Di quella razza che giudica il passato col senno di poi, ... coi ma e con i se... se Berlinguer non fosse stato quello che è stato, in quel “contesto complicato e difficile”, che grande uomo che sarebbe stato.
La banalità di questo argomentare è tale che non varrebbe nemmeno la pena di interloquire ma, essendomi permesso di commentare en passant l’icona nazional-comunista senza il rispetto che si deve ai “grandi uomini”, ora mi tocca scrivere di lui.
Premetto che i conti col Pci e col suo ultimo segretario (Natta era solo un povero parroco di provincia e Occhetto cercava solo una buona scusa per ritirarsi a godersi anzitempo la pensione) li ho già fatti molti anni fa. In quel decennio rosso che segnò l’imprinting politico di tanti di noi. Non ho nulla da aggiungere a quella lunga esperienza in cui quel partito e quel segretario li ho “vissuti” e conosciuti come nemici.
Ciò che impari nella pratica sociale ben difficilmente lo dimentichi con l’avanzare dell’età.
Berlinguer non fu un grande uomo.
L’impronta di quel periodo la dettero uomini come Moro, l’Antelope Cobbler “eroicamente” morto prima di finire nel tritacarne dei processi mediatici; uomini come Cossiga, convinto sostenitore di una democrazia forte che rivendicava l’uso della provocazione della tortura e dell’assassinio politico; uomini come Andreotti, oscuro garante dell’inconfessabile intreccio di poteri fra imperialisti, chiesa e mafia.
Esponenti del potere borghese a tutto tondo che hanno fatto la storia politica di questo paese. E che hanno affrontato, uscendone vincitori, la prima vera crisi della democrazia italiana dopo gli anni confusi del secondo dopoguerra.
Di fronte a loro Berlinguer era un gregario. Stretto nella morsa fra un movimento di contestazione antagonista che non si farà scrupolo di cacciare il capo del “suo” sindacato dall’Università e dalle piazze al grido di “via, via la nuova polizia” e le cambiali firmate dal suo partito, in quarant’anni di storia, sul terreno del contegnoso rispetto delle regole democratiche.
Grande, nella narrazione popolare, fu la morte del riformista Allende. Mitra in mano contro i golpisti. Una morte che non lo scagiona certamente delle scelte opportuniste effettuate per una intera vita, lui che quel mitra lo negò fino all’ultimo a chi poteva fermare l’avanzata fascista. Ma che rappresenta la giusta nemesi di chi ha combattuto una vita contro la “violenza rivoluzionaria” ed è costretto a usare quella stessa violenza per salvarsi la vita.
La morte di Berlinguer, da buon padre di famiglia stroncato dalla fatica durante un rito elettorale a cui non credeva nemmeno più, seppure nell’immaginario collettivo ha assunto una valenza eroica, al contrario, ci ripropone tutta la mediocrità del personaggio, sopraffatto dagli avvenimenti e dalla stanchezza nel vano tentativo di ricercare una via di uscita dal cul de sac in cui il suo partito era finito.
Del resto è stata proprio quella morte a far stendere il velo pietoso della compassione sulla sua esperienza politica e sulle sue teorizzazioni evitandogli la fine di un Napolitano. Evitandogli di veder nascere, e affondare nella melma, la creatura da lui stesso immaginata. Quel partito frutto del compromesso fra i nipotini di Andreotti e i suoi mal nati discepoli.
Togliatti era un grande uomo. Rileggetevi i suoi scritti sulla via italiana al socialismo. Era opportunismo. Certo. Ma opportunismo combattente contro gli ultimi residui di una diffusa coscienza rivoluzionaria che aveva trovato nuovo slancio nella guerra partigiana.
Era il riformismo nella sua fase espansiva.
I comunisti salivano sul treno della democrazia decidendone le fermate e le stazioni intermedie da raggiungere.
Il voto e la piazza.
Era il riformismo che riempiva il suo carniere di significative conquiste e che si candidava a dirigere il paese.
Nella visione togliattiana la “possibilità” di una via pacifica al socialismo era strettamente legata all’esistenza di un forte “campo socialista” in espansione. Nella pratica quel campo garantiva la democratica presenza dei comunismi nazionali e, nello stesso tempo, era garantito dalla certezza che nessun elemento di disturbo mettesse in crisi la coesistenza pacifica fra i blocchi. L’equilibrio era precario ma resse per parecchio. Il crollo di quel campo decretò la fine del riformismo nato e cresciuto alla sua ombra.
Il gradualismo, le conquiste parziali, la convinzione che “il treno” si muoveva e che oggi sarebbe stato migliore di ieri e che domani le cose sarebbero cambiate era il collante che teneva assieme l’elettorato del Pci.
Si poteva rimandare a un futuro sempre più lontano il raggiungimento di “un altro mondo possibile”. Ma non si potevano negare alle masse quelle piccole conquiste, spesso solo apparenti, che le facevano sentire protagoniste.
La storia del Pci, nato come sezione dell’Internazionale Comunista per dirigere la rivoluzione in Italia e finito ingloriosamente a sfornare buoni amministratori nei condomini della periferia, è tutta lì. Il Pci è morto. Fallito. Ha chiuso le sue sezioni. Smobilitato i suoi militanti. E quando un partito muore non serve scomodare astoriche categorie, il tradimento, gli errori.
Muore perché non ha più nulla da dire. Perché non ha motivo di esistere. Perché la sua strategia è avulsa dalle condizioni reali e dalla coscienza delle classi o dei ceti che immagina di rappresentare.
Fallito non perché non abbia potuto mantenere le promesse di un fantomatico socialismo i cui caratteri e le cui caratteristiche avrebbero fatto storcere il naso a chi il socialismo lo ha fondato.
È fallito perché non è riuscito a ottenere nemmeno quei piccoli miglioramenti, quelle conquiste, che erano il suo fiore all’occhiello.
Il riformismo è morto perché le riforme non sono più possibili.
Il treno della democrazia conduce a una sola fermata, quella della totale sottomissione del lavoro.
Un mese dopo il colpo di stato in Cile, mentre nella sua ingenua e generosa spontaneità il movimento raccoglieva soldi davanti ai cancelli delle fabbriche per mandare armi ai resistenti cileni, il dirigente riformista Berlinguer scriveva quello che è poi diventato la base teorica della politica del compromesso storico.
Il passo è lungo ma vale la pena di leggerlo tutto. Con l’accortezza di rammentarsi che, per la socialdemocrazia classica, riforme e democrazia vanno di pari passo e la lotta politica è essenzialmente lotta elettorale tesa alla conquista della maggioranza.
“Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare, questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento.Il capo del più influente partito comunista dell’occidente, a quel partito che aveva fatto della battaglia elettorale l’elemento centrale della sua iniziativa politica, dice una cosa molto semplice.
Ecco perché noi parliamo non di una ‘alternativa di sinistra’ ma di una ‘alternativa democratica’, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.
La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. [Enrico Berlinguer] (da alcune riflessioni pubblicate su Rinascita, 12 ottobre 1973)
Da soli non andiamo da nessuna parte, i nostri nemici sono troppo forti, troppo potenti. Possiamo solo provare a convincerli a essere più buoni, più disponibili, a comprendere anche le nostre ragioni.
Il “sole dell’avvenire” è un compromesso, un accordo, un antistorico accordo fra il capitale e il lavoro.
Trattiamo le condizioni della nostra schiavitù. Più di questo non ci è concesso.
Quando poi sia stato devastante quel ragionamento, i militanti di quel partito se ne accorgeranno dopo anni e sulla loro pelle.
Il riformismo è un’arma spuntata. Il treno della democrazia non va da nessuna parte, anzi rischia pericolosamente di tornare indietro al punto di partenza.
Il piccolo borghese pauroso e titubante, che prendeva il caffè in segreto col criminale Almirante per trattare assieme la lista dei “sovversivi” da segnalare alle questure, di fronte ai primo sentori di crisi che comporteranno il massacro sociale, non indica la via della lotta sia pure dentro gli steccati imposti dalla costituzione democratica e dagli interessi del capitale, ma quella della resa.
Arrendersi in tempo per spuntare condizioni più vantaggiose.
Berlinguer capì, prima di altri che i giochi erano finiti. Che quel suo partito non avrebbe retto più di tanto. Che era diventato ormai inutile e che una nuova stagione di scontro per la vita e per la morte si apriva.
E di fronte alla lotta di classe che ritornava prepotente a prendere il posto di una conciliazione di interessi non più possibile proclamò la consegna delle armi.
Proclamò la fine di ogni ipotesi socialista, la fine di ogni possibilità di riscatto delle classi oppresse.
A quei comunisti che continuavano ad agitare le loro rosse bandiere disse semplicemente: “È finita compagni!”
Non ci sono terze vie verso una prospettiva socialista, qualsiasi siano i contenuti che vogliamo dare al termine socialista. Non c’è possibilità di una emancipazione della classe operaia, non c’è possibilità di liberare il lavoro dal giogo del capitale.
Ma il riformista nato nell’epoca della morte di ogni riformismo possibile, va oltre nella sua foga di farsi perdonare un passato di cui è suo malgrado custode. Rinuncia perfino al fiore all’occhiello di ogni riformista che si rispetti.
Proclama l’uguaglianza nell’austerità, fra chi dovrà rinunciare alla vacanze di fine anno e chi dovrà stringere la cinghia.
I sacrifici fatti per scelta come pegno della disponibilità a continuare a portare sulle proprie spalle tutto il peso della società. L’austerità in cambio dell’onestà dei governanti.
Più o meno la ricetta che anni dopo sarà praticata dall’eurocrate al servizio dei mercati Monti.
Austerità, sacrifici, rinunce.
Qui siamo oltre il riformismo che con Berlinguer muore esalando l’ultimo respiro. Lui ne è il becchino e il liquidatore. Si chiude un ciclo. Dopo di lui i tentativi di ricostruire una presenza riformista in Italia sono destinati a essere subissati dalle pernacchie.
Che un tale tristo profeta della schiavitù materiale e ideologica delle classi sfruttate, sia potuto assurgere al rango di dirigente (e pure grande) del movimento operaio è qualcosa di cui bisogna chiedere agli esperti di psicologia delle masse.
Sul piano politico la sua strategia fu devastante per il suo stesso partito decretandone la fine. E una strategia già passata al vaglio della storia si giudica dai risultati che ha prodotto.
Ciò che passava nella testa delle masse sfruttate non sempre coincideva con ciò che teorizzano e praticavano i loro dirigenti.
E il Pci, per chi lo votava, era il cambiamento, il sogno di un illimitato e pacifico sviluppo delle forze popolari alla conquista di un altro mondo possibile. Non era certo l’accordo coi notabili di quella DC che da sempre aveva rappresentato il male assoluto.
Quel sogno Berlinguer lo infranse rivelandone tutta la debolezza e l’illusorietà diventando il becchino di un partito che aveva concluso il suo ciclo di vita.
Onesto ragioniere di una bancarotta. Ma la sua onestà è la stessa del liquidatore che decreta il fallimento dell’azienda di famiglia e cerca di salvare il salvabile del patrimonio comune.
Non ci riuscì.
Non era un comunista fallito. Era un riformista fallito. E questo il suo elettorato non glielo perdonò.
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