statale. E’ impossibile negarlo. Basta la lettura del testo, nel quale si chiede di avere il totale controllo sul proprio reddito fiscale, traducibile in meno soldi verso le altre regioni; la gestione degli incentivi alle imprese, della cassa integrazione e delle politiche per l’occupazione e il controllo sui fondi destinati alla costruzioni delle infrastrutture. Un attacco allo stato centrale che comincia dall’organizzazione delle scuole, compresa la scelta non solo del programma formativo ma anche dell’assunzione di insegnanti solo residenti in loco con incentivi differenziati rispetto alla retribuzione nazionale; il rapporto e finanziamento alle scuole private e la gestione dei programmi di scuola-lavoro concordata direttamente con le piccole e medie imprese locali. Per non parlare poi della questione Sanità che prevederebbe un secco taglio dell’utilizzo delle prestazioni sanitarie da parte di quei cittadini non residenti e provenienti da altre regioni d’Italia con scarse risorse o inefficienze sanitarie. Un operazione questa che causerebbe lo smantellamento dell’assistenza pubblica sanitaria sino ad oggi conosciuta ed un incentivo a quella privata o peggio un allargamento, con enorme dispendio di risorse, verso quella convenzionata che porterebbe al sicuro collasso di tutto il sistema, l’espulsione dalle cure di chi non potrà permetterselo e l’eliminazione concreta di ogni forma di prevenzione.

Anche l’Ambiente è oggetto del braccio di ferro: dalla gestione dei rifiuti, al soddisfare sviluppi immobiliari o peggio dare risposte lobbistiche ad organizzazioni regionali di ogni tipo, come ad esempio i cacciatori, oggi sottoposti a ben definiti regolamenti nazionali; alla gestione delle decisioni della sovraintendenza, dei monumenti o dei progetti turistici.

Non c’è che dire, con questa riforma del regionalismo, come piace tanto chiamarla al nostro presidente di regione Stefano Bonacini, si gettano delle pericolose basi indirizzate non verso la creazione di uno stato federale, ma verso una realtà completamente autonoma ed indipendente. Soprattutto per quanto riguarda Veneto e Lombardia, che da oltre 30 anni sognano questo processo di liberazione. Non troppo differente, nonostante si presenti un po’ più soft, quella dell’Emilia Romagna. Una scelta dell’attuale giunta regionale che definirei strategia amministrativa sino ad oggi mai sperimentata.

Il fantasma del Pareggio di Bilancio

La prima aberrazione e pericolosità di questa proposta, sta nella totale mancanza di una seria riforma e cancellazione della norma che prevede il pareggio di bilancio in Costituzione. Nodo cruciale e fondamentale ostacolo alla liberazione degli investimenti pubblici necessari al nostro paese. Inserito dal governo Monti ed imposto dall’Europa, il fiscal compact ha il compito, per un paese fortemente indebitato come il nostro, di bloccare il crescendo della spesa pubblica all’interno del deficit del 3%. Un vincolo che non permette ormai da diversi anni, a numerosi comuni italiani di poter investire sul territorio, pur avendo nelle proprie casse fondi risparmiati grazie ad una buona amministrazione attuata nel rispetto degli accordi europei. Un problema questo, neanche preso in considerazione da questa riforma o avanzata parallelamente da tutte e tre le regioni richiedenti.

E’ stata solo una dimenticanza, stupidità politica economica o altro?

Abbandonato il progetto leghista dell’uscita dall’euro, per ovvi motivi protezionistici rivolti alle aziende internazionalizzate del nord, e constatato l’impossibilità reale di contenere una sempre più crescente spesa pubblica, pena la perdita del consenso elettorale che ormai da tempo si basa su forme di rappresentanza politica mafiose e clientelari, la scelta non poteva essere altra. Ovvero aggirare l’ostacolo superando il ruolo di amministratori regionali in un contesto nazionale e abbandonare al proprio declino le popolazioni meno produttive del paese.

“Da soli, grazie al nostro prodotto interno lordo, – avranno pensato questi Presidenti – vedrai che il 3% di deficit lo riusciamo mantenere e a dialogare così a pari livello con l’Europa”.

Quale progetto dietro le proposte?

E’ bene fare una distinzione dalle due proposte per meglio comprendere gli scenari possibili.

Per quanto riguarda Veneto e Lombardia, questa richiesta di autonomia colloca un ulteriore tassello alla scelta secessionista leghista camuffata e sorretta da due azioni strategiche: la prima riguarda la promessa di superare la crisi economica attraverso un buon governo locale non attuabile senza una generalizzata pulizia etnica e gestione diretta della ricchezza prodotta. L’altra, uguale e contraria, riguarda la scelta politica Salviniana camuffatoria che attraverso il “prima gli italiani”, esprime mediaticamente un progetto di unità nazionale in chiave anti-europea. Una furbizia elettoralistica che ha il duplice scopo di proteggersi dalla possibile reazione del Presidente della Repubblica e dalle sue istituzioni e organizzazioni democratiche e della ricerca di maggior forza e consenso ottenibile anche grazie all’arruolamento delle frange più estremiste di indole nazionalista e fascista presenti nel paese e in alcuni apparati dello Stato.

Un gioco assai pericoloso e che non tiene conto di due possibili scenari: la reazione della popolazione del Sud d’Italia quando sarà svelato il vero progetto secessionista (non dimentichiamo che oltre il 50% della ricchezza presente al sud proviene dal nord d’Italia) e dei comparti produttivi del nord del nostro paese che saranno fortemente penalizzati dalla mancata esportazione verso sud dei loro beni prodotti. Un pericolo serio che anche le forze liberiste, imprigionate dalla figura politica ed economica di Silvio Berlusconi, cominciano a comprendere. Basti osservare i continui appelli e preoccupazioni di Confindustria ad avviare gli investimenti in infrastrutture, di cui la TAV è il principale progetto, e il movimento d’opinione e politico dell’ex ministro Calenda per il momento inattuabile senza la macchina organizzativa del PD.

Il Partito Democratico e la sfida alla globalizzazione europea

Di diversa natura la scelta del PD dell’Emilia Romagna, con la sua richiesta di autonomia. Una partita tutta improntata alla propria sopravvivenza non solo politico partitica ma economica. La volontà di costituire un possibile “argine” locale al fallimento del progetto liberista nazionale sostenuto dalla Renzi project è una chiara e concreta risposta alla probabile vittoria della Lega e al suo elettorato nella nostra regione. Qui siamo di fronte alla possibile fine di un periodo storico amministrativo ben definito che ha retto, riciclandosi dopo la caduta del Muro, grazie a privatizzazioni, accordi con parti importanti del clero politico e religioso o frange politiche radicali di sinistra discretamente rappresentate territorialmente. Un modello di organizzazione pubblica che ha mirato più a proteggere i propri spazi di potere e controllo, svendendoli, che contribuire ed accettare la necessaria sfida alla globalizzazione e all’innovazione nel rispetto di una storia politica che su un possibile modello alternativo ha costruito la propria grandezza.

In concreto la proposta di autonomia di questa giunta regionale, richiesta al governo centrale, esprime di fatto un messaggio chiaro a queste nuove forze economiche globalizzate presenti sul territorio che vogliono sfruttare le capacità manifatturiere in completa libertà di movimento e autonomia legislativa ed economica. Superando il diritto e il rapporto con i corpi intermedi, rappresentati dalle organizzazioni sindacali e civili e avendo come unici interlocutori i legiferatori regionali proni alle loro richieste. Portatori di una politica economica espansiva che guarda all’Europa come referente diretto senza interposizione del governo nazionale.

La reazione 5 stelle al progetto di autonomia avanzato

E’ ormai un dato numerico accertato l’attuale sorpasso della Lega sul Movimento 5 Stelle che ancora regge, su scala nazionale, soprattutto grazie al reddito di cittadinanza proposto. Una difficoltà che potrebbe trasformarsi nel loro totale declino se questa riforma delle regioni dovesse attuarsi a breve.

Non è infatti per amore dell’unità nazionale che i Membri del Governo 5S hanno deciso di fermare questo progetto di autonomia ma perché annienterebbe, causa il mancato sostegno economico, il reddito di cittadinanza, madre di tutte le battaglie cinque-stellate. Perché se è vero che anche al nord, dovrebbero essere in molti ad usufruirne, non si può nascondere, soprattutto anche a causa del livello di povertà accertata, che questa riforma è tanto cara al sud Italia. Gli stessi che hanno consentito al Movimento 5S di superare il Partito Democratico e controbilanciare l’esito elettorale della Lega.

Purtroppo sino a dopo le elezioni europee non sapremo quale futuro avrà questo Governo ma certo è che tutto potrebbe cambiare. Potrebbero saltare gli accordi presi tra le parti anche perché non è ancora comprensibile sino a quando questo “do ut des” in chiave campagna elettorale, potrà continuare. Del resto speriamo almeno che il fatto che i 5S abbiano votato a sostegno del Ministro Salvini, per garantirgli l’impunità per la questione della nave Diciotti, induca lo stesso a sostenere il fermo della richiesta di autonomia regionale tanto cara ai suoi amministratori e compagni di partito. Anche se forse reciprocamente sulla questione del blocco della TAV, i penta-stellati dovranno fare un passo indietro e lasciare che il treno fili diritto verso Lione o concedere qualcos’altro al loro esuberante lumbard.

Il deficit pubblico e la riforma dello Stato e delle Regioni.

Allora tutto bene ciò che resta immodificabile? Una riforma delle regioni non è necessaria e semplicemente se tutti pagassero le tasse le cose funzionerebbero? O forse i vari esperti di natura politica differente, assunti dagli ultimi quattro governi, hanno sbagliato nell’evidenziare dopo una corretta analisi, spechi e sacche di sostegno clientelare vigenti?

Semplice ed improbabile è la superficialità con cui il problema degli sprechi e dei “cattivi” investimenti viene affrontato da questo Governo e da quelli precedenti che si sono presentati come alternativi dimostrandosi di fatto perpetuanti questo sistema apparentemente immodificabile.

La strada intrapresa per questa riforma delle autonomia ha di fatto evidenziato un altro problema che coinvolge sia la destra sia la sinistra di Governo di questo paese, ed è il profondo limite non solo delle classi politiche rappresentative e dei suoi referenti popolari elettorali ma soprattutto delle classi economiche nazionali che ancora oggi ritengono che l’occupazione e il mantenimento dei vecchi livelli produttivi possa essere sostenuto senza investimenti privati e pubblici e difeso attraverso la svalutazione del valore economico del lavoro (Jobs Acts e Fornero) e riducendo gli spazi di democrazia rappresentativa (riforma della Costituzione e revisione delle autonomie regionali) anche dentro e fuori il mondo del lavoro (Decreto Sicurezza).

Non si può nascondere la necessità di ridistribuire in loco e non solo, parte importante di ricchezza prodotta, senza che questa venga sprecata; di avere realmente una ridistribuzione universale della tutela sanitaria e scolastica nel rispetto degli equilibri economici unilaterali, da nord a sud dello stivale; di permettere alle regioni di poter usufruire di una quanto mai necessaria autonomia investigativa riguardo evasione fiscale e contributiva; di una politica mirata e calibrata dell’organizzazione del lavoro, degli affitti popolari, della gestione del patrimonio ambientale e di politiche che mirino alla tutela delle persone e delle famiglie; ma se per affrontare queste nuove sfide non si comprende il pericolo di una politica autarchica applicata in un contesto ormai globalizzato e a crescita demografica praticamente a zero, il problema è molto più serio di quanto si possa credere. Una seria riforma dell’autonomia regionale, oggi più che mai è necessaria, ma non possiamo permetterci di abbracciare un modello di balcanica memoria, senza infliggere danni profondi alla Democrazia e all’unità del nostro popolo.

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