“La band più sopravvalutata di tutti i tempi”. Così recitava un commento al post Facebook che lanciava l’ultimo disco del mese di OndaRock, “Skinty Fia”, degli irlandesi Fontaines D.C. Mi ha stupito. Oggetto della critica è una formazione che al terzo album ha faticosamente raggiunto il primo posto (in Irlanda e Gran Bretagna), che ha mancato precedentemente il Grammy e il Mercury Prize, e che a oggi conta per il suo disco di maggior successo meno streaming degli ultimi ellepì di Liberato (in napoletano) e Harry Styles (uscito pochi giorni fa). Che un progetto con questi fondamentali sia inserito in cima a un’ipotetica lista degli artisti più sopravvalutati di sempre appare - questa sì - una notevole sopravvalutazione!
In
seguito, mi è capitato di tornare a interrogarmi sulla frase. Ma
“sopravvalutati” da chi? Non si tratta di un’espressione che possa
essere utilizzata prescindendo da una qualche comunità valutatrice.
Quale sarebbe, in questo caso? Le ipotesi possibili non sono molte:
dopotutto, per buona parte degli appassionati di musica, gli irlandesi
in questione sono giusto un nome che fa una comparsata di una settimana
in cima alla classifica britannica, per poi risprofondare nei bassifondi
della top 100. A meno che uno sia immerso nella “bolla informativa”
costituita da testate, ascoltatori e rispettivi profili social che
prestano molta attenzione all’orizzonte indie/alternative — l’unico in cui effettivamente i Fontaines D.C. godano, insieme peraltro a tutto il filone post-post-punk, di un’esposizione impareggiata.
La
questione ora è più circostanziata: “È vero che l’ambito
indie/alternative sopravvaluta i Fontaines D.C.?”. Prima di affrontarla,
conviene occuparsi di un tema attiguo: perché, a questa fascia di
pubblico, piacciono tanto? Per scoprirlo, ho provato a basarmi sulle
impressioni degli amanti: i tanti fan presenti sulla pagina Facebook
della nostra webzine, ma anche gli autori delle recensioni positive
presenti in rete, nonché dei commenti su piattaforme come RateYourMusic.
Dalla ricerca di peculiarità e fili comuni è emerso un quadro più
chiaro del perché (bravura a parte - perché di artisti bravissimi è
pieno il mondo) ci sia nel contesto indie tanta frenesia attorno a questo nome e alla scena di cui è capofila.
I Fontaines D.C. piacciono da matti a chi si riconosce musicalmente nei filoni indie/alternative perché rispecchiano al massimo grado i valori centrali per quella comunità. Su quali siano questi valori e in che modo i Fontaines D.C. li esprimano, tornerò fra pochissimo. Anticipo però la conclusione. Sopravvalutati? Decisamente no. Ci sarebbe, anzi, da parlare di sottovalutazione, se una band con caratteristiche simili non fosse idolatrata dal pubblico alternativo di oggi. Certo, ascoltatori meno strettamente legati a quel mondo facilmente troveranno poco attraente la loro musica. Implausibile, dunque, che possa trattarsi di una band che, come qualcuno vorrebbe, “salverà il rock”. Sono pochi, tuttavia, a sostenere una simile linea. Un aspetto curioso che emerge chiaramente dal confronto condotto, anzi, è proprio la frequente percezione che anche per chi più li ama i Fontaines D.C. non rappresentino, dal punto di vista sonoro, alcunché di nuovo o rivoluzionario. Ma è bene procedere con ordine.
Un bignami alternative per l'era post-Brexit
L’estetica
“indipendente” si è definita nel corso degli anni Ottanta, per poi
diffondersi notevolmente negli anni Novanta con l’esplosione anche a
livello mainstream del filone alternative. Anche
quando il boom commerciale si è esaurito, nei primi anni Duemila, la
grande accessibilità portata da Internet all’ascolto e all’informazione
musicali ha consentito a una vasta platea di amanti di attrarre nuovi
adepti e continuare a evolversi. Come tutte le prospettive identitarie,
anche quella indie/alternative, è fondata su alcuni cardini: fra questi, oltre al ben noto culto del Do-It-Yourself (D.I.Y.),
l’importanza dell’espressione al di sopra della perizia tecnica, la
spontaneità dell’artista, il rifiuto dei cliché ottimistici e dei
condizionamenti, la valorizzazione di debolezze e imperfezioni, il
disagio rispetto alla società - e in particolare ai suoi meccanismi
economici e politici dominanti. Riscontrabili, uno qua e uno là, in gran
parte delle musiche apprezzate in campo indipendente negli ultimi anni,
questi elementi sono molto vistosi nella proposta di quel post-post-punk di cui i Fontaines D.C. sono oggi gli esponenti più acclamati.
Alla domanda “Che cosa vi piace della musica dei Fontaines D.C.?” i follower di
OndaRock rispondono in vario modo, evidenziando però alcuni temi
ricorrenti. Uno, particolarmente rappresentato, chiama in causa un
trittico di sostantivi: sincerità, onestà, spontaneità.
Nelle canzoni di “Skinty Fia” e dei precedenti album è percepita una
trasparenza completa dell’artista, un mettere a nudo i propri pensieri e
le proprie sensazioni. Non è un’impressione soltanto di chi segue
questo sito: su Pitchfork,
Stuart Berman rimarca fin dalla didascalia introduttiva come “Skinty
Fia” sia un disco “a cuore aperto”, e lo descrive come “un equilibrio
perfetto di durezza e tenerezza”. L’impressione di visceralità legata a
questo mix è amplificata anche dall’asprezza del sound
chitarristico, e diversi commentatori riconducono il loro apprezzamento
alla “foga” trasmessa dai pezzi e alla sensazione che la band viva la
comunicazione musicale come un’assoluta necessità (qualche follower scomoda
a riguardo una delle espressioni più in voga presso la critica
indipendente a inizio anni Duemila: “urgenza espressiva”).
Amplifica l’effetto la particolare vocalità del cantante Grian Chatten, descritta dalla stampa specializzata come Sprachgesang e notata dai fan consultati soprattutto per il suo registro baritonale e la vicinanza ai modelli di Ian Curtis e Mark E. Smith.
Questo ibrido fra declamazione e canto ha un indubbio carattere
monotono (ben combinato alle atmosfere cupe di diversi pezzi), ma si
presta anche a evoluzioni inattese: come scrive Sophie Williams per Nme,
l’approccio alla melodia è “cupo e metodico”, ma “nelle uscite
precedenti, Chatten pronunciava le sue parole senza riprender fiato,
come se i suoi pensieri stessero arrivando urgenti e veloci. L’ossessivo
lead single ‘Jackie Down The Line’, invece, lo vede in pieno controllo nel proporre un gran ritornello pop, subito prima di spedire col bridge
la sua voce in un gorgo di eco”. Ed è ancora Pitchfork a notare come
gli “inni da mascalzone” di Chatten, “carichi di disprezzo per se
stesso”, siano in realtà pronti a riciclarsi come “grida perfette per
Wembley” (“Wembley-ready wails”). Sensazione di autenticità, tormento e
ruvidezza dunque - tutti elementi che senz’altro risuonano coi
sentimenti del pubblico indie. Ma anche capacità di offrire lo slancio giusto per cori da stadio che incendino l’entusiasmo dei fan.
Posta al centro della recensione
di Claudio Lancia per OndaRock, ma meno frequentemente evidenziata da
webzine e appassionati italiani, è la relazione coi testi, che invece
svolge una parte preponderante nelle disamine anglosassoni (arrivando,
in più di un caso, a eclissare le considerazioni musicali). Qualche follower considera i toni poetici uno dei principali elementi di fascino, e Steven Loftin della webzine britannica Line Of Best Fit
identifica il punto di forza della conclusiva “Nabokov” in “un uragano
avvolgente e totalizzante di rumore e lirismo”. Molta critica osserva
come “Skinty Fia” sia un album particolarmente introspettivo. David Chiu
su Newsweek
lo considera “riflessivo ma esplosivo”. Per Nme “In ‘I Love You’,
potente e virulenta, Chatten si mette sotto processo, dissezionando le
sue stesse preoccupazioni prima di indirizzarsi ai giovani
dell’Irlanda”. Il termine “poesia” ricorre con frequenza anche nei
commenti su RateYorMusic, dove spesso ne incontra un altro: politica.
Lo sguardo duplice a Irlanda e Gran Bretagna - terra natale e casa d’elezione - è un tema centrale di “Skinty Fia”. Ed è duplice non solo perché due sono le nazioni, ma anche perché caustico e affezionato al tempo stesso. È ancora Nme a osservare: “il songwriting di Grian Chatten - che in precedenza si era occupato di temi importanti come la disuguaglianza salariale in Irlanda e la disillusione giovanile - ha sempre avuto possibilità più ampie dei suoi contemporanei, e una capacità di spaziare fra il futuro e il passato del suo paese”. E ancora, Claudio Lancia su OndaRock: “L'irlandese che si integra con difficoltà nel tessuto sociale inglese, e non di rado viene tuttora associato alla drammatica faccenda dell'Ira. […] Critiche contro gli inglesi, ma dopo la diaspora è ovvio che le liriche di ‘Skinty Fia’ si abbattano con forza anche sul governo irlandese, reo di non aiutare a sufficienza i propri giovani.” Anche nella percezione dei lettori il rapporto conflittuale con la Irishness è un fattore localistico particolarmente apprezzato: ecco una band di richiamo internazionale che però non rinuncia alle proprie radici, ma anzi ne fa il perno della propria visione artistica.
Libera espressione e relazione critica con la società, in una forma di “poesia impegnata” il cui messaggio è elemento di richiamo, tanto in Irlanda quanto in Gran Bretagna, per più di una generazione di ascoltatori, siano essi indie storici o giovani che si avvicinano alla band (e ad altri iperlocalisti come gli Sleaford Mods) per via dei temi trattati.
Dal culto del nuovo all'usato garantito
La situazione al di qua della Manica è ben descritta dalla recensione di Claudio Lancia: i plateali riferimenti a stili del passato (il post-punk di Joy Division e Fall, ma anche le inclinazioni pop degli Smiths, i ritmi Madchester degli Stone Roses, gli Oasis) creano “un corto circuito generazionale: la maggior parte del loro pubblico non è composto da coetanei, bensì da ultratrentenni che ritrovano in questi suoni quelli delle band alle quali musicalmente i cinque si ispirano”.
Si evidenzia, proprio in relazione al marcato revivalismo delle formule post-post-punk, un’interessante “inversione del giudizio” rispetto all’ondata nu wave degli anni Duemila, che segnala una distanza fra i due fenomeni a livello di ricezione. Al tempo di Interpol, Bloc Party, Strokes, Franz Ferdinand e via dicendo, le frequenti accuse di plagio nei confronti del primo post-punk provenivano soprattutto dagli ascoltatori di lungo corso, che conoscevano band storiche come Gang Of Four, Sound, Television, Chameleons ecc. da prima del nuovo boom. I giovani nuovi a entrambe le scene, al contrario, sfruttavano le formazioni moderne per avvicinarsi a quelle di vent’anni più vecchie, e spesso notavano differenze sostanziali fra le une e le altre. Tratti macroscopici che rendevano (oggi è palese) il sound ipercinetico dei Bloc Party altra cosa rispetto agli spigoli taglienti dei Gang Of Four, dei quali erano tacciati di scimmiottamento. Questa dinamica si ritrova — mutatis mutandis — anche in altre scene revivalistiche: il neoprog ottantiano, ad esempio, fu apprezzato più dai giovani che dai progster del decennio precedente.
Con Fontaines e accoliti, invece, il meccanismo non sembra operare allo stesso modo. In questo caso, sono soprattutto gli amanti consolidati di post-punk, indie e alternative ad appassionarsi alle nuove band, e i chiari richiami al passato non rappresentano più un problema ma sono, anzi, un fattore cruciale per l’apprezzamento. Di tutti gli aspetti citati dai follower di OndaRock, il più ricorrente è infatti - e con ampio distacco - quello della vicinanza ai modelli anni 70-80-90. Non solo: sono proprio gli stessi ammiratori ad affermare che lo stile della band non ha sostanziali elementi di novità, e che tuttavia questo non pregiudica (anzi!) la grandezza da attribuire alla musica prodotta.
Come mai? Probabile che di mezzo ci sia la banale circostanza che una parte dei “giovani” di ieri coincide coi “vecchi” di oggi, e come allora era bendisposta verso i riciclaggi fatti con personalità così lo è adesso. Forse però non è tutto qui. Uno dei valori caratterizzanti dell’indiepensiero anni Duemila sembra essersi dissolto, rimpiazzato da un atteggiamento che assomiglia al suo opposto diametrale. L’innovazione non pare più essere un parametro fondamentale secondo cui il mondo indie/alternative sancisce la validità musicale. La retromania ormai si confonde col paesaggio; l’impressione dominante è che la musica rock abbia esaurito il suo slancio e gli entusiasmi possano nascere, al più, da una riproposizione appassionata degli stili già esplorati.
Ha fatto il suo tempo la ricerca spasmodica del mai sentito, che veniva dalla critica indipendente anni Ottanta/Novanta e si era saldata a inizio Duemila con l’esigenza di scremare le grandi moli di musica a cui il Peer-To-Peer consentiva l’accesso. Oggi l’ascoltatore giunto dalle parti degli -anta, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per la sensazione che la pretesa sia inapplicabile allo scenario attuale, accetta di buon grado la percepita stagnazione - e con essa la dittatura di filtri e aggregatori di webzine, che evidenziano sistematicamente la musica che ha più probabilità di attecchire su un dato pubblico. Realisticamente, che i Fontaines D.C. e gli altri gruppi post-post-punk si limitino a riscaldare la minestra delle formazioni che li hanno preceduti decenni prima è tanto discutibile quanto le equivalenze “Bloc Party = Gang Of Four” o “Marillion = Genesis”.
Ai tempi, tuttavia, questi appiattimenti erano rigettati dagli amanti delle band; oggi, al contrario, sono visti proprio dagli appassionati come prima chiave di lettura della proposta musicale che amano. Emblematico uno dei commenti letti sulla nostra pagina Facebook:
I Fontaines hanno una peculiarità incredibile, sono LA PIÙ GRANDE COVER BAND DI TUTTI I TEMPI. E ribadisco che mi piacciono veramente tanto. Mai mi è capitato di sentire da una band un pezzo che è puro Joy Division, un altro un lentone irlandese à la Pogues, passando per tutte le band più celebri degli ultimi decenni, sempre coniugate nel momento di passaggio tra le sonorità più dure e il passaggio al mainstream. Chicca: La loro canzone che forse più mi piace dell'ultimo disco, Roman Holidays, è IDENTICA come sonorità, eco, riverbero, tono, ritmo, ad almeno due o tre pezzi dei War on Drugs. Tra l’altro spesso accusati di essere a loro volta una cover band…
Ciò che resta del rock?
I
meccanismi sopra discussi non dovrebbero, di per sé, essere etichettati
negativamente. Ben venga se un convergere di fattori determina nella
comunità indie/alternative quella sensazione di “qui e ora” che
è essenziale all’entusiasmo per il contemporaneo, e che tanti sentivano
mancare da un po'. Il potenziale esplosivo era già diffuso presso il
pubblico, ma i Fontaines D.C. sono stati l’innesco. Lo scrive Alexis
Petridis sul Guardian
(“Una band che sembrò un pulsante reset per la moribonda scena
alt-rock”), e ancora più chiaramente la nostra recensione: “I Fontaines
D.C. sono qui, sono ora, stanno lavorando sodo e continuano a crescere.
Li stiamo osservando in diretta, li respiriamo, canzone dopo canzone,
mentre diventano qualcosa di importante. Una sensazione che temevamo di
aver smarrito, per sempre.”
Suonano forzate le letture secondo cui l’intero filone post-post-punk
sarebbe “costruito in laboratorio” perché diverse band della scena sono
supportate da un drappello di produttori avveduti (su tutti Dan Carey,
all’opera con Fontaines, Squid, Wet Leg, black midi). Non basta la volontà di costruire un hype per creare l’hype: serve sempre anche la band giusta al momento giusto, e per il giro indie/alternative i Fontaines D.C. lo sono (in buona compagnia di black midi, Black Country, New Road, Idles e via discorrendo).
Altrettanto
limitanti sono però le prospettive che vedono in questa scena l’unica
fiammella capace di tener vivo il fermento rock. Fenomeni mainstream come i nostrani Måneskin o il ritorno sulla cresta dell’onda del batterista dei Blink-182 Travis Barker, produttore di Avril Lavigne e responsabile della svolta pop-punk del fu rapper Machine Gun Kelly, mostrano come le sonorità chitarrose
stiano proprio in questi anni tornando a esercitare un’attrattiva su
giovani e giovanissimi. Su coordinate lontane da quelle più amate in
ambito indipendente, certo, ma ordini di grandezza più significativi in
termini di riscontri di pubblico. In lidi più affini ai valori
alternativi, un album come il nuovo di Jack White sembra fatto apposta per convincere come il linguaggio rock, opportunamente ibridato, sappia ancora generare sound
riusciti e inattesi. E allargando lo sguardo a nomi, stili e terre meno
al centro dei riflettori algoritmici - che è poi ciò che ogni giorno
provano a fare webzine come questa - il panorama si popola di
altri artisti, di culto presso un pubblico talvolta nient’affatto
ridotto: il britannico (ma assai americaneggiante) Sam Fender, la trita-generi statunitense Poppy, gli austriaci Bilderbuch, i giapponesi Polkadot Stingray, i cinesi Omipotent Youth Society, i messicani Camilo Séptimo, l'israeliano Bar Tzabary...
Ma
guardarsi attorno è senz’altro ciò che chi ci segue è abituato a fare.
Semplicemente, ciascuno lo fa in direzioni differenti, e a livello di
tendenza emergono soprattutto gli ascolti comuni, creando attraverso le echo chamber dei social l’impressione che esista solo ciò che è più discusso. Che il post-post-punk
e i Fontaines D.C. abbiano la capacità di unire come nessun altro in
questo momento gli appassionati di musica indipendente non è una colpa, è
un merito. Sì, il loro apprezzamento è supportato da abbondanti
sentimenti nostalgici, e dal punto di vista sonoro l'intera scena si
situa giusto accanto alla comfort zone del suo pubblico. Ma
d’altra parte il grosso di esso non ha più vent’anni, almeno nell'Europa
continentale, e non cerca più, musicalmente parlando, la rivoluzione ad
ogni costo.
Sta dunque all’ascoltatore curioso (o legittimamente
insoddisfatto) di sondare oltre la propria bolla per incontrare le tante
altre proposte che in questo stesso momento stanno arricchendo il
panorama. Chi in questi anni ha trovato una raison d'être musicale in Fontaines e accoliti ha ogni ragione di eccitarsi. Gli altri guardino altrove, e cerchino di non rosicare troppo.
P.S. Probabilmente fra le righe lo si sarà colto, ma a me che ho scritto l'articolo i Fontaines D.C. e gran parte del filone post-post-punk
dicono davvero poco. L'invito finale è anche autorivolto: la reazione
più spontanea a un entusiasmo di cui non si riesce a essere partecipi è
spesso il rigetto. Avessi messo nero su bianco le mie opinioni qualche
anno o qualche settimana fa, questo articolo sarebbe stato una invettiva
scomposta e di nessun interesse per il lettore. Ho cercato invece di
guardare alla questione da altre angolazioni, e mi è sembrato utile
ricorrere alle impressioni di chi al fenomeno si è appassionato. Non
credo al concetto di "ascoltatore medio" e analoghe brutalizzazioni
della statistica, e per questo ho preferito astrarre e impostare la
riflessione in termini di valori comunitari. Probabilmente l'effetto è
altrettanto distorsivo, ma la speranza è di avere comunque individuato
alcune chiavi di lettura condivisibili. Sia da chi apprezza, sia da chi
continuerà a non farlo.
Nessun commento:
Posta un commento