La narrazione della guerra è ormai polarizzata su due opposte retoriche. Putin e i suoi giustificano l’aggressione all’Ucraina con l’urgenza di denazificare il paese e salvaguardare il diritto di autodeterminazione delle popolazioni filo-russe. Il governo USA e gli alleati NATO, invece, sostengono sia doveroso partecipare più o meno direttamente alle operazioni belliche per tutelare la sovranità di un paese libero e democratico aggredito. Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari.
Che in un tale bagno di idealismo affondino i rozzi propagandisti che vanno per la maggiore non suscita meraviglia. Più sorprendente è il fatto che nel medesimo stagno si siano calati anche studiosi interpellati dai media: filosofi, storici, esperti di geopolitica e di relazioni internazionali, economisti mainstream. La ragione di fondo, a ben guardare, è di ordine epistemologico. I più sembrano infatti accontentarsi di una metodologia di tipo aneddotico. Ossia, una serie di fatti giustapposti, una concezione della storia come fosse banalmente costituita dalle decisioni individuali dei suoi protagonisti, una sopravvalutazione delle spiegazioni ufficiali di quelle decisioni. E sopra ogni cosa, una espressa rinuncia: mai pretendere di ricercare “leggi di tendenza” alla base dei conflitti militari. Da Allison Graham a Etienne Balibar, nessuno osa oggi parlare delle “tendenze” su cui invece indagavano i loro grandi ispiratori, da Tucidide ad Althusser. [1]
La conseguenza di questo involuto metodo di analisi è che nel dibattito prevalente si avverte la pressoché totale assenza di indagini dedicate agli interessi materiali sottesi ai movimenti di truppe e cannoni. Manca cioè un esame delle tendenze strutturali che alimentano i venti di guerra di questo tempo.
Colmare questa lacuna è un’impresa colossale, che richiederebbe un enorme sforzo collettivo. Qui proverò solo a dare un contributo preliminare. A tale scopo, riprenderò un celebre esperimento tipico dei cosiddetti “giochi di guerra”, per rielaborarlo alla luce di quella che definisco una nuova teoria della “centralizzazione imperialista”. John Nash e Karl Marx uniti nella comprensione dei fatti, potremmo dire.
Ai fini dell’esperimento adottiamo alcune semplificazioni, che in seguito potranno esser tranquillamente rimosse ma che ora possono aiutare il lettore a cogliere più agevolmente il nocciolo del problema. Immaginiamo di tornare indietro nel tempo, alla vigilia della guerra in Ucraina. [2] Esaminiamo le possibili strategie di due soli protagonisti chiave del conflitto, la Russia da un lato e i paesi NATO dall’altro. Gli attori in gioco hanno due opzioni: la pace oppure la guerra. Ipotizziamo che tali opzioni vengano decise in base a una variabile cruciale del capitalismo contemporaneo: le quote di controllo del capitale [3], in particolare le stime sulle variazioni di tali quote che potrebbero scaturire dalle conseguenze del conflitto militare e dall’annessione dell’Ucraina nella sfera di influenza economica propria o del nemico. Un caso chiave è descritto dalla seguente tabella, dove in ciascuna casella i numeri di sinistra e di destra corrispondono rispettivamente alla variazione attesa del controllo del capitale della Russia e dei paesi NATO a seconda della scelta delle parti di restare in pace o di entrare in guerra. I numeri inseriti sono indicativi, ma come vedremo gli esiti dell’esperimento sono esattamente gli stessi in un insieme molto più ampio e plausibile di circostanze.
Un “equilibrio di guerra” basato sulle variazioni attese del controllo del capitale. I valori di sinistra e di destra in ciascuna casella si riferiscono rispettivamente alla Russia e alla NATO.
Il lettore può verificare un fatto piuttosto increscioso. In questo tipo di situazione la guerra è la strategia “dominante”, nel senso che entrambe le parti sono indotte a confliggere. Il motivo è che la guerra è l’opzione che determina il risultato migliore, quale che sia la strategia decisa dal nemico. Nello specifico, se prevede che la NATO opti per la guerra, la Russia preferirà fare anch’essa la guerra per ottenere -5 anziché –10. Ma pure se assume che la NATO scelga la pace, alla Russia converrà optare per la guerra che assicura un risultato di +3 piuttosto che 0. Lo scenario è identico, si badi bene, se ci si pone dal punto di vista della NATO.
Sulla base di una ferrea razionalità capitalistica, dunque, entrambe le parti sono portate a scegliere la guerra. La conseguenza di questa scelta, tuttavia, è paradossale: le parti andranno infatti a situarsi nella casella in basso a destra, che determina un esito peggiore rispetto al caso in cui avessero optato entrambe per la pace situandosi nella casella in alto a sinistra.
Perché allora non scelgono la pace? Un motivo cruciale è che l’equilibrio di pace in alto a sinistra è precario. Basti notare, partendo dall’equilibrio di pace, che ciascun attore può essere attratto dalla possibilità di ottenere un risultato migliore spostandosi verso la guerra, e sa bene che lo stesso vale per il nemico. Questo significa che per scatenare il conflitto non è indispensabile la volontà originaria di aprire il fuoco. È sufficiente anche solo il timore che la controparte sia tentata dalla guerra.
L’esito finale è sconcertante: sebbene causi danni a tutti, la tendenza verso la guerra è inesorabile. Come in una nemesi di Goya, non è il sonno della ragione che genera mostri ma è la stessa ragione capitalistica che genera i mostri della guerra.
Il lettore potrebbe sospettare che un tale angoscioso risultato dipenda dalla banalità dell’esercizio didattico proposto e dai particolari valori inseriti in tabella. Purtroppo non è così. Il problema della tendenza verso la guerra si ripresenta anche in modelli di analisi molto più realistici, caratterizzati da attori multipli, obiettivi pluridimensionali, probabilità statistiche, sequenze temporali, ripetizioni, e così via. Quanto ai valori inseriti, non sono certo gli unici che conducono al conflitto. La tendenza verso la guerra si impone sotto una combinazione di dati iniziali molto ampia, corrispondente a tutte le circostanze in cui i risultati delle seconde righe e colonne siano potenzialmente superiori a quelli delle prime righe e colonne. [4]
Ebbene, vi è motivo di ritenere che negli ultimi anni sia avvenuto esattamente questo: si è formata una combinazione di dati che ha innescato una generale tendenza verso l’equilibrio di guerra, di cui il conflitto in Ucraina rischia di rappresentare solo un episodio preliminare.
Molte sono le cause di questo terribile mutamento di scenario, ma sono tutte essenzialmente legate al problema del controllo del capitale. Il punto da cui occorre partire è che la competizione capitalistica mondiale genera continuamente vincitori e vinti, con i primi che a lungo andare diventano creditori dei secondi e tendono poi a liquidarli o a fagocitarli. È la cosiddetta tendenza verso la “centralizzazione del capitale” in sempre meno mani, che col tempo sposta il controllo del capitale dei debitori liquidati verso i creditori che li acquisiscono. [5]
Un problema chiave di questa fase storica è che gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati si illudevano di poter dominare la centralizzazione capitalistica e hanno invece scoperto di esserne soggiogati. Questi paesi stanno infatti subendo gli effetti di uno storico declino di competitività, che si traduce in una posizione di pesante debito verso l’estero e che li colloca nell’immane gorgo della centralizzazione capitalistica nel ruolo di potenziali sconfitti.
Questi grandi debitori occidentali hanno cercato per lungo tempo di restare a galla nel grande gorgo globale adottando una strategia di doppio espansionismo, del debito e dell’influenza militare nel mondo. In pratica, i debiti esteri finanziavano le milizie all’estero che a loro volta dovevano creare nuovi accaparramenti proprietari capaci di mitigare i debiti stessi. Le campagne di guerra in Iraq, tese anche a migliorare la bilancia energetica USA, sono solo l’esempio più elementare di questo complesso circuito militar-monetario.
Come già avvenuto all’inizio del secolo scorso per l’impero britannico, tuttavia, questa forma di imperialismo dei debitori ha incontrato ostacoli crescenti, fino a raggiungere una crisi di risultati e un limite massimo di espansione, comprovato anche da varie ritirate, dall’Afghanistan e non solo. Ecco perché, da qualche anno, la linea di condotta è cambiata. Oggi, gli USA e gli altri debitori occidentali non tentano più di governare la tendenza globale alla centralizzazione del capitale, ma mirano direttamente a bloccarla. Basti pensare alle cosiddette operazioni di “friend shoring”, una figura retorica sdoganata nelle alte sfere da Janet Yellen e altri, per indicare la nuova politica di protezionismo finanziario che l’occidente sta attuando nei confronti dei capitali provenienti dal resto del mondo. Una sofisticata politica trumpiana senza alcun bisogno di Trump.
Questa svolta protezionista, evidentemente, non è apprezzata dai grandi paesi creditori verso l’estero, in primis la Cina e guarda caso in misura minore anche la Russia, che a causa del “friend shoring” stanno incontrando crescenti ostacoli all’esportazione dei loro capitali in occidente. Ostacoli, si badi bene, sorti ben prima della guerra e delle famigerate “sanzioni”.
Proprio da queste difficoltà di esportazione dei capitali nasce la tentazione dei grandi creditori orientali di dare nuovi sbocchi ai loro flussi finanziari attraverso la forza, a mezzo di interventi militari. Ossia, sorgono i primi cenni di un imperialismo emergente da parte dei creditori orientali, incoraggiati anche dai limiti di espansione dell’imperialismo militare del grande debitore americano. Giungiamo così al cospetto di due forme, una conseguente all’altra, di quella che io definisco la nuova fase di “centralizzazione imperialista” del capitale. Non più decisa solo dalla competizione sui mercati, ma anche e soprattutto dagli scontri militari.
In sintesi, potremmo affermare che la svolta imperialista dei creditori russi – che non a caso gode delle simpatie dei creditori cinesi – ha trovato un suo cruciale fattore d’innesco nella crisi dell’imperialismo dei debitori, americani e occidentali, e nella conseguente svolta di questi verso il protezionismo finanziario.
È questa l’inedita combinazione di dati che sta alimentando una tendenza generale verso l’equilibrio di guerra, e che rischia di esondare ben al di là dei confini ucraini. La vera posta in gioco, infatti, è enormemente più grande: la sopravvivenza o la cancellazione delle regole del circuito militar-monetario internazionale, fino ad oggi continuamente scritte e riscritte a piacimento dai soli Stati Uniti e dai loro alleati, e subite da tutti gli altri.
Se si accetta questo schema interpretativo, emergono implicazioni sconvolgenti rispetto alle consuetudini della vulgata. Contro le fantasie dei pasdaran delle rispettive fazioni, secondo cui l’imperialismo sarebbe solo quello del nemico, gli imperialismi reali qui sono due, logicamente consequenziali: quello dei debitori in declino e quello dei creditori in ascesa, e sono destinati a scontrarsi come gigantesche zolle tettoniche in movimento. Mentre il capitalismo europeo, che pure ambisce a un proprio imperialismo unitario, di fatto resterà ancora a lungo sfracellato, anche a causa di un’identità finanziaria contraddittoria: all’estero né troppo creditore né troppo debitore, mentre all’interno affetto da un enorme sbilanciamento tra posizioni nette attive e passive.
In questo intreccio sempre più fitto di lotta economica e militare tra capitali, chi si affanna a parteggiare per gli uni o per gli altri esercita solo una perniciosa forma di “codismo”. Piuttosto, sarebbe il caso di focalizzare che nell’economia di guerra prossima ventura la classe lavoratrice di tutti i paesi coinvolti sarà inevitabilmente sottoposta a più intensi tassi di sfruttamento, tra ulteriori rischi di declino dei salari reali e delle quote salari, accentuata precarietà, nuove militarizzazioni dei luoghi di lavoro. Un destino da carne industriale e da cannone, a meno di ricostruire un autonomo punto di vista del lavoro nella contesa tra nazioni e tra classi: un “pacifismo conflittualista”, all’altezza dei durissimi tempi a venire.
Di questo e di altro si dovrebbe iniziare a discutere. Ma dall’analisi dei fatti c’è già una lezione preliminare da trarre. Nella sua essenza, il moderno conflitto militare è pura “guerra capitalista”, che scoppia a causa non di sacri diritti negati ma di profani contratti mancati. Molto più dello sfregio di una libertà violata, è l’onta di un affare perduto che oggi più che mai muove le truppe e i cannoni. [6]
Essere concreti costruttori di pace significa allora, in primo luogo, abbandonare le ingannevoli scorciatoie dell’idealismo e disvelare le potenti forze materiali che agitano i nuovi venti della guerra capitalista. Non lo si sta facendo, quasi per nulla. E il tempo stringe.
Note
[1] Per un approfondimento in tema di “leggi di tendenza”, si veda: Emiliano Brancaccio, Fabiana De Cristofaro (2022), In Praise of ‘general laws’ of Capitalism: Notes from a Debate with Daron Acemoglu. Review of Political Economy, first published online: 2 March. Trad. it. in Emiliano Brancaccio, Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico, Piemme, Milano, 2022.
[2] Anche ben prima della vigilia: cfr. “La guerra per procura”, intervista a Emiliano Brancaccio e Giulio Tremonti, RAI Radio Uno, 21 marzo 2022.
[3] Per una misura delle quote di controllo del capitale paese per paese in termini di “network control”, cfr. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Milena Lopreite, Michelangelo Puliga (2022), Convergence in solvency and capital centralization: a B-VAR analysis for High-Income and Euro area countries, Metroeconomica, forthcoming.
[4] Su potenzialità e limiti della teoria dei “giochi di guerra” e sui possibili legami con le analisi strutturali del capitalismo, si rinvia a: Emiliano Brancaccio con Giacomo Bracci, Il discorso del potere, Il Saggiatore, Milano 2019 (in particolare i paragrafi dedicati a Schelling e Aumann).
[5] Sulla teoria e sulle evidenze empiriche della centralizzazione del capitale, si veda: Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Milena Lopreite, Michelangelo Puliga (2018), Centralization of capital and financial crisis: a global network analysis of corporate control, Structural Change and Economic Dynamics, Volume 45, June, Pages 94-104; Emiliano Brancaccio, Giuseppe Fontana (2016), ‘Solvency rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge Journal of Economics, 40 (4). Cfr anche: Emiliano Brancaccio, Marco Veronese Passarella (2022), Catastrophe or Revolution, Rethinking Marxism, first published online: 7 February.
[6] Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis (di prossima pubblicazione).
Fonte
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