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05/12/2022

L’unione popolare si costruisce nelle strade

Un fine settimana intenso, come non se ne vedeva da tempo. Venerdì lo sciopero generale proclamato unitariamente da tutto il sindacalismo di base. Sabato la manifestazione nazionale, convocata con le stesse modalità e articolata in modo un po’ differente a seconda delle “sensibilità”.

Domenica l’assemblea “di lavoro” di Unione Popolare, arricchita da quattro tavoli tematici per delineare il profilo politico e programmatico di una possibile rappresentanza politica alternativa.

Eventi collegati, intanto dalla partecipazione di buona parte dei protagonisti di tutti e tre i momenti. Ma certamente non coincidenti. Specie per quanto riguarda il momento “politico”, ovvero Unione Popolare, la cui platea solo in parte – comunque la parte maggioritaria – aveva attraversato le due giornate precedenti.

Le due giornate più specificamente sindacali hanno mostrato segnali chiari di risveglio della conflittualità sociale. Per essere chiari: lo sciopero generale ha raccolto stavolta una partecipazione decisamente superiore a quelli proclamati in altre occasioni dalle stesse sigle, sia separatamente che unitariamente.

Nonostante una “congiura del silenzio” orchestrata da tutto il sistema mediatico – mai come questa volta totalmente impenetrabile alla “notizia” – le astensioni dal lavoro sono state importanti ed in settori produttivi strategici. E non parliamo ovviamente soltanto della logistica o dei trasporti pubblici, in cui le agitazioni provocano tradizionalmente conseguenze avvertibili per tutta la popolazione.

Persino i media di regime, dopo aver silenziato tutto, sono stati spesso costretti a rendicontare i soli “disagi nel traffico”, la chiusura di metropolitane e linee urbane e non, ritardi e mancate consegne. Non una parola sulle ragioni, naturalmente, ma già il dover dare conto di queste “problematicità” ne rivela la portata insolita. Inattesa per i gazzettieri mainstream.

Stesso discorso per la manifestazione di sabato, che ha mostrato una molteplicità di figure sociali unite nel contrastare sia la guerra che l’economia di guerra, ovvero quel “abbassate le armi, alzate i salari” che riconnette il malessere sociale, l’impoverimento salariale, la distruzione dello stato sociale con le cause belliche.

E quindi individua nel governo e nelle alleanze internazionali cui è subordinato, le responsabilità politiche di una condizione invivibile in cui, per “non disturbare le imprese”, si portano milioni di persone nella povertà (sia assoluta che relativa, come si vede da questo grafico).

Vedere insieme, dopo anni, operai metalmeccanici, portuali, braccianti, migranti, facchini, lavoratori pubblici, autisti, studenti medi ed universitari, abitanti/occupanti di case popolari, ecc. insieme, è il segno politico più chiaro di una consapevolezza sociale e politica che va mutando. E che vede, al di là delle differenze specifiche nella manifestazione del malessere, individua nemici comuni. E decide di muoversi per contrastarli.

Non mancano i problemi, non hanno smesso di manifestarsi le antiche divisioni (sabato si sono in pratica visti due cortei in uno), ma si comincia a vedere una strada che porta fuori “la classe e le masse” dall’apatia, dall’immobilismo, dalla rassegnazione. Insomma qualcosa che ha rotto quel sentimento di “malinconia e paura” con cui il rapporto Censis ha descritto la nostra società.

Ma è stata anche una risposta ricompositiva contro le divisioni stimolate ad arte sia da un’organizzazione padronale del lavoro particolarmente “parcellizzante”, sia da un potere politico di infima qualità che ripropone ormai quasi soltanto la “guerra tra poveri” e “contro i poveri”.

Non basta certamente quel che c’è e che si sta facendo. Ma c’è un primo salto di qualità e quantità. C’è materia per lavorare e costruire.

Il lato debole è ancora la “rappresentanza politica”. Anche qui si va costruendo la  soggettività unitaria, ma inevitabilmente la condizione è diversa. Mentre sul piano sociale e sindacale è la “necessità” stessa a determinare la spinta a unificare soggettività diverse e “concorrenti”, sul terreno politico lo sforzo è delegato per intero o quasi alla “soggettività”. E qui, tra molti passi avanti, ancora pesano le vecchie illusioni e i vecchi atteggiamenti che hanno pressoché azzerato la cosiddetta “sinistra radicale”.

Per i tanti che ricordano con orrore “l’Ulivo” – l’alleanza a guida democristiana che portò disastri epocali nella legislazione del lavoro e nella stessa “natura sociale” della cosiddetta “sinistra” (dal “pacchetto Treu” alla “legge 30”, che legalizzavano la totale precarietà del lavoro salariato) – ce ne sono ancora molti che vagheggiano un “bis” mortifero.

La via dell’alternativa – a qualcuno – pare sempre impraticabile perché attualmente minoritaria nella società, difficile nelle prospettive, faticosa e anche rischiosa da costruire, visti i tempi di guerra.

Ma che senso ha “far politica” se non si può e neanche si immagina di poter fare qualcosa di diverso, di cambiare realmente quel mondo mostruoso in cui ci tocca vivere da decenni?

Quel che ha reso “inutile” e “non credibile” la sedicente “sinistra radicale” è proprio il suo essersi arresa alla “mediazione subordinata”, malissimo mascherata da “campo largo”. Negli ultimi venti anni...

Se non servi a cambiare la condizione di vita di milioni di persone, quei milioni di persone si rivolgono altrove. È accaduto, non è una previsione...

È ora di cambiare decisamente strada. Il 2 e il 3 dicembre stanno lì ad indicarla. L’unione delle lotte e dei soggetti sociali avviene nel conflitto, ed è lì che maturano le capacità di trasformare quelle spinte in progetto politico. È da lì, infine, che proverranno le intelligenze per guidare un percorso né facile né breve. Né solo elettorale.

L‘unione popolare si fa nelle strade...

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