di Sandro Moiso
“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)
“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)
”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)
Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.
Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.
Può iniziare da questo episodio una riflessione sul fatto che il segretario del PD, Enrico Letta, che si scandalizza ad ogni piè sospinto per i motivi più disparatii, come nel caso delle parole proferite per stigmatizzare le scelte del premier ungherese («Sono particolarmente scandalizzato in questo momento dall’atteggiamento dell’Ungheria di Orban, mette il suo veto rispetto alle sanzioni e si pone come chiaro ed esplicito alleato di Putin»), in realtà non si scandalizzi affatto per l’indiretta partecipazione del governo che sostiene il conflitto in atto in Ucraina.
Anima candida, erede del Veltroni-pensiero, pieno di nostalgia per l’età (kennedyana) dell’innocenza perduta, il segretario di un partito che accetta qualsiasi compromesso a favore delle scelte della Banca Centrale europea e del suo ex-governatore ed attuale premier italiano e del progressivo ampliamento della guerra russo-ucraina verso Est e, inevitabilmente, verso Ovest, in compenso, non ha mai perso l’occasione per sbandierare la sua personale difesa, e del suo partito, dei diritti umani e civili.
Questo atteggiamento di un “democratico” difensore dei diritti individuali serve perfettamente ad illustrare l’intricato rapporto che intercorre, forse fin dalla loro formulazione alla fine del Secondo conflitto mondiale, tra “diritti umani” e rafforzamento del ruolo dello Stato e del dominio in ogni angolo del mondo dei valori occidentali e degli interessi economici, politici e militari che li sottendono. In cui, ancora una volta, le violenze connesse a un conflitto sono ascrivibili soltanto ad una delle parti in causa, senza mai considerare l’autentica macelleria di vite, di donne, uomini e bambini che la guerra esige per sua stessa natura. Una divinità che non ha riguardo alcuno per il fronte “giusto” o quello “sbagliato”, da cui esige un medesimo tributo di sangue e di violenza.
Riflessione che porta inevitabilmente a rivedere e ribaltare tutti i luoghi comuni su cui si fonda una sventurata e opportunistica concezione dei cosiddetti diritti umani, fondata essenzialmente sul diritto degli Stati, soprattutto occidentali, a definire ciò che è accettabile e ciò che non lo è nei rapporti che intercorrono tra i diversi attori del conflitto sociale oppure di quello globale per la spartizione delle ricchezze e delle influenze economico-militari su scala mondiale.
Pertanto, l’uso che oggi viene fatto, sia dalle ONG che dagli
apparati propagandistici e militari, del concetto di “diritti umani” non
risulta essere dovuto ad un radicale travisamento degli stessi ma, al
contrario, già implicitamente contenuto proprio nelle formulazioni che
hanno accompagnato tale concetto fin dalle sue origini.
Come hanno affermato Nicola Perugini e Neve Gordon in una loro ricerca:
Più che reclamare una concezione moralmente adeguata dei diritti umani, intendiamo mostrare come i diritti umani e la dominazione si intersechino.[…] Attraverso un attento esame dei dati empirici, criticheremo[…] l’assunto che maggiori sono i diritti umani minore è il livello di dominazione, il quale normalmente associa la promozione dei diritti umani all’emancipazione dei più deboli […] e offusca le situazioni in cui gli oppressori possono rivendicare, manipolare e tradurre i diritti umani, creando così una propria cultura dei diritti umani per razionalizzare la perpetuazione della dominazione […] Diversi pensatori hanno sostenuto che i diritti umani sono in realtà vincolati dal potere e spesso operano al suo servizio, senza minacciarlo realmente […] In base a questa prospettiva, i diritti umani contribuiscono ad affinare le forme di governo […] In questo senso, i diritti umani consentono la creazione di nuove soggettività poiché, grazie all’evoluzione del proprio repertorio, essi sono in grado di definire cosa significa essere un soggetto pienamente umano1.
Quindi non un’umanità determinata dalla storia, dall’economia e dai rapporti di classe e di sfruttamento che hanno caratterizzato le strutture sociali del dominio che ne derivano, ma dal Diritto, il quale, a sua volta, è di esclusiva competenza degli stati nazionali e delle organizzazioni internazionali che li riuniscono. In altre parole: lo Stato e le classi dirigenti definiscono i diritti e l’umanità, o meno, dei loro sottoposti, privandoli di qualsiasi altra arma di resistenza che non sia quella di rivolgersi ai tribunali statali o alle corti internazionali. I quali a loro volta, come già succede anche in Italia e in altri paesi per quanto riguarda la persecuzione degli attori del conflitto sociale, potranno determinare se i vari soggetti hanno o non hanno diritto ad un pari trattamento legislativo sulla base delle loro precedenti scelte politiche ed operative. Contribuendo così a sviluppare il cosiddetto diritto penale del nemico, ovvero un non diritto sostanziale, in cui fa rientrare tutti gli avversari dell’ordine sociale, economico e geopolitico dato, ogni qualvolta si tratti di giudicarli.
La storia anticoloniale ci insegna per esempio che la violenza può essere praticata per resistere, liberare e svincolare i popoli dai rapporti di dominazione coloniale. Però, paradossalmente, Amnesty International fu riluttante ad adottare Nelson Mandela come prigioniero politico perché si era rifiutato di rinunciare all’uso della violenza, in quanto lo riteneva uno strumento legittimo nella lotta contro il regime dell’apartheid”2.
Un altro evidente paradosso è che oggi uno dei maggiori strumenti di diffusione dell’idea dei diritti umani possa essere costituito proprio dalle forze armate americane, come è riscontrabile dall’annotazione posta in epigrafe a questo intervento. Non solo, ma si stima anche che:
L’inserimento di corsi sui diritti umani nell’addestramento militare rivela anche un altro mutamento nell’ambito dei diritti umani. Se il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) era in passato considerato il corpus legislativo che si occupava del conflitto armato, e la legislazione internazionale sui diritti umani l’insieme di norme vigenti in tempo di pace, ora queste due legislazioni non sono più ritenute totalmente separate. Nei loro rapporti e nelle loro petizioni le ONG le utilizzano simultaneamente per promuovere il rispetto dei diritti umani in situazioni di conflitto armato e di occupazione militare, e dato che il conflitto è oramai la norma in molte regioni del mondo, è diventata pratica diffusa abbandonare la classica separazione tra i due ambiti del diritto internazionale. In altre parole, la normativa sui diritti umani non è più considerata parte di un ambito completamente separato dalle norme umanitarie dello jus bellum3.
Salta immediatamente agli occhi come tale scelta possa ricoprire una funzione importantissima non soltanto nel poter definire le guerre degli ultimi decenni come guerre umanitarie, ma anche nel disumanizzare il nemico che tali criteri “militari” non voglia, in quanto Stato, o non possa, in quanto movimento ancora privo di identità nazionale riconosciuta e definita da confini spaziali e giuridici, adottare.
In un tempo di guerra permanente come quello che stiamo vivendo, il coinvolgimento dei diritti umani nello jus bellum giustifica anche la distinzione tra armi intelligenti, bombardamenti e assassinii mirati rispetto al semplice assassinio o alla distruzione, spesso accompagnata dall’aggettivo “terroristico”, che, a questo punto, diventa sempre e soltanto ciò che definisce la violenza del nemico. Soprattutto se quel nemico si oppone all’espansione dei diritti degli Stati liberali e democratici di “dominare”. Magari per speculari interessi propri, ma sempre diversificati o opposti rispetto a quelli dell’Occidente.
Per questo motivo, a titolo di esempio, l’uso di droni “assassini” per eliminare generali, carri armati con relativi equipaggi o leader politici avversari, sarà sempre presentato in maniera benevola, quasi a voler far svolgere alla macchina la funzione dell’eroe invincibile e sempre giustificato nella sua azione, per violenta che essa sia. Mescolando, nell’immaginario, l’apparato tecnologico diretto a distanza attraverso un joy-stick oppure da un evoluto programma search and destroy con gli eroi del mito, da Gilgamesh a quelli più dozzinali portati sullo schermo da Bruce Willis o Sylvester Stallone.
In tale contesto, in cui tra l’altro ambiente bellico e ambiente urbano tendono sempre più a combaciare, anche la discussione sulle vittime civili dell’azione militare viene fortemente influenzata, trasformando le stesse in “scudi umani”, se uccise nei bombardamenti destinati a distruggere il potenziale militare ed economico nemico, oppure in “vittime o danni collaterali”, se colpite durante azioni mirate ad assassinare gruppi ristretti o singoli rappresentanti dell’apparato politico-militare avversario. Mentre le vittime causate dall’azione avversa, come ben si è visto in questi cento e più giorni di guerra in Ucraina, non possono essere altro e soltanto che vittime di “crimini di guerra”.
Insomma, l’azione militare degli apparati bellici americani ed occidentali in genere troverà sempre una giustificazione umanitaria del proprio operato, distinguendosi a priori dall’”atto terroristico” di chi si trova ad operare in una totale asimmetria di forze ed armamenti oppure dai “crimini di guerra” se le vittime saranno il frutto di scontri allargati con potenze di egual forza militare. Seguendo questa logica, nel caso della campagna condotta in Ucraina, i bombardamenti e le azioni militari delle forze armate di Zelensky, per default, colpirebbero quasi sempre e solo obiettivi militari mentre le azioni dei militari russi sarebbero sempre e soltanto dirette a colpire le comunità civili, attraverso i loro corpi fisici e le loro abitazioni.
Contribuendo a sviluppare un’autentica pornografia della morte in cui è possibile seguire in diretta ogni azione mirante a debellare il nemico fino alla sua distruzione, con manifesta simpatia se non addirittura gioia dei media, oppure osservare, con sollecitata commozione e indignazione, le immagini dei corpi trucidati dei “buoni” o dei danni da essi subiti.
Le istanze delle vittime reali o degli avversari diventano così una questione di “verità assoluta”, da giudicare secondo l’episteme auto-referenziale ed indiscutibile dei diritti umani, o di risarcimenti economici e morali. In cui il concetto ampliato di “crimine di guerra” diventa estremamente efficace nello spazzare via dalla scena qualsiasi riferimento alla Storia del dominio coloniale, imperiale, economico o al conflitto perenne tra le classi e tra gli imperi. Non a caso:
Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle di grandi corporation come Wallgreen, Bank of America, LinkedIn e alcuni dei più rinomati studi legali4.
La stessa HRW dichiara poi esplicitamente che: «L’essenza della nostra metodologia non è la capacità di mobilitare le persone perché scendano in piazza […] l’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani»5. In tal modo:
L’invocazione della legislazione sui diritti umani spesso traduce la violazione in un “caso”: classificandolo, separandolo e isolandolo, ne nasconde le fondamenta strutturali[…] In questo modo, si cancellano i motivi e le ragioni comuni sottese a violazioni apparentemente diverse. Andare oltre il caso isolato e pretendere la distruzione delle strutture oppressive, per non parlare dello smantellamento del regime che commette le violazioni, è percepito come una strumentalizzazione dei diritti umani, specialmente quando l’abuso è commesso da uno Stato liberale6.
Cosicché
l’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di rettificare le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce7.
Attraverso il tropo della neutralità, il professionismo dei diritti umani definisce «i limiti del pensabile e dell’impensabile e contribuisce così al mantenimento dell’ordine sociale da cui dipende il suo potere8.
Interrompendo questo lungo excursus sulla funzione del cosiddetto diritto umanitario, in gran parte tratto, con le dovute modifiche, da una recensione già pubblicata su Carmilla nel 20169 e riportando l’attenzione sui fatti attuali, può risultare utile riflettere sul fatto che, proprio per i motivi appena elencati, chi difende i diritti degli immigrati a diventare proletari sfruttati come braccianti o manodopera e manovalanza della malavita, una volta accolti nella democratica italietta bellicista e colonialista, poco o niente voglia sentir parlare di classi sociali e di lotta tra le stesse.
Altrettanto vale per la questione femminile e la violenza sulle donne ridotta a spettacolo hollywoodiano, in cui la drammatizzazione per mezzo di una sceneggiatura basata su frasi e scene ad effetto contribuisce più a dar vita ad una forma di scripted-reality che non a una concreta analisi dei fatti.
Un altro aspetto del genocidio sono i crimini di carattere sessuale, non soltanto contro donne e ragazze, ma anche bambini, ragazzi, uomini […] Non riusciamo oggi a dare un numero preciso di questi crimini. Possiamo però dire che hanno un carattere di massa. E sono intenzionali, non casuali. Sappiamo di una ragazza di sedici anni: due nemici, non riesco a chiamarli umani, l’hanno violentata in tutti i modi, il terzo teneva ferma sua sorella di 25 anni, e le diceva «Guarda, è quello che faremo a tutte le puttane naziste». Questi orchi violentano i nostri bambini e dicono alle madri «Così non metterete più al mondo nazisti ucraini»10.
Peccato soltanto che l’autrice dell’articolo summenzionato, la super-commissaria dei diritti umani ucraina, Lyudmyla Denisova, sia stata rimossa successivamente dal suo incarico dal voto di un parlamento ucraino preoccupato dalle cifre degli abusi sessuali russi esagerate e gonfiate dalla stessa. La Verkhovna Rada ha infatti licenziato la commissaria parlamentare per i diritti umani a causa della sua prolungata e ingiustificata permanenza all’estero durante i mesi del conflitto e del
ripetuto mancato adempimento delle sue funzioni relative all’istituzione di corridoi umanitari, alla protezione e scambio di prigionieri, al contrasto alla deportazione di adulti e bambini dai territori occupatie ad altre attività per i diritti umani. Secondo il Parlamento, Denisova ha concentrato la sua attività mediatica sui numerosi dettagli relativi agli abusi sessuali su adulti e minori nei territori occupati che non erano supportati da prove e hanno danneggiato solo l’Ucraina11.
E soprattutto le vittime reali degli abusi, verrebbe da dire. Ma, si sa, lo spettacolo mediatico e il trionfo del verosimile piuttosto che del vero sembrano costituire l’intima essenza del discorso sulla guerra e i diritti umani. In un contesto in cui la propaganda bellica deve assolutamente raggiungere lo scopo di annichilire le coscienze, sotto un profluvio di immagini e parole accuratamente selezionate.
In tale contesto mediatico e propagandistico l’antimilitarismo di classe dovrebbe zittirsi per accordare i propri strumenti con la partitura dominante e piegarsi alla logica “inconfutabile” dei processi spettacolo in cui, come in una farsa ripetuta con successo, a fare le spese delle vendette degli Stati e delle classi al potere, saranno sempre e solo personaggi secondari e miserabili, presentati come “autentici mostri”, come nel caso del caporale russo poco men che ventenne condannato all’ergastolo da un tutt’altro che imparziale tribunale ucraino. Oppure per timore di cadere all’interno delle liste di proscrizione che alcuni giornali e apparati di sicurezza sembrano imbastire quotidianamente in omaggio al vecchio comandamento di epoca bellica e fascista: Taci, il nemico ti ascolta!12.
Invece di denunciare come la sofferenza e il dolore, la morte e lo stupro, la distruzione e il massacro connessi alla macelleria bellica, da qualsiasi parte in causa siano originati, diventino soltanto, in nome dei diritti umani, strumenti di una propaganda per nulla interessata a sradicare davvero ciò da cui tutto questo ha origine, ma soltanto a sostituire il vero con il verosimile.
La realtà di una forma sociale autoritaria, violenta, egoistica e patriarcale fondata sulla trasmissione della proprietà privata, sulla famiglia, idealizzata al di sopra di tutto, e sullo Stato, ma destinata soltanto a legittimare la figura del pater familias e della religione che a sua volta lo legittima in quanto tale. La realtà dello sfruttamento e dell’imbarbarimento rinviabili alla forma sociale capitalistica, in tutti i suoi aspetti, con quella dei diritti risalenti ancora, e soltanto, alle rivoluzioni borghesi. Grandi o piccole che esse siano state. Dietro al cui spirito, presunto, si son sempre mascherate le aspirazioni espansionistiche e di dominio di potenze ormai giunte, piaccia o meno, alla fine del loro corso storico. Di cui, per l’autentico bene della specie, sarebbe auspicabile la caduta non a fronte di una sconfitta nel corso di un conflitto inter-imperialista dalle conseguenze inimmaginabili, ma a causa di uno scontro, non più ulteriormente rinviabile, tra coloro che possiedono quasi tutto e coloro che, uomini e donne, sono stati spossessati di tutto, compresa la loro umanità. Ad Est come a Ovest.
Nessun commento:
Posta un commento