Sono trascorsi 40 anni dalla nascita della Repubblica Islamica
dell’Iran: era l’11 febbraio 1979 quando l’Ayatollah Ruhollah Khomeini,
tornato dall’esilio in Francia, ne dichiarò la nascita. Quella
dichiarazione seguiva due anni di proteste contro il governo centrale,
due anni che videro scendere in piazza insieme religiosi e laici, la
sinistra comunista, gli studenti, i movimenti islamisti. Scioperi e
manifestazioni bloccarono il paese per tutto il 1978, fino alla
fuga di Reza Pahlavi, nel gennaio ’79, e la presa del potere da parte
dell’Ayatollah. Due mesi dopo, il primo aprile 1979, gli iraniani
certificheranno la nascita della Repubblica islamica con il voto
referendario.
Una celebrazione che giunge in un periodo di grande tensione
nel paese, una crisi interna che si pensava superata appena quattro anni
fa, nel luglio 2015, quando il presidente Hassan Rouhani firmò
l’accordo sul nucleare civile con Europa, Stati Uniti, Cina e Russia.
Oggi, mentre centinaia di migliaia di iraniani scendono in piazza in
tutto il paese, in tutte le città e i villaggi per festeggiare quattro
decenni di rivoluzione, a Varsavia si imbastisce una conferenza guidata
dagli Stati Uniti che mira a definire l’offensiva contro Teheran.
Un’offensiva già iniziata, già radicata, nelle politiche
mediorientali dell’amministrazione Trump, fatta di attacchi militari
israeliani in Siria e di rinnovate sanzioni contro l’economia e la
finanza della Repubblica Islamica. Stamattina la folla riunita
nel centro di Teheran imbiancata da un filo di neve e in piazza della
Libertà (costruita dallo scià filo-americano e ribattezzata dopo il
1979) sventola la bandiera iraniana e grida lo slogan più noto – “Morte
all’America” – quasi un marchio di fabbrica delle manifestazioni
nazionali. “Il popolo iraniano – ha detto una settimana fa la
Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, specificando che il grido è
rivolto all’amministrazione e non al popolo americano – continuerà a
dire ‘Morte all’America’ fino a quando gli Usa agiranno in modo
maligno”.
Lungo le strade, in marcia, ci sono i missili del sistema militare
iraniano, in mostra per mandare all'esterno un messaggio chiaro, e un
capillare sistema di sicurezza dopo l’attacco che bagnò di sangue le
celebrazioni per la fine della guerra Iran-Iraq dello scorso anno:
uomini armati spararono su una marcia militare e uccisero 29 persone.
Dal palco ha parlato Rouhani: la rivoluzione ha salvato il paese
“dalla tirannia, la colonizzazione e la dipendenza. Questa nazione è
riuscita a costruire un sistema di repubblica islamica e di
governo indipendente”. Teheran, ha aggiunto, aumenterà il suo
arsenale. Risposta ben poco velata al summit del 13 e 14 febbraio, in
Polonia: a Varsavia si incontreranno gli storici avversari iraniani,
Stati Uniti, Israele, paesi del Golfo, sotto il dichiarato obiettivo di
“promuovere un futuro di pace e sicurezza in Medio Oriente”, che si
traduce – nelle stesse dichiarazioni degli organizzatori – in un vertice
“incentrato sull’Iran”.
Un paese composito: in piazza ci sono, oggi, i tanti volti
dell’Iran del 2019. Ci sono quelli che 40 anni fa avevano invaso le
strade per accogliere Khomeini, simbolo della speranza di un popolo che
chiedeva maggiore giustizia sociale e indipendenza dalle potenze
occidentali; e ci sono i giovani, la maggioranza della popolazione (un
terzo degli iraniani ha tra 15 e 29 anni), ventenni, trentenni che non
hanno vissuto la rivoluzione, lo stravolgimento delle
istituzioni e dell’ideologia politica iraniana, e che sognano – come i
coetanei di allora – un futuro migliore.
Quel futuro è soffocato dalla decisione di Washington di uscire
dall’accordo sul nucleare e imporre nuove sanzioni all’Iran, congelando
le attività economiche volte ad aprirsi al mondo, a vincere la crisi
economica e la caduta del rial, a dare nuova linfa al mercato del
lavoro. Subito dopo la firma dell’accordo erano state decine le compagnie straniere che si erano gettate sul mercato economico iraniano,
in ogni settore, da quello energetico a quello automobilistico, da
quello delle costruzioni e le infrastrutture a quello ferroviario.
Contratti miliardari erano stati firmati. Fino al ritorno delle
sanzioni che una a una hanno provocato la fuga delle compagnie straniere
e il congelamento dei contratti già siglati.
La tensione esterna ne provoca una interna: accanto alla frustrazione
della popolazione, in particolare delle giovani generazioni, che si è
tradotta negli ultimi mesi in proteste e scioperi alle periferie del
paese, si radica la rivalità tra conservatori e moderati, tra l’élite
più radicale e quella guidata da Rouhani che ha puntato tutto sul
disgelo e la normalizzazione dell’Iran nel mondo.
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