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04/08/2019

La guerra civile che viene

L’analisi dei processi in corso è sempre complicata. Da un lato, i più consapevoli si rendono conto che quel che avviene oggi è frutto di un lungo lavorio della Storia. Dall’altro, il dare forma al futuro che si approssima è operazione lasciata al corso stesso delle cose, come se non fosse in realtà possibile fare granché.

Al contrario, dare forma al futuro è un’attività performativa, che orienta lo scontro dell’oggi (culturale, sociale, politico, linguistico, ecc). È insomma attività politica che copre l’intero arco delle relezioni sociali date (dal conflitto immediato alla costruzione dell’immaginario, alle “narrazioni”), ovviamente a partire dai rapporti di forza dati.

La riflessione di Mattia Salvia sulla “narrazione di Bibbiano” apre uno squarcio sulla sempre negata e sempre latente guerra civile italiana, illustrando – tra l’altro, pur senza nominarla – una delle conseguenze negative dell’amnistia del 1947, firmata da Togliatti, grazie alla quale buona parte della struttura dello Stato fascista (personale, procedure, pratiche operative, ideologia espressa in atti, ecc.) restò pressoché intatta a costruire l’ossatura dello Stato repubblicano. Formalmente antifascista, praticamente neutro e tollerante verso le sopravvivenze del Ventennio. Sia a livello culturale sia politico (il Msi era senza dubbio un caso di “ricostituzione del partito fascista” sotto vesti appena incivilite, ma tale accusa quasi mai è stata rivolta persino contro le minuscole formazioni che fanno apertamente apologia di fascismo e pratica squadristica).

Ma se tale tolleranza è stata grave a livello sociale, al livello dei corpi armati dello Stato – esercito, polizia, carabinieri, ecc. – si è rivelata un tumore maligno che oggi affiora perforando la pelle. È il risultato – inevitabile, se non proprio voluto – della per molti versi incredibile “mancata epurazione” di gente come Guido Leto, fondatore e capo assoluto dell’Ovra, la polizia politica e servizio segreto interno del regime fascista.

Invece che davanti al plotone di esecuzione finì a dirigere le scuole di polizia, negli stessi mesi in cui da quei ranghi venivano allontanato gli ex partigiani combattenti. Si mise insomma la “formazione delle forze dell’ordine” – a partire naturalmente dagli alti gradi, egualmente poco “epurati” – e di lì a spiovere fino all’ultimo degli uomini in divisa in capo a una colonna del passato regime fascista.

Se personaggi di questo calibro, intimi del “duce”, hanno potuto infettare liberamente la struttura amministrativa della Repubblica, si può immaginare quante figure minori abbiano potuto fare altrettanto...

Detta in termini brutali, la parte fascista d’Italia perse la guerra, ma vinse la pace. Con “perdite” tutto sommato lievi e piena legittimità in ogni settore, pubblico o privato che fosse.

Era inevitabile? Certo, l’Italia era finita “assegnata” al blocco occidentale fin dagli accordi di Yalta, molti mesi prima che la guerra finisse. Il nuovo Stato non poteva nascere sotto il segno dell’antifascismo autentico, e dunque con una radicale epurazione dei funzionari convintamente fascisti.

Ma se in questo sono chiare le responsabilità del “blocco borghese” (Dc in testa, vero contenitore del trasformismo italico), meno “normali” sono quelle del Pci. Non stiamo dicendo che un’amnistia non fosse necessaria e per molti versi logica, ma certo estensione e modalità furono scriteriate. Come il “caso Leto” dimostra ampiamente.

Anche a livello storiografico, e dunque nella costruzione del “valori condivisi” a partire dalle nuove generazioni – scuole e università – improvvisamente, all’inizio degli anni ‘60, l’inquadramento della Resistenza anche come “guerra civile” (tra classi sociali) viene cancellata a favore della sola “guerra di liberazione” e “patriottica”. Le polemiche sorte alla pubblicazione del libro di Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza italiana), all’inizio degli anni ’90, stanno lì a dimostrarlo.

Così che la considerazione del fascismo come “parentesi” nella storia nazionale – sostenuta da Benedetto Croce, ma formalmente negata dagli storici di sinistra – è diventata nel tempo “senso comune”.

La speranza che anche l’attualità fascioleghista sia una “parentesi” emerge con prepotenza dall’impotenza politica degli antifascisti di questo paese, schiacciati tra la finzione del Pd e il borbottio inconcludente degli sfoghi social. Si sopporta di tutto, indignandosi senza conseguenze pratiche, aspettando il “ritorno alla normalità”...

Avvenne lo stesso, oltre 25 anni fa, quando un tale Berlusconi irruppe nella scena politica sdoganando i fascisti del Msi, che ricambiarono – con Fini – la cortesia cambiando nome. E basta. Non ci sembra che la “normalità” sia mai tornata, specie ricordando la proposta di “riforma costituzionale” preparata da Renzi & co – e fortunatamente cancellata col referendum – fosse in pratica una copia del “piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli.

Si potrebbe continuare a lungo, ma ci sembra sufficiente mettere intanto alcuni temi sul tavolo. Ogni giorno, del resto, ci consegna materiale per sviluppare questo tipo di riflessione.

Il tema vero di Salvia è comunque “la comunicazione” fascioleghista, assolutamente in linea con le modalità dell’ultradestra statunitense, in un osceno impasto tra menzogne e costruzione del “nemico” (rigorosamente un soggetto debole, sennò diventa pericoloso...). E che richiama esplicitamente, nella metodica, la strategia comunicativa del ministro della propaganda nazista, Goebbels. Naturalmente, questa strategia non funzionerebbe – o avrebbe un impatto sociale molto più limitato – se non si aggrappasse con estrema forza a dei fatti veri (come l’inchiesta su Bibbiano o l’insicurezza sociale di figure e categorie impoverite dalla crisi e dall’austerità).

Per questo, diventa materialmente impossibile combattere con successo il “salvinismo” con “grandi fronti” che contengono, o partono da, i responsabili di quei fatti e di quelle politiche.

Buona lettura. E interrogatevi seriamente. Quella “comunicazione” è infatti il linguaggio della guerra civile, non semplicemente una furbata elettorale...

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La guerra civile che viene

La tempesta non sta per passare e nessuna riconciliazione è possibile. Come la guerra culturale dell’estrema destra è riuscita a trasformare l’Italia nel paese più reazionario d’Europa

di Mattia Salvia *

Il caso di Bibbiano – la rete di presunti illeciti nella gestione degli affidi di minori in Emilia Romagna – ha sconvolto l’Italia come poche cose nella sua storia recente. Nonostante se ne sappia pochissimo (e proprio perché se ne sa pochissimo) tutti gli italiani ne sono rimasti toccati, in due sensi opposti: la vasta maggioranza è rimasta come in stato di shock, con la percezione di qualcosa di gravissimo che sta venendo tenuto segreto; la minoranza è rimasta ugualmente sconvolta, non dal fatto in sé bensì dalle dimensioni e dalla violenza della campagna politica e mediatica che ci è stata costruita sopra.


Fin dai primi giorni in cui abbiamo cominciato a sentire «parlateci di Bibbiano» da parte di opinionisti di destra, trasmissioni televisive, giornali – insomma dall’apparato mediatico che, in teoria, avrebbe dovuto parlare di Bibbiano in primis – c’è chi si accorgeva di quello che stava succedendo, dell’entità della manipolazione mediatica in corso, e proponeva una diagnosi lapidaria per etichettare il fenomeno: Bibbiano è il Pizzagate italiano.

Il riferimento è a quella teoria del complotto nata negli Stati Uniti nel 2016, pompata dall’alt-right e dai siti di bufale di estrema destra, secondo cui dietro a una pizzeria di Washington DC ci fosse un giro di prostituzione minorile legato a importanti politici del Partito Democratico americano.

L’analisi è corretta – ed è il motivo per cui è stata ripetuta così spesso. Le similitudini sono effettivamente tante e inquietanti: in entrambi i casi c’è il crimine orribile, ci sono le vittime bambine, c’è il segreto, c’è la complicità di una forza politica percepita come l’establishment «di sinistra» che ha gestito il potere fino ad ora e che ne è stata recentemente scalzata.

Quello che però manca, che non viene preso in considerazione, sono le differenze di clima e contesto in cui i due casi avvengono. Ovvero quello che c’è di diverso tra gli Stati Uniti del 2016 e l’Italia del 2019, l’apparato mediatico che ha spinto il Pizzagate negli Stati Uniti e quello che ha spinto Bibbiano in Italia e le loro rispettive contiguità con i gruppi che detengono il potere nei due paesi.

Prendiamo gli Stati Uniti del 2016: il frame del Pizzagate è bene o male rimasto confinato in una bolla senza mai arrivare al mainstream. Di spingerlo si sono occupati opinionisti alt-right completamente screditati dai media di massa, siti di bufale di destra dal grande traffico ma privi dell’influenza e della capacità di penetrazione dei media tradizionali. Di conseguenza, la grande massa della popolazione americana non è stata esposta alla teoria del complotto del Pizzagate se non di riflesso, tramite il modo in cui se ne parlava altrove. In breve: negli Stati Uniti del 2016, sebbene fosse stato appena eletto Donald Trump alla presidenza, contrariamente a quanto si scriveva l’estrema destra non era in grado di controllare la narrazione pubblica.

Non si può dire la stessa cosa dell’Italia del 2019. L’equivalente italiano degli ambienti che negli Stati Uniti del 2016 avevano cercato di convincere il paese che il principale partito di opposizione fosse composto da pedofili hanno provato a fare una cosa simile con il caso di Bibbiano, e in breve tempo hanno ottenuto risultati straordinari. Non solo un caso di cronaca che, per quanto grave, normalmente avrebbe ottenuto a stento rilevanza nazionale è diventato IL caso dell’estate. Ma soprattutto la narrazione semplice ed efficace creata dall’estrema destra si è imposta fino a oscurare completamente i fatti: il principale partito di opposizione in Italia (nell’immaginario comune è percepito come «di sinistra» se non proprio come «i comunisti») ruba e tortura i bambini. Di Bibbiano parleremo per anni e ne parleremo per anni in questo frame narrativo qui.

Come è potuto accadere? È potuto accadere perché, rispetto agli Stati Uniti del 2016, nell’Italia del 2019 – che probabilmente è il paese più reazionario d’Europa e uno dei più reazionari del mondo – queste forze sono assolutamente egemoni. Hanno sempre avuto le capacità, hanno accumulato col tempo un bagaglio di esperienza e oggi sono al potere o ad esso contigue. Ergo hanno occupato le posizioni giuste per controllare il discorso pubblico nel paese – a partire dai media, come dimostra il Tg2.

Le bufale contro gli immigrati del 2016 partivano da siti equivoci sfruttando i social e servivano più che altro a creare un «clima culturale» favorevole alle destre. Oggi il clima culturale è maturo, c’è una massa critica e la situazione è cambiata: l’estrema destra in Italia è pienamente in controllo del discorso pubblico. Vale a dire che ormai il discorso pubblico italiano, l’opinione pubblica italiana, non è altro che la discussione e la ripetizione delle parole d’ordine e dei frame dell’estrema destra.

Non devono più dimostrare che le ONG sono complici dei trafficanti con i video in cameretta di Luca Donadel: siamo noi che dobbiamo dimostrare il contrario. Ora che hanno preso le postazioni dominanti e padroneggiano le loro armi possono lanciare offensive e parole d’ordine. Parole d’ordine come «parlateci di Bibbiano».

Non è un caso che la parola d’ordine e la shitstorm su Bibbiano siano state lanciate proprio ora: non aspettavano altro che uscisse un caso locale così, ne hanno intuito il potenziale di venire gonfiato e piegato a una narrazione che fa loro gioco e ci si sono buttati. Il primo vantaggio che ne ottengono è che Bibbiano diventerà uno spartiacque nelle guerre culturali italiane dei prossimi anni. Il secondo è che in Emilia Romagna si vota a fine anno o all’inizio del prossimo, e dunque lo shitstorm su Bibbiano è anche una campagna politica di delegittimazione per strappare terreno al nemico e conquistare nuove posizioni.

Se ho usato lessico militare – strappare terreno al nemico, conquistare nuove posizioni, prendere postazioni dominanti, padroneggiare le armi, lanciare offensive – è perché quella che è in corso è una guerra politico-culturale, che da interna alla classe dominante in una logica di circolazione delle élite si sta adesso allargando a tutta la società. Bibbiano è stata la prima grande, esplicita offensiva di questa guerra culturale.

Il primo caso in cui abbiamo visto tutta quell’energia sociale costruita in anni di post sui cani, post contro gli immigrati, post con foto di cibo, post su Milan per costruire una comunità coesa... finalmente rilasciata in una precisa direzione politica. Una parte consistente dell’opinione pubblica italiana, trasformata in una comunità separata dalla comunità italiana, lanciata contro i rappresentanti di chi di quella comunità separata non fa parte; un’accusa terrificante quanto falsa da trasformare in versione ufficiale. In questo senso Bibbiano non è solo un fatto di cronaca o una polemica, ma l’equivalente di un raid squadrista delle camicie nere contro una casa del popolo.

Da qualche tempo a questa parte, di pari passo con il progredire dell’imbarbarimento del discorso pubblico italiano, mi capita sempre più spesso di sentire persone chiedersi come faremo a tornare a una qualche forma di normalità quando la tempesta sarà passata. In un pugno di anni abbiamo visto cadere una dopo l’altra tutte le regole non scritte della convivenza democratica, abbiamo visto tutti i valori che prima erano comunemente accettati e che insieme contribuivano a creare una morale condivisa unificante per la nostra società venire rovesciati e trasvalutati. Quindi è normale chiedersi come si può fare per ritornare alla situazione di partenza, quella in cui le diversità di vedute e di orientamenti in seno alla società e all’opinione pubblica erano considerate come diversità e non come «altro», come un «tradimento» o come «anti-italianità».

È normale chiederselo e non è una domanda facile. Come facevo notare all’inizio dell’anno proprio su Not, la nostra sensazione di vivere in tempi eccezionali – e dunque in tempi la cui stessa esistenza presuppone il ritorno a una normalità – è una forma di pensiero magico.

Non viviamo in una timeline «sbagliata» che prima o poi tornerà sui binari giusti: la timeline in cui viviamo si è finalmente corretta dopo decenni di anomalia ed eccezione. Il fatto che l’Italia di oggi sia fondamentalmente spaccata in due parti contrapposte che si odiano a morte non è un «errore», ma l’ennesimo riflesso di tutto ciò: l’errore se mai è stato pensare che ci fosse una sola Repubblica Italiana, quando ce ne sono sempre state due. Il nostro paese è sempre stato un paese spaccato.

La profonda frattura che si manifesta oggi, con una larga parte del paese con il tricolore nel nickname che accusa di «anti-italianità» o di tradimento della patria chi ancora segue quei valori che fino a poco tempo fa si potevano definire condivisi, è il venire alla luce di una frattura costitutiva dell’identità nazionale italiana, che nei decenni di crescita economica, stabilità e socialdemocrazia – quel periodo che abbiamo preso a considerare «normalità» tanto che ora che si è concluso ci sembra di essere entrati in una timeline «sbagliata», appunto – è sempre stata nascosta sotto il tappeto del compromesso.

È una frattura che risale almeno alla seconda guerra mondiale, alla resistenza, alla contrapposizione tra Repubblica Italiana e Repubblica Sociale, al modo in cui in Italia la guerra civile latente che covava in quegli anni è stata compressa, non è scoppiata non diventando mai una guerra civile esplicita. La Repubblica Italiana e la sua Costituzione sono nate con quell’intento, come compromesso tra due parti inconciliabili.

Un compromesso che poggiava su alcuni elementi: la costruzione di una memoria condivisa come finzione ideologica in grado di far dimenticare al paese la contrapposizione mortale che esisteva tra le sue due anime, e la costruzione di un edificio fatto di elementi costituzionali, politici, sociali e morali che servisse a mantenere l’equilibrio tra le parti, impedire che una delle due prendesse troppa forza, così che il conflitto rimanesse latente per la paura di entrambe di soccombere.

A un certo punto della nostra storia però quest’equilibrio ha cominciato a rompersi e il paese ha cominciato a polarizzarsi: la contrapposizione tra berlusconismo e anti-berlusconismo degli anni Novanta e Duemila, successiva al crollo della prima repubblica che era un tassello di quell’architettura di compromesso, è stata un primo riattivarsi della faglia. Uno dopo l’altro, anche gli altri elementi di quell’edificio hanno cominciato a cedere.

Dunque, in questa situazione, come possiamo fare «quando la tempesta sarà passata» per rimarginare questo strappo, arrivare a una riconciliazione nazionale e tornare alla situazione di equilibrio e compromesso?

Una delle soluzioni è provare a restaurare quell’edificio, ovvero appigliarci a gli elementi di quella costruzione istituzionale, politica, sociale e morale che sono ancora in piedi e partendo da quelli cercare di trovare un nuovo compromesso, una nuova morale condivisa che ci consenta di sotterrare i rancori reciproci e di dimenticare quest’isteria collettiva. È una soluzione, però, i cui spazi di agibilità si riducono di giorno in giorno e di caso di cronaca in caso di cronaca – come nel caso del carabiniere ucciso a Roma, dove i tweet di Salvini che parlano di lavori forzati a vita o giustificano dei carabinieri che bendano un sospetto e ne pubblicano le foto sui social – sono un chiaro colpo di scalpello contro le stesse fondamenta di quell’edificio che vorremmo conservare.

Ma se non così, come? L’alternativa, che è ancora solo una suggestione ma che sta prendendo sempre più corpo man mano che quell’architettura viene smontata pezzo dopo pezzo, è che non ci sia nessuna riconciliazione possibile. Invece di una riconciliazione tra le due parti della società, l’espulsione di una di queste dal seno della società stessa. È ancora solo una suggestione, ma se si guarda attentamente ci sono una serie di segnali a validarla.

La complessa architettura che oggi sta venendo smontata serviva a mantenere l’equilibrio tra le due repubbliche contrapposte all’interno della Repubblica italiana, impedendo che una delle due parti potesse conquistare la forza necessaria a ribaltare il tavolo, demolire quell’architettura stessa e sostituirla con una nuova da imporre a forza a tutta la società. Venute meno le costrizioni, viene meno l’equilibrio e può manifestarsi di nuovo quel conflitto rimasto tanto a lungo latente, il cui esito non è più incerto: una delle due parti non ha più paura di soccombere e può passare con fiducia all’attacco.

È ingenuo pensare a come faremo a tornare alla normalità «quando la tempesta sarà passata», perché tutti i segnali sembrano indicare non che la tempesta stia per passare, ma che se mai stia per farsi ancora più violenta.

La direzione in cui andiamo è quella di un ulteriore approfondirsi delle divisioni esistenti, di un ulteriore polarizzarsi della nostra società e di un ulteriore radicalizzarsi delle nostre opinioni. Le vie di mezzo che potremmo prendere per arrivare a una conciliazione ci vengono sbarrate in faccia una dopo l’altra, per il semplice fatto che non siamo più in una situazione di equilibrio e che una delle due parti non ha interesse in una conciliazione.

Non è un fenomeno soltanto italiano – anche se l’Italia in quanto roccaforte della reazione può fare da caso scuola. Ma la crisi dell’ordine liberale e del modello democratico è una conseguenza diretta di cambiamenti tellurici nell’ordine mondiale. Il modello di cui abbiamo goduto per decenni, che poteva esistere appoggiandosi a una certa catena del valore globale, sta entrando in crisi ora che quella catena del valore sta cambiando.

È da questa radice – la cosiddetta Grande Convergenza – che nasce il fenomeno politico con cui dovremo fare i conti nel prossimo futuro. «La profonda ipocrisia e l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno davanti senza veli quando dalla madrepatria, dove assumono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove esse vanno nude» scriveva Marx, e la domanda da porsi oggi è: che succede a quelle forme rispettabili quando alla civiltà borghese della madrepatria vengono a mancare le colonie?

Nel tentativo disperato di impedire o perlomeno di rallentare questo processo, la società occidentale si spoglia degli orpelli inutili e resta solo nei suoi caratteri fondamentali: pluralismo e democrazia sono sacrificati sull’altare della tutela della posizione dominante dell’Occidente.

La democrazia si trasforma in democrazia autoritaria: vale a dire una democrazia puramente formale che si applica a una società già riplasmata in senso organico, con un solo grande partito dell’ordine a garantire stabilità e i profitti minacciati delle classi dominanti e l’espulsione di tutto ciò che è dissenso, equiparato a una quinta colonna che lavora dall’interno al sabotaggio.

Per le due repubbliche italiane, tutto ciò ci spinge in una sola direzione. La fine del compromesso e dell’equilibrio del sistema ci spinge verso una direzione in cui una parte della popolazione, dell’arco parlamentare e persino del pensiero politico non viene più considerata come parte della nazione, ma viene accusa di tradimento.

È la direzione che vediamo anche dal processo di autocoscienza in corso per le forze dell’ordine, un tempo elemento di tutela – almeno «formale» – di quell’equilibrio e che oggi sono sempre più un elemento schierato da una parte. Il braccio armato di uno Stato nato per tenere sotto controllo due parti contrapposte della società, ora che lo Stato è nelle mani di una delle due parti, diventa il braccio armato di quella parte della società.

Non a caso nei gruppi chiusi delle forze dell’ordine si parla di sparare a politici di opposizione e fare colpi di stato, dai gruppi chiusi delle forze dell’ordine partono campagna di propaganda a suon di bufale, dentro i gruppi chiusi delle forze dell’ordine si incontrano già esponenti dell’arma che invocano la guerra civile. Tutti questi indizi fanno prendere sempre più corpo una consapevolezza: non c’è più spazio per tutte e due le repubbliche nella repubblica italiana.

La guerra civile che viene è la guerra civile di cui già parlano i poliziotti nei loro gruppi chiusi. Non sarà per forza un conflitto armato aperto, non finiremo a spararci addosso uno con l’altro (forse). Sarà piuttosto l’evoluzione della guerra culturale già in corso, con la costruzione di una nuova narrazione per la società da parte della maggioranza che verrà imposta con la forza anche all’altra parte.

Sarà un silenziare le voci del resto del paese, un eliminare l’opposizione – le quinte colonne – non fisicamente, ma espellendole dal discorso pubblico, scacciandole dalle posizioni da cui possono partecipare all’opinione pubblica, attaccarle anche nello spazio mentale per escluderle completamente dal consesso civile.

La parola chiave per comprendere quali forme potrebbe prendere questa guerra civile è già qui: è «buonsenso», un termine già diventato la nuova parola chiave della Lega.

Il buonsenso, la «rivoluzione del buonsenso» che la Lega dice di voler fare, vuol dire costruire una nuova morale, un nuovo senso comune a cui far conformare tutto il resto della società pena l’esclusione dal consesso sociale. Sarà il buonsenso delle “ONG complici dei trafficanti”, degli immigrati che vengono qui a fare da esercito industriale di riserva e che dovrebbero starsene a casa loro; il buonsenso delle “zekke rosse dei centri a-sociali che sono tutti figli di papà”; il buonsenso del populismo penale, delle pene esemplari, della criminalità razzializzata del sostegno incondizionato a ogni brutalità poliziesca perché chi la subisce se l’è cercata; il buonsenso di commenti come «buon appetito pesci» sotto un post che parla di una strage nel Mediterraneo.

Da Not

Mattia Salvia è giornalista freelance ed è stato editor di VICE.

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