Silvia è il nome di fantasia di una infermiera professionale di un grande pronto soccorso romano: ha 38 anni e due bambini. Le abbiamo chiesto di raccontarci questi mesi dal suo punto di vista, di chi ha ‘percepito’ da molto vicino il Covid-19.
A fine febbraio la pandemia ha stravolto la vita di tutte e tutti noi, voi che eravate dentro gli ospedali eravate un minimo più preparati o anche voi siete stati completamente spiazzati?
A metà febbraio, sentendo le notizie che arrivavano dalla Cina avevamo già attivato il cosiddetto percorso sporco per chi aveva la febbre, ma nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare quanto sarebbe accaduto da lì a poco, in maniera così veloce.
E ho benedetto il 12 marzo quando è partito il lockdown completo nel Lazio perché stavamo arrivando ad una situazione come quella del Nord, con persone di tutte le età anche 40/50enni. Ecco a me ha sconvolto vedere le persone giovani, perché erano ancora i giorni in cui c’era il refrain sugli anziani.
E su questo vorrei specificare che per quanto grave ciò che è accaduto nelle RSA, gli anziani ricoverati lì sono di partenza estremamente fragili, anche senza il Covid-19 sono estremamente a rischio. Invece l’impatto sui giovani non era previsto, in un turno di 8 ore mi è capitato che ne arrivassero 12.
Cosa vuol dire curare un paziente Covid?
È di difficile gestione, chi ha problemi respiratori acuti non lo tieni, diventa violento e aggressivo perché è la reazione normale di chi non respira. È stato difficile inizialmente da un punto di vista mentale affrontare tutto questo.
Nei giorni peggiori sembrava di lavorare in fabbrica, tipo catena di montaggio, se ne prendeva in carico uno per volta, per capire dove isolarlo ma sempre potendolo vedere a vista, e con la necessità di fare molti prelievi e analisi, bisognava svestirli di tutto e avevano freddo ma dovevamo farlo per intubarli. Fra il 12 e il 25 marzo è stato il periodo peggiore, come togliere l’acqua dal mare. Il lockdown è stato fondamentale.
Avete avuto un supporto psicologico?
Sì, è stato attivato telefonicamente, non ne ho ancora usufruito ma penso che lo farò. Perché ho vissuto esperienze forti, come quando mi vestivo per entrare nell’area Covid sapendo che sarei stata 8 ore solo con positivi, hai la sensazione di entrare nella gabbia dei leoni e ti dici: vediamo se anche oggi la scampo. Poi quella sensazione passa e inizi a lavorare come sempre hai fatto.
Come è stato il rapporto con le colleghe/i?
È stata dura per tutti, a volte erano i dottori ad andare nel panico. C’è da dire che il pronto soccorso non ha la gerarchia classica dei reparti, si lavora in team, anche con gli OSS [operatori sociosanitari]. Ci siamo ritrovati tutti dentro questa vicenda e non c’era tempo per litigare su cose di poco valore.
E a casa? Come hai gestito la situazione con i tuoi figli?
All’inizio ho pensato di andare altrove, ma non era possibile, a casa ero molto nervosa, stavo sempre al telefono per capire/consolare. E un giorno mio figlio mi ha chiesto: Ma oggi torni? Allora realizzi che se ti ammali e si ammala anche il tuo compagno i tuoi bambini rimarrebbero soli, avendo anche nonni a rischio. Per cui stai attenta più che puoi e un paio di volte che sono tornata a casa e non ero sicura di come avessi fatto la svestizione sono rimasta con la mascherina, senza abbracciarli.
Ilaria Capua prima ancora del Covid-19 parlava di salute circolare, del fatto che non si può non pensare al nesso fra umani, animali, ambiente in cui viviamo. Affrontate queste tematiche nella vostra formazione, negli aggiornamenti professionali?
Tra sanitari dibattiamo molto sulla resistenza agli antibiotici, se il corpo li assume anche quando non servirebbe, attraverso il cibo, o medici che li prescrivono al primo starnuto, poi non fanno più effetto. Il sistema immunitario già provato da altri fattori come l’inquinamento ne risente e non sappiamo più cosa fare. Idem con i batteri che mutano e non sai gestire.
I virus sono la conseguenza di tutto questo, ci sono sempre stati nella storia dell’umanità ma forse ora abbiamo superato certi limiti, per esempio secondo me siamo troppi sulla terra, e dobbiamo ripensare la nostra alimentazione e la nostra mobilità. Una delle cose belle che ricorderò di questi giorni è che la mattina non dovevo più correre per andare di qua o di là, fra lavoro bambini incombenze.
Nei mesi di lockdown è stata molto usata la retorica dell’eroe riferita alle infermiere/i in prima linea, tu ti senti un’eroina?
Adesso ci chiamano eroi, dovrebbero farlo anche quando sono in attesa in codice verde, perché è quello il cuore del pronto soccorso con il triage: capire chi è in grado di poter aspettare e chi no. Quella è la nostra competenza. Bisognerà ricordarlo quando tutto sarà finito. Come dice Gino Strada non siamo eroi, siamo professionisti responsabili che abbiamo tenuto a galla la sanità nonostante le politiche sanitarie.
La situazione ora sembra cambiata, siamo pronti secondo te con le tre T, testare - tracciare - trattare?
Sicuramente ora ci sono più laboratori per fare i tamponi h24, ed è molto importante il test sierologico. Il tampone è affidabile al 70% ed è ‘operatore dipendente’ se viene fatto male è poco attendibile. Deve essere introdotto completamente nel naso, quindi va fatto con calma e accuratezza. Ora ci sono anche i test rapidi con la goccia di sangue per vedere gli anticorpi ma sono poco accurati e adesso siamo arrivati ad avere solo da 1 a 3 pazienti Covid al giorno. Mi preoccuperò se dovessero tornare i giovani. Aspetto il 2 giugno per vedere i risultati di questa apertura.
* ripreso da www.networksaluteglobale.it
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