Oggi 3 novembre è l’Election Day negli Stati Uniti.
Una elezione che non è come le altre, intanto perché si svolge nel pieno di una pandemia incontrollata, con un picco di contagi più grave di quello della primavera scorsa.
Sono stati quasi 100 mila i nuovi contagiati il 30 ottobre, giornata record per gli Stati Uniti.
I contagiati hanno superato i 9 milioni ed i decessi per Covid-19 sono oltre 230 mila.
L’attuale processo elettorale si presenta così come un inedito, soprattutto per i toni da guerra civile strisciante che la stanno accompagnando – “una campagna elettorale di piombo”, l’avevamo definita – e anomalo per l’incertezza sull’esito finale, che sarà determinato soprattutto dal voto in una dozzina di swinging state.
Le uniche certezze – finora – sembrano essere l’alto livello di partecipazione al voto, e i soldi spesi, che ne fanno l’elezione presidenziale più costosa di tutti i tempi: 6,6 miliardi di dollari, di cui 1,8 pubblicità elettorale televisiva solo dai due candidati alla presidenza.
Il quadro della geografia politica statunitense si è evoluto negli ultimi anni. Gli Stati in bilico non sono gli stessi del 2016 e le elezioni mid-term del 2018 hanno in parte cambiato la situazione.
Nel 2016, secondo il sito FiveThirtyEight, erano 12 i cosiddetti swinging State, ma con le elezioni a metà mandato Colorado e Ohio sono divenuti meno incerti, mentre l’Arizona e la Georgia – tradizionalmente repubblicani – hanno incominciato ad essere Stati “contesi”.
I safe State, cioè gli Stati in cui l’esito del voto è sicuro sono ancora la maggioranza, quelli in bilico oggi, e su cui i due pretendenti hanno concentrato soldi ed energie, sono: Texas (con 38 “grandi elettori”), Florida (29), Pennsylvania (20), Ohio (18), Michigan (16), Georgia (16), Carolina del Nord (15), Wisconsin (10), Minnesota (10), Iowa (6).
Nel 2020 è stata infatti aggiornata la lista di FiveThirtyEight. La mappa elettorale ha subito una serie di cambiamenti. Alcuni stati, come l’Iowa, il Michigan o il Maine, ora oscillano fortemente verso il campo repubblicano – cioè sono diventati red state – mentre altri, storicamente “rossi”, sembrano propendere per i democratici, come l’Arizona, la Georgia o persino il Texas.
È bene ricordare che in 48 Stati – compresi quella dozzina considerati incerti e che saranno fondamentali per il risultato – vale la regola del the winner takes it all.
Il candidato presidenziale che vince quindi prende tutto, cioè sia i due eletti al Senato per ogni Stato – al di là della sua dimensione demografica – sia tutti gli eletti del Congresso, che differiscono da Stato a Stato essendo in proporzione alla popolazione, indipendentemente dallo scarto registrato nelle urne.
La soglia da raggiungere per vincere è di 270 eletti su 534 totali tra i membri delle due Camere.
Il Presidente, quindi, è eletto con un suffragio indiretto, ossia designato da un collegio di eletti con il metodo prima descritto.
Una elezione che non è come le altre, intanto perché si svolge nel pieno di una pandemia incontrollata, con un picco di contagi più grave di quello della primavera scorsa.
Sono stati quasi 100 mila i nuovi contagiati il 30 ottobre, giornata record per gli Stati Uniti.
I contagiati hanno superato i 9 milioni ed i decessi per Covid-19 sono oltre 230 mila.
L’attuale processo elettorale si presenta così come un inedito, soprattutto per i toni da guerra civile strisciante che la stanno accompagnando – “una campagna elettorale di piombo”, l’avevamo definita – e anomalo per l’incertezza sull’esito finale, che sarà determinato soprattutto dal voto in una dozzina di swinging state.
Le uniche certezze – finora – sembrano essere l’alto livello di partecipazione al voto, e i soldi spesi, che ne fanno l’elezione presidenziale più costosa di tutti i tempi: 6,6 miliardi di dollari, di cui 1,8 pubblicità elettorale televisiva solo dai due candidati alla presidenza.
Il quadro della geografia politica statunitense si è evoluto negli ultimi anni. Gli Stati in bilico non sono gli stessi del 2016 e le elezioni mid-term del 2018 hanno in parte cambiato la situazione.
Nel 2016, secondo il sito FiveThirtyEight, erano 12 i cosiddetti swinging State, ma con le elezioni a metà mandato Colorado e Ohio sono divenuti meno incerti, mentre l’Arizona e la Georgia – tradizionalmente repubblicani – hanno incominciato ad essere Stati “contesi”.
I safe State, cioè gli Stati in cui l’esito del voto è sicuro sono ancora la maggioranza, quelli in bilico oggi, e su cui i due pretendenti hanno concentrato soldi ed energie, sono: Texas (con 38 “grandi elettori”), Florida (29), Pennsylvania (20), Ohio (18), Michigan (16), Georgia (16), Carolina del Nord (15), Wisconsin (10), Minnesota (10), Iowa (6).
Nel 2020 è stata infatti aggiornata la lista di FiveThirtyEight. La mappa elettorale ha subito una serie di cambiamenti. Alcuni stati, come l’Iowa, il Michigan o il Maine, ora oscillano fortemente verso il campo repubblicano – cioè sono diventati red state – mentre altri, storicamente “rossi”, sembrano propendere per i democratici, come l’Arizona, la Georgia o persino il Texas.
È bene ricordare che in 48 Stati – compresi quella dozzina considerati incerti e che saranno fondamentali per il risultato – vale la regola del the winner takes it all.
Il candidato presidenziale che vince quindi prende tutto, cioè sia i due eletti al Senato per ogni Stato – al di là della sua dimensione demografica – sia tutti gli eletti del Congresso, che differiscono da Stato a Stato essendo in proporzione alla popolazione, indipendentemente dallo scarto registrato nelle urne.
La soglia da raggiungere per vincere è di 270 eletti su 534 totali tra i membri delle due Camere.
Il Presidente, quindi, è eletto con un suffragio indiretto, ossia designato da un collegio di eletti con il metodo prima descritto.
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Non è dato sapere cosa potrebbe accadere nei prossimi giorni, considerato che, se non uscisse una chiara indicazione dalle urne, il trapasso dei poteri potrebbe non essere pacifico, o comunque traumatico e per non lineare. Il che lascia grandi margini di incertezza sulle 11 settimane che separano il giorno delle elezioni dall’entrata in carica del nuovo presidente.
Un incertezza dovuta soprattutto a due fattori: i possibili contenziosi legali sulla validità del voto, che Trump in parte ha voluto “blindare” assicurandosi una Corte Suprema a netta maggioranza repubblicana (6 a 3), e il cui giudizio potrebbe essere decisivo come 20 anni fa, e l’uso della violenza da parte dei sostenitori di Trump medesimo, compresa la galassia dell’alt-right, particolarmente attiva in 5 Stati in cui il risultato elettorale è “in bilico”, o comunque il tentativo di forzare la mano da parte dei suoi supporter.
Le prove generali le abbiamo avute questo fine settimana; quelli che l’attuale Presidente ha chiamato “patrioti” hanno impedito lo svolgimento di iniziative da parte dei supporter dello sfidante democratico, organizzando blocchi del traffico nelle maggiori arterie di alcuni Stati con proprie carovane automobilistiche.
Si tratterebbe per Trump di “re-importare” le modalità delle rivoluzioni colorate, svoltesi in differenti contesti, che fin qui gli Stati Uniti avevano imposto ad altri paesi. In pratica, si tratterebbe di portare il caos creatore in casa.
È probabile che se i risultati fossero chiari, il Deep State probabilmente non permetterebbe a Trump di “forzare la mano” al di là delle sue gesticolazioni e di creare un clima di instabilità; oltre a peggiorare la già deteriorata reputazione internazionale degli States, uno sviluppo del genere potrebbe provocare pericolose ripercussioni in molti ambiti, a partire da quello finanziario.
Anche in questa “democrazia” i veri elettori sono “i mercati” e, tranne i settori del big business legati all’industria sanitaria ed energetica, la Corporate America sembra aver divorziato da Donald Trump, nonostante i tagli delle tasse durante la sua amministrazione.
Wall Street, così come gli strati più elevati della società statunitense – come si evince dalle donazioni effettuate e dalle prese di posizione – ha scelto Biden.
Domenica Trump ha minacciato azioni legali preventive, ipotizzando una possibile “frode” e “uso non corretto” nella conta dei voti in Nevada, o nella molto più determinante Pennsylvania, uno dei tre Stati del Mid-West (insieme a Minnesota e Michigan) in cui l’attuale presidente aveva strappato la vittoria a Hillary Clinton per un soffio, nel 2016.
Quello contro il voto postale è stato uno dei leit motiv di tutta la sua campagna.
L’attuale presidente è infatti andato in fibrillazione a causa della decisione della Corte Suprema di quello Stato di rendere possibile il conteggio fino a 3 giorni dopo l’Election Day.
Sebbene a livello nazionale Trump, quattro anni fa, abbia perso nel voto popolare complessivo è diventato Presidente grazie a circa 80 mila voti in totale in questi tre Stati della rust belt, conquistando il consenso di parte di quella working class bianca che allora voltò le spalle ai democratici e che ancora oggi sarà determinante.
A differenza di 4 anni fa, la narrazione del “ragazzo dalle umili origini” cresciuto fino a 10 anni nel MidWest ed il fatto che il padre fosse un membro del sindacato, sembrano avere avuto più appeal della precedente sfidante democratica.
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Il voto anticipato, di persona o per corrispondenza, ha segnato pesantemente il processo elettorale, considerato che domenica pomeriggio vi erano 93 milioni di schede elettorali compilate, cioè più di 2/3 dei voti totali del 2016. Secondo US Elections Project, 96,7 milioni lunedì: 35,4 di persona e 61,2 per posta.
Texas ed Hawaii avevano già sorpassato i votanti del 2016 questo lunedì, mentre in tre battleground state (Nord Carolina, Georgia e Florida) i votanti hanno superato il 90% di quelli totali del 2016.
Nate Persily, professore di diritto alla Stanford Law School, ipotizza che i votanti in totale potrebbero essere più di 160 milioni; circa 25 milioni in più rispetto ai 136,5 delle precedenti elezioni presidenziali.
Una affluenza inedita al voto, che i repubblicani hanno cercato con tutti i mezzi d’impedire. In alcuni Stati fondamentali – come La Carolina del Nord – il voto afro-americano tendenzialmente ostile a Trump sarà determinante, così come i “nuovi iscritti” alle liste elettorali – per esempio in Pennsylvania – potrebbero annichilire la precedente performance di Orange Man.
In Florida, le fasce giovanili di latinos potrebbero invertire la tendenza del voto ispanico – in particolare di origine cubana – tradizionalmente pro-repubblicano.
Un recente esempio di questa volontà di boicottaggio del voto da parte repubblicana è il tentativo fallimentare di considerare nulli 120 mila voti effettuati in 10 seggi “volanti” del bastione democratico di Harris County in Texas, in un contesto in cui a livello statale il nuovo voto latinos rischia di cambiare la stessa geografia politica. Bisogna ricordare che questi avevano votato massicciamente per l’ousider socialista Bernie Sanders, durante le primarie democratiche.
Mentre Carolina del Nord e Florida hanno già iniziato a contare i voti ed i risultati potrebbero essere conosciuti la sera stessa del 3 novembre o il giorno dopo, in Michigan ed in Pennsylvania occorrerà qualche giorno in più.
New York, Alaska e Rhode Island non rilasceranno report la notte delle elezioni.
Abbiamo cercato di dare in precedenza qualche ragguaglio sul difforme quadro legislativo che varia da Stato a Stato, ed è chiaro che l’esito finale certificato in ogni Stato non avverrà prima di alcune settimane.
A seconda di come verranno rilasciati i dati cambierà la percezione in corso d’opera sull’esito finale. Per esempio negli Stati che renderanno pubblici per primi gli esiti del voto per corrispondenza, generalmente favorevoli a Biden, come Arizona, Florida e Carolina del Nord (tutti Stati in bilico come abbiamo visto) si potrà avere una maggiore percezione della vittoria di Biden.
Che potrebbe tramutarsi però in una illusione ottica, mentre Stati come la Virginia – tendenzialmente repubblicana – che in genere rende noti i voti per prima, potrebbero indurre la percezione contraria.
Vediamo in dettaglio alcuni Stati maggiormente in bilico.
La Florida, darà i primi risultati, compresi i conteggi del voto anticipato, alle otto di sera, ma le operazioni di conteggio potrebbero durare fino a giovedì.
In Georgia il conteggio potrebbe durare alcuni giorni, anche se il Segretario di Stato si attende che il vincitore si conosca già giovedì.
In Iowa i risultati dovrebbero essere dati in un lasso di tempo simile.
Nel Nord Carolina lo spoglio completo (prima quello del voto anticipato, poi quello del 3 novembre) dovrebbero essere resi noti durante la notte tra il 3 e il 4.
In Ohio – dove le schede elettorali possono arrivare dopo il 3 novembre – prima verranno dati i risultati del voto anticipato e poi quelli del voto fisico della giornata, ma i risultati certi non si conosceranno prima del 18 novembre probabilmente, con la certificazione finale rinviata al 28.
Mentre in Texas, che ha forme più restrittive di voto per posta, così che i bollettini sul voto per corrispondenza possono arrivare fino al 4 novembre, darà i risultati sostanziali la notte stessa.
Secondo un sondaggio di NBC News/Wall Street Journal, Biden è avanti di 10 punti, ma solo in 5 dei 12 Stati che risulteranno cruciali. Il che, al netto del margine d’errore di tutti i sondaggi, vuol dire un margine molto stretto per lo sfidante democratico.
Come dicevamo prima, se Trump si attribuisse la vittoria la sera stessa o gridasse allo scandalo, fomentando i suoi supporter a scendere nelle strade, si aprirebbe una situazione inedita, considerato il livello di scontro di questi mesi, dopo l’omicidio di George Floyd a maggio.
Una curiosa nemesi storica per chi ha rovesciato con la forza i risultati di elezioni democratiche in mezzo mondo.
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