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03/11/2020

"A Gi’... Ma nun me rompe’ er ca’!"

Questo maledetto 2020 si è portato via anche lui. Gigi Proietti.

Il meraviglioso camaleonte del Teatro e del Cinema italiano ci ha lasciati la scorsa notte. A cedere, in tempi di Covid, la vecchia pompa già malandata. Quell’organo così importante per i teatranti, al punto che Antonin Artaud arrivò a definire l’attore proprio “un atleta del cuore”. Proietti avrebbe compiuto 80 anni giusto ieri!

Un meme, su Facebook, recita affettuosamente: “...E comunque, nascere e morire lo stesso giorno lo poteva fa’ solo Mandrake”. In riferimento, com’è ovvio, al suo personaggio più famoso: Bruno Fioretti, detto appunto Mandrake.

Un ruolo che gli aveva regalato imperitura notorietà. Interpretato nella pellicola diretta da Steno, Febbre da cavallo, e divenuta un film di culto per tante generazioni di fancazzisti.

Fancazzisti, il cui obiettivo è quello di sfidare la vita in un sol colpo. In un azzardo. E venirne irrimediabilmente sconfitti!

Personalmente, non ho mai perdonato a Proietti la presa di distanza, con annessa critica – quasi un pentimento, nel solco della post ideologia dominante in quest’epoca mediocre – espressa, qualche anno fa, sul Teatro Popolare. Da lui accusato di aver rovinato la scena italiana per eccesso ideologico a fini politici.

E ovviamente, mi era intollerabile il Proietti che ha vestito la divisa della Benemerita, nel Maresciallo Rocca. Ruolo che gli aveva concesso una secondi giovinezza professionale, ma che ne restringeva, irrimediabilmente, penalizzandola con i codici linguistici tipici del medium televisivo e della serialità – altra roba furono gli sceneggiati degli anni ’60 – le capacità attoriali.

Quella che amavo era la genialità espressiva, la potenza interpretativa, la magica impalpabilità del Proietti che, proprio nel Teatro d’Arte, nel Teatro Popolare, nel Cinema d’autore, ancorché umoristico e comico (da Magni a Monicelli, da Bolognini a Damiani, da Petri a Lattuada, da Blasetti a Steno), aveva saputo offrire le sue migliori performance.

Come dimenticare l’affarologo, tuttologo appaltologo Pietro Ammicca. O il suo Meo Patacca, personaggio della Roma secentesca, «er più bravo trà gli sgherri romaneschi», ripreso dall’opera di Giuseppe Bernieri.

E ancora, il dannato peccatore Pattume, di Brancaleone alle Crociate, altro cult-movie firmato da Monicelli, nel quale Proietti interpreta anche il Santo Colombino – citazione da Simon del deserto di Buñuel – e la Morte.

Incondizionatamente, amavo il Proietti che aveva fuso corpo e voce in una sinfonia che evoca – immancabilmente, di fronte ad attori tanto bravi – il dionisiaco spirito della musica di nietzschiana memoria.

Il Proietti picaresco, satiro, saltimbanco. Il clown bianco, striato di popolaresca malinconia. Il Proietti che, con garbata ironia, si faceva gioco del potere e degli italici vizi.

Erano queste qualità, su cui si innestava una tecnica rigorosa e affinatasi nel tempo, che lo avevano reso attore completo e artista polimorfo e polifonico.

Nel gesto, mai pedissequamente naturalistico, quasi disarticolato. Nella mimica, straniante e capace di impennarsi sulle ripide vette di maschere deformanti. Nella voce, alla quale fu in grado di far compiere torsioni funamboliche. Recitazione, canto, danza, mimo. Palcoscenico, cinema, televisione. Dramma e commedia. Avanspettacolo, cabaret, teatro d’arte. Grammelot e paradossi giocati sul filo di un linguaggio che si fa metafora, allegoria, sinestesi, inconscio dipinto sul volto, evocazione, assonanza, libera associazione di idee e significanti. Affabulazione e racconto circense. Suono e glossa.

Il tutto, in cadenze di comoedia, nell’accezione aristotelica. Scrive Aristotele ne La Poetica: «La commedia è, come abbiamo detto, imitazione di persone più spregevoli, non però riguardo ad ogni male, ma rispetto a quella parte del brutto che è il comico. Ed infatti il comico è in qualche errore o colpa, ma che non provoca né dolore né danno, come, per prendere il primo esempio che ci si presenta, la maschera comica, che è sì brutta e stravolta, ma non causa dolore».

Proietti sembrava incarnare alla perfezione il Paradosso dell’attore di Diderot. Nel suo caso – come nel caso dei grandi attori comici – l’apparente improvvisazione (artificiosità) era tenuta sotto lo stretto controllo della razionalità e di una rara disciplina.

I suoi erano tempi comici che oserei definire cronometrici. Accelerazioni, frenate, pause che la macchina/attore sapeva gestire come un pilota di Formula 1.

Uno di quei rari casi per i quali vale la pena scomodare la categoria di Maestro. Di Artista.

Uno di quei posseduti dalla follia divina (dalla μαν(τ)ική di cui ci parla Platone nel Fedro); un δαίμων (demone), uno di quegli esseri soprannaturali e demoniaci, sacri – seppur, fino al ‘600, gli attori venivano seppelliti, per volontà della Chiesa, in terra sconsacrata – che la banalità del tempo presente ha seppellito sotto le macerie della profanazione economica. Peggio, del Mercato. Umiliando teatro, cinema, pubblico e arte attoriale con interpreti per lo più “sfiatati” e degni del canile televisionaro!

Proietti, viceversa, aveva costruito quello che il geniale, immaginifico Leo de Berardinis, ebbe a definire corpo poetico. Un corpo capace, come scriveva sempre de Berardinis, di «entrare in contatto psicosomatico col fuori di sé […] Chiunque entri in un contesto o nell’azione psicosomatica intanto rimane uno che sta fermissimo. L’attore deve avere un controllo psicosomatico superiore, altrimenti non è un attore. L’attore non è il solito artista. Attore è corpo, mente, immaginazione sotto controllo ad orario preciso».

Proietti imbastiva una vera e propria drammaturgia dell’attore, come la definisce Marco De Marinis. All’interno della quale ogni gesto, ogni tono, ogni espressione segmentata, andava a comporre un ordito perfetto.

Quell’immobile, incandescente tensione cinetica, che solo un corpo scenico e poetico, che cancella la mera rappresentazione per far fluire la musica che lo attraversa – sia essa quella tragica o l’opera buffa – sa trasformare in arte.

La drammaturgia dell’attore, poi, si fondeva con la parola drammaturgica vera e propria. Cucita addosso come un abito fatto su misura da un grande sarto. E, nei casi più fortunati, davano luogo a quello che, perfino uno dei padri del Teatro italiano del ‘900 – l’ Eduardo che certo non era avvezzo a perdersi in sdilinquiti complimenti – ebbe a definire un miracolo.

L’aneddoto è gustoso e vale la pena raccontarlo. Proietti, una sera, congedatosi definitivamente dal pubblico, chiuso il sipario, raggiunge il camerino dove trova ad attenderlo Eduardo che, seduto su una sedia di vimini, portandosi una mano alle tempie, esordisce: «Secondo me, non lo sai nemmeno tu cosa hai fatto là sopra, quale miracolo hai compiuto e compi tutte le sere!».

Stiamo parlando, chiaramente, del pirotecnico A me gli occhi... Please.

Un “assolo” che fece epoca, consegnando Proietti all’Olimpo del teatro Italiano.

Nella creazione della scrittura scenica, per l’attore, regista, drammaturgo romano, la realtà rappresentava solo uno spunto, un pretesto, su cui edificare architetture surreali, grottesche, assurde, comiche, umoristiche, alle quali il corpo/glossa dell’attore donava un significato mai logico. Sempre evocativo, slittato, traslato, straniante. Paradossale ma pur sempre agganciato alla quotidiana esperienza della vita. E come questa, divertente e amara a un tempo.

Eclettico e dotato di una cultura teatrale sincretica, Proietti sapeva coniugare la migliore tradizione del kabaret espressionistico tedesco, del teatro popolare Italiano e dell’avanspettacolo. Tutto con la leggerezza propria dei giganti.

E mi piace ricordarlo, allora, insieme ad un altro piccolo – in termini di altezza – gigante del teatro italiano: Renato Rascel. Quando, nella Canzonissima del 1971, presentata da Corrado e dalla Carrá, diedero vita ad un autentico pezzo di bravura, portando nello studio Rai un frammento di “Alleluja brava gente”, lo spettacolo con cui, in quel momento, erano in scena.

Due saltimbanchi, due clown, due attori strepitosi che esaltarono l’arte attoriale ballando, cantando, recitando, saltando. Teatro a trecentosessanta gradi.

E dunque, non puoi fare altro che chiederti dove cazzo sia finito, in questo dannato paese, tutto quel sapere. Tutta quella cultura. Tutta quella creatività legata all’universo della scena.

Proietti è stato, quindi, un satiro che, fino all’ultimo, si è fatto beffe della Morte...

Come dici Gigi, corro il rischio di diventare sentimentale e nostalgico? Sto esagerando? Ma com’è che ti sento? Mica ci conosciamo! Come dici? Sei morto? ‘A Gi’... Ma nun me rompe’ er ca’!

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