C’è qualcosa che unisce il vecchio confederato col vecchio anarcoide
Keith Richards: le facce, che sembrano totem scolpiti nel rovere,
maschere incise nel cuoio. Volti che qualche veggente potrebbe leggere
attraverso i reticolati di rughe, segni del tempo antico che hanno
lasciato tracce, come i graffiti camuni sulle pietre preistoriche.
Tuttavia nell’ultima versione della maschera-totem di Clint Eastwood, il vecchio arcigno, rancoroso e pugnace di Gran Torino
ha oltrepassato la soglia della grande vecchiata, si avvia verso i 90.
Ubbidendo alle regole non scritte della regressione senile si è
ammorbidito, intenerito addirittura, ed è anche imploso fisicamente,
lasciando crollare la muscolatura del suo proverbiale fisicaccio
novecentesco in un involucro cadente, e gracile.
A dire il vero intenerito è un po’ una riduzione comica. Il
personaggio di Earl Stone, floricultore che vede il proprio lavoro
andare in rovina per la crisi economica e l’avvento dell’e-commerce, non
rinuncia ai suoi storici vizi: trascura totalmente la famiglia, non
rispetta mai né un anniversario né la cresima né la comunione e persino
il matrimonio della figlia, che smette addirittura di parlargli. Lui è
dispiaciuto, ma non ne fa un dramma. E’ sempre stato interessato
soprattutto al lavoro, ai viaggi, ma senza disdegnare le feste, le
bisbocce e, perché no, i sollazzi con le prostitute, meglio se in
coppia. Se si presenta a casa della moglie e della figlia viene
immediatamente aggredito con una sequela di accuse, che lui ascolta con
la maschera pietrificata e sofferente, ma si riprende in fretta. C’è
sempre qualcosa da fare, anche se la sua casa, con la serra e il terreno
per i fiori, è finita sotto sequestro giudiziario.
Non sappiamo se la curiosa omonimia col personaggio di Asimov, il
temibile telepate che combatte la Fondazione, sia casuale, però qualche
punto di contatto c’è: entrambi sono dei grandi manipolatori delle menti
altrui. Infatti Earl, con battute affilate, obbliga i suoi
interlocutori a entrare in empatia con lui. Quando cade nella trappola
del Cartello di Sinaloa riesce a farsi amici i più spietati assassini,
che dapprima lo minacciano di morte ma poi ci scherzano e lo rispettano.
Perché accade questo: Earl ha viaggiato in lungo e in largo per
l’America a bordo di un vecchio pick-up senza prendere mai una multa. E’
un guidatore leggendario, e la sua fama attira l’attenzione di un
cacciatore di teste del cartello, che ha sempre bisogno di corrieri per
movimentare la cocaina. Così gli viene proposto “un lavoro”, portare una
borsa da uno stato all’altro. Deve caricarla in un garage, che è sempre
chiuso con all’interno dei tagliagole messicani armati (che ovviamente
diventano presto suoi amici), e guidare fino a un motel, dove lascerà il
pick-up nel parcheggio con le chiavi nel cruscotto. Poi tornerà a
riprenderlo e nel cruscotto troverà le chiavi e una busta col suo
compenso.
Earl è perplesso, ma non approfondisce. C’è in lui una superficiale
amoralità che lo porta a sorvolare sui dettagli, senza fare domande
scomode. Intanto le borse diventano due, poi tre, e i compensi
aumentano. Poi, un giorno, decide di soddisfare la sua curiosità e ne
apre una: vede i pacchi di coca, resta basito, come quando le sue donne
lo insultano, ma come allora per un attimo diventa un cartoon, sempre integro qualunque cosa accada. Così chiude borsa e baule e riprende il viaggio.
E’ uno generoso, uno splendido, usa i soldi per ristrutturare il
locale di un amico andato a fuoco, poi paga gli studi alla nipote, nel
tentativo di recuperare il rapporto con la famiglia, il cui esito
costituisce, lo scoprirà verso la fine, il vero fallimento della sua
vita.
Ovviamente il tutto si complica. E come non potrebbe in una vicenda
così pericolosa? Il boss del cartello, interpretato da un quasi
irriconoscibile Andy Garcia, che neanche a dirlo gli è diventato amico,
viene assassinato da una specie di macellaio, che prende il potere.
Inoltre la Dea sa del corriere insospettabile, ed è sulle sue tracce.
Tutto il suo piccolo mondo, i viaggi piacevoli attraverso aree
desertiche o in una immensa piantagione di alberi da frutto, cantando a
squarciagola in una sorta di interminabile karaoke, è minacciato. Ora al
buonumore, e ai sollazzi nel motel con prostitute messicane super
dotate, si sostituisce la paura. Non gli resta che avviarsi verso il
finale, accettando qualunque piega prenda il suo destino.
The Mule è un film gradevole, lineare, senza grandi colpi di
scena, ma ben organizzato, con una storia che fila, un grande
interprete che è anche regista, spiritoso ma che sta alla larga dalla
pestifera commedia americana, con incursioni nel crime (e come
potrebbe Callaghan negarsi una dose di violenza e di armi?), nel fumetto
(il cartello, la vicenda un po’ surreale, anche se è tratta dalla vera
storia di Leo Sharp, i personaggi, gli ambienti) e un irrinunciabile,
epico eroismo, che il vecchio reazionario, nella sua illusione di un mai
estinto far west di eroi senza macchia, si porta dietro come una seconda pelle.
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