di Angelo d’Orsi
Ho voluto attendere che il 10 febbraio fosse alle nostre spalle,
prima di scriverne. Sapevo ovviamente che la “questione foibe” sarebbe
ritornata puntualmente, come ogni anno, all’onore (o meglio al disonore)
delle cronache. Sapevo che come per il Venezuela, come per il Tav (solo
per fare due esempi), si sarebbe verificato il bombardamento
mediatico-politico, e le tifoserie si sarebbero eccitate, scendendo in
campo, ma a differenza di questi due esempi, in cui comunque i due campi
hanno la possibilità di esprimersi, sia pure con uno dei due
svantaggiato dalla schiacciante forza del mainstream, per “le foibe” la sproporzione è immensa: si tratta di un’autentica “guerra ineguale”.
La narrazione delle foibe, mendace e infondata, anticomunista “a
prescindere”, è divenuta, in quest’anno di grazia 2019, verità di Stato,
con tanto di sanzioni per coloro che se ne distacchino. La situazione è
stata aggravata dalla convergenza tra opinionisti (che di regola non
sanno nulla di ciò su cui opinano) e politici (i quali prescindono
completamente dalla verità). E a dispetto dei risultati della ricerca
storica seria, che ha certificato qualche centinaio di infoibati, spesso
semplicemente cadaveri (vittime “naturali” della guerra, ma anche
persone giustiziate) che sono stati gettati in quelle cavità per ragioni
di “praticità” in tempi difficili, dove non c’era spesso modo né tempo
di dare degna sepoltura ai morti. Certo vi sono stati italiani
trucidati, e infoibati, ma dobbiamo tener conto del contesto, e
soprattutto stiamo parlando di cifre che sono davvero imparagonabili
alle migliaia e decine di migliaia di cui il discorso che si è imposto
parla senza alcun fondamento. Ma tant’è.
Si è andata costruendo, in sintesi, nel corso degli anni, una verità
“politica” sulla questione, in un processo avviato una quarantina di
anni or sono, in televisione, e portato avanti nelle aule parlamentari,
processo che ebbe il suo crisma di ufficialità con l’istituzione della
“Giornata del ricordo” nel 2004, Berlusconi regnante. Quella decisione,
tuttavia, fu bipartisan, e da allora il cosiddetto centrosinistra non ha
compiuto il minimo sforzo di differenziazione rispetto alla narrazione
che era stata alla base di quella legge, e che a partire da quel momento
diventò appunto “ufficiale”, per poi trasformarsi in una sorta di
dogmatica rispetto alla quale ogni contestazione, anche limitatamente
alle cifre o alle date, correva il rischio di essere bollata come
eresia.
Che è precisamente ciò che si è verificato in questo 2019, con la
manganellesca esternazione dell’onnipresente ministro Salvini, aduso ad
ogni travestimento e a tutte le incombenze, anche quelle che nulla hanno
a che fare col ruolo istituzionale, a cui del resto è poco interessato,
comportandosi semplicemente da capopartito. A lui si sono accodati
immediatamente un po’ tutti i rappresentanti dell’arco ufficiale della
politica nazionale, da Giorgia Meloni ad Antonio Tajani, da Pietro
Grasso a Nicola Zingaretti, fino al Presidente della Repubblica, ormai
divenuto portatore di uno stile interventista che nei primi anni del
mandato appariva in ombra: egli ha lodato, sintomaticamente, il suo
predecessore Napolitano, il quale aveva provocato con certe
dichiarazioni una crisi diplomatica con la Croazia, qualche anno fa.
Mattarella, con gesto non si sa se machiavellicamente studiato o
semplicemente irresponsabile, non solo ha mostrato di sposare in toto le
panzane dei pasdaran dell’“operazione foibe”, ma ha tuonato, sia pure
mellifluamente, contro i portatori di qualsiasi forma di “negazionismo” e
di “riduzionismo”. E sotto tali fattispecie vengono collocati i
tentativi, per quanto pacati e documentati, di inserire le vicende del
Confine nordorientale nel contesto proprio: ossia l’occupazione fascista
di quelle terre, la politica sterminazionista delle truppe italiane ai
danni degli abitanti, la scia di odio e di risentimento che essa ha
lasciato.
Analoghe parole venivano intanto proferite dal sullodato Salvini,
sia pure con altro tono e in contesto espressivo di ben diversa
aggressività (“i negazionisti mi fanno schifo” e via vomitando
ingiurie), mentre Giorgia Meloni si esibiva in una conferenza davanti
alla videocamera da diffondere via Facebook, raccontando, da nota
studiosa di storia (!), la “verità sulla foiba di Basovizza”.
Quanto a Tajani, presidente del Parlamento Europeo, ricuperava
agilmente il paragone foibe-lager nazisti, e non solo ribadiva quelle
pseudo-verità come fatti incontrovertibili, ma si spingeva, con un
straordinario esempio di stoltezza politica, a rivendicare all’Italia
Fiume e la Dalmazia. Parole che hanno provocato l’ira dei governanti
sloveni e croati. Qui non si tratta delle ombre residue delle due guerre
mondiali, ma del possibile, sciagurato, non si sa quanto involontario,
preavviso di una nuova guerra.
In tale clima, determinato dalla nuova santa alleanza dei costruttori
della menzogna che si riassume nella parola “foiba”, si è diffuso un
clima di caccia alle streghe che quest’anno si è materializzato con
aggressioni fisiche, verbali, denunce, dichiarazioni di incompetenti
spacciati per esperti, i quali non possono evitare l’urlo sguaiato. E
chi non si allinea, viene bollato con l’etichetta di “negazionista”.
Strano destino quello della parola: da fase suprema del revisionismo,
che si spinge a negare l’esistenza delle camere a gas nei lager nazisti e
lo stesso progetto di sterminio del popolo ebraico e degli altri
“sottoumani” internati. Ora la parola viene derubricata, con una perdita
di senso e di valore rispetto alla quale la prudenza sarebbe
obbligatoria. E Salvini, di scempiaggine in scempiaggine, è riuscito a
dire, con sfrontatezza, “i bimbi di Auschwitz e quelli delle foibe sono
uguali”... Parole che hanno suscitato una vibrata protesta di un grande
scrittore testimone ebreo slavo e cosmopolita come Boris Pahor.
Certo, anche se pochi, gli studiosi e le studiose professionali di
questo tema esistono, ma o si lasciano condizionare dal senso comune
(qualcuno in relazione alla famigerata “foiba di Basovizza”, dove
cadaveri non sono stati ritrovati, è riuscito a dire che comunque si
potrebbero trovare, che è difficile trovarli, e così via: come dire, che
non essendoci documenti su di un fatto storico, noi lo ricostruiamo
come ci piace, dicendo che comunque le prove si potrebbero trovare...);
oppure si cerca di toglier loro la parola, ed è ciò che è capitato a
Claudia Cernigoi, che è stata crocifissa, le è stato letteralmente
impedito di parlare: in particolare segnalo il caso vergognoso del
sindaco di Cologno Monzese e del presidente della Regione Friuli Venezia
Giulia, i quali hanno aggredito colei che, accanto ad Alessandra
Kersevan e a Sandi Volk, è a mia conoscenza probabilmente la sola vera
studiosa delle foibe. Evidentemente non è questo il tempo di lasciare la
parola a chi sa. È invece il tempo degli urlatori, dei demagoghi, dei
veri propalatori di false verità. Ma ciò che atterrisce è che stiamo
assistendo non solo alla trasformazione della menzogna in verità, ma
alla sua istituzionalizzazione.
A maggior ragione, occorre che la comunità intellettuale, in primo luogo
quella dei cultori della musa Clio, si stringa intorno a quei pochi,
che impavidi, anche se assediati, resistono in difesa della verità
storica.
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