di Marco Siragusa
Da molti mesi ormai
l’Albania è attraversata da un’ondata di proteste contro il governo del
Partito Socialista (PS) guidato dal primo ministro Edi Rama. La
manifestazione indetta sabato scorso a Tirana dai principali partiti di
opposizione, capeggiati dal Partito Democratico (Pd) di Lulrim Basha, è
degenerata con l’assalto di alcuni manifestanti alla sede del governo.
Nel frattempo il premier si trovava fuori la capitale per un incontro a
Valona con i suoi sostenitori, evento che contribuisce a fornire l’immagine di un paese profondamente spaccato in due.
I manifestanti rivendicano le dimissioni del governo in carica,
accusato di sostenere un sistema clientelare e corrotto, e l’indizione
immediata di nuove elezioni. Il Ps ha vinto le ultime due
tornate elettorali, svoltesi nel 2013 e nel 2017. Alle ultime elezioni i
socialisti hanno ottenuto poco più del 48% dei voti contro il 28,8% dei
rivali democratici ma il dato più interessante fu quello
legato dell’affluenza, crollata al 46,6% a dimostrazione della profonda
disaffezione dei cittadini verso i partiti e il sistema politico nel suo
complesso.
Con la fine del comunismo di stampo stalinista portato avanti
a partire dal 1948 dal Partito del Lavoro, di estrazione
marxista-leninista, l’Albania ha dovuto affrontare una complicatissima
transizione la cui fine, ad oggi, sembra tutt’altro che
conclusa. Le manifestazioni degli studenti di Tirana del 1990 avevano
costretto l’allora premier Ramiz Alia a convocare le prime elezioni
multipartitiche per il marzo 1991. Nonostante la vittoria schiacciante
del Partito del Lavoro le tensioni interne non si erano placate e
avevano portato a un massiccio esodo di cittadini albanesi verso
l’Europa.
La vicenda della nave Vlora che, nell’agosto 1991, giunse a Bari con
oltre 20mila cittadini albanesi rappresenta il caso più emblematico del
clima di confusione che regnava nel paese. Nel mese di novembre
il partito decise di cambiare il proprio nome in Partito Socialista,
sancendo così la fine definitiva dell’esperienza comunista. La
liberalizzazione del sistema politico aveva portato alla nascita di una
formazione di centrodestra, il Pd guidato da Sali Berisha. La storia dei successivi decenni è stata così caratterizzata dall’alternanza al governo dei due partiti.
Il clima anticomunista diffusosi nel paese relegò i socialisti ad un
lungo periodo di opposizione tra il 1992 al 1997. In quella fase il
Pd diede il via ad un profondo processo di riforme di chiara
ispirazione neoliberale, come il ricorso a massicce privatizzazioni
delle imprese statali imposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla
Banca Mondiale e la considerevole riduzione dei lavoratori del settore
pubblico.
Per sostenere l’economia venne creato il cosiddetto schema Ponzi, un sistema consistente in una truffa legalizzata adottata da
numerose imprese che promettevano, sulla base di nulla, altissimi tassi
di interesse ai cittadini che investivano il proprio denaro in esse. Il
fallimento totale di questo sistema, con la conseguente perdita dei
risparmi di migliaia di cittadini, portò il paese sull’orlo della guerra
civile con l’adozione da parte del presidente della Repubblica Berisha
dello stato d’emergenza. Le elezioni del 1997, convocate per
stabilizzare la situazione, videro il ritorno al governo del Ps che nel
frattempo aveva notevolmente cambiato il proprio programma politico
ormai completamente allineato al modello neoliberale perseguito fino ad
allora dalla controparte. Le differenze tra i due principali partiti
erano ormai praticamente inesistenti sia per quanto riguardo la
politica interna sia in merito alle relazioni
internazionali del paese.
Negli anni successivi la situazione rimase pressoché identica
con i due partiti che, ogni due mandati, passavano dal governo
all’opposizione. Dopo la sconfitta elettorale subita dai socialisti nel
2005 venne nominato segretario del partito il sindaco di Tirana, Edi
Rama, attuale premier. Alla crisi economica globale scoppiata nel 2008 si aggiunse l’aggravarsi di quella politica dopo le elezioni del 2009.
Nonostante i socialisti avessero ricevuto circa diecimila voti in più
del Pd, quest’ultimo ottenne un maggior numero di seggi in parlamento e
quindi la possibilità di formare il nuovo governo. La
polarizzazione tra i due schieramenti si manifestò con violenza durante
le manifestazioni di piazza organizzate dal Ps nel 2011 che, proprio
come successo sabato scorso, si conclusero con l’assalto alle sedi
governative. In quell’occasione, però, la repressione fu ben più dura e si contarono quattro morti negli scontri.
Da allora, le tensioni alimentate dalle difficili condizioni
economiche della popolazione e da un diffuso sistema mafioso-clientelare
non si sono mai placate ma al contrario hanno raggiunto livelli
preoccupanti, soprattutto dopo l’ultima vittoria dei socialisti alle
elezioni del 2017. Quanto visto sabato è solo una delle tante
fasi di una profonda instabilità che colpisce il paese da ormai quasi
trent’anni. Entrambi i partiti e i loro rispettivi leader sono stati
completamente incapaci di offrire una soluzione concreta alla perenne
crisi economica e al raggiungimento di standard minimi dello stato di
diritto.
L’attuale governo guidato dal premier Rama è stato al centro di
numerosi scandali legati a relazioni poco trasparenti con la criminalità
organizzata dedita al traffico internazionale di stupefacenti, settore
in cui l’Albania vanta un ben poco invidiabile primato europeo.
L’opposizione del PD di Lulzim Basha non sembra però poter
rivendicare particolari meriti nella lotta alla mafia e alla corruzione.
Lo stesso Basha, ministro dell’Interno durante le rivolte del 2011, è
stato più volte implicato in indagini per corruzione e abuso di potere. Entrambi
i leader si presentano ai cittadini come i paladini della giustizia
contro il malaffare e come gli unici in grado di portare il paese fuori
da una stagnazione economica che costringe ogni anno migliaia di giovani
albanesi a emigrare. Sul piano delle politiche interne, in
questi tre decenni, i due partiti hanno dimostrato comunanza
di idee e di impostazione ideologica apertamente neoliberale.
Le differenze sembrano minime anche per quanto riguarda la
politica estera portata avanti in questi anni. Sia il Pd che il Ps
considerano l’adesione all’Ue come la prospettiva politica privilegiata.
L’Albania rappresenta, però, l’unico paese europeo a stragrande
maggioranza musulmana e questo ha importanti ripercussioni nelle
relazioni con i paesi arabi del Medio Oriente e con la Turchia.
Sia Rama che Basha possono contare su un ottimo rapporto con il
presidente turco Erdogan che considera l’Albania come un importante
testa di ponte per allargare la sua influenza nel resto della regione.
Il paese può godere di buone relazioni anche con gli Stati del Golfo
in cui sono sempre più numerosi i giovani albanesi emigrati in cerca di
lavoro, soprattutto negli Emirati Arabi Uniti, grazie agli accordi
raggiunti per la liberalizzazione dei visti con paesi come Bahrain,
Oman, Qatar e Arabia Saudita. Il rapporto privilegiato con Riad
ha inoltre permesso all’Albania di ottenere importanti investimenti,
erogati dal Fondo di sviluppo saudita, per il finanziamento di
alcuni progetti strategici come la linea stradale Durazzo-Morine e
quella Tirana-Elbasan. La decisione del governo albanese di espellere
due diplomatici iraniani nel dicembre 2018 è stata pubblicamente
sostenuta dal ministero degli esteri dell’Arabia Saudita mentre ha
complicato i rapporti con Teheran.
La politica estera albanese non sembra quindi essere messa in discussione dallo scontro tra Ps e Pd. Chiunque
risulterà vincitore di questa disputa continuerà, con molta
probabilità, la politica di accomodamento sia verso l’Europa sia verso
la Turchia e i paesi del Golfo adottata negli ultimi anni.
Alla luce della storia recente del paese, lo scontro tra i due
schieramenti sembra quindi assumere sempre più i caratteri di un
conflitto tra due diversi blocchi di potere in competizione per la
gestione dello Stato, secondo obiettivi ben distanti dalle reali
necessità dei cittadini albanesi. Chiunque esca vincitore da questa
battaglia dovrà fare i conti con un diffuso malcontento della
popolazione e con la necessità di dare una decisa sterzata all’attuale
sistema nel suo complesso.
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