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16/12/2012

Il vertice di Doha: qualcuno si ricorda del cambiamento climatico?

Il seguente articolo è stato scritto prima della conclusione del vertice sul cambiamento climatico svoltosi a Doha (Qatar). Come previsto, dalla conferenza non è emerso nulla di significativo (vedi articolo in calce) e quindi il commento rimane attuale (red.)

eldiario.es

Che la lotta contro il cambiamento climatico fosse scesa molto in basso nell’agenda politica mondiale era dimostrato già da tempo. Il disinteresse con cui viene seguito il vertice di Doha, iniziato il 26 novembre e che si concluderà il 7 dicembre, indica che praticamente è caduta dal foglio. Mai una riunione di questo tipo, che è la continuazione dei vertici di Copenhagen del 2009, di Cancún del 2010 e di Durban nel 2011, era stata ignorata così tanto. Particolarmente in Spagna, perché alcuni quotidiani di altri Paesi, anche se non nelle loro pagine principali, un po’ se ne stanno occupando.

Uno dei motivi principali di questa apatia informativa è che nessuno si aspetta che a Doha si faccia qualche passo avanti significativo. Il fatto stesso che il vertice si svolga nella capitale del Paese, il Qatar, che da un decennio detiene il record di emissioni di CO2 per abitante - 40 tonnellate, 3 volte più degli Stati Uniti, 8 volte più della Cina e 22 più dell’India (Le Monde) - non lascia spazio a molte speranze ed è più che altro una beffa. Ma il problema va oltre quello che può dare una riunione. E consiste nel fatto che gli avversari, ideologici e politici, della lotta contro il cambiamento climatico, così come i grandi inquinatori, Paesi e settori economici, hanno trovato nella crisi un alleato perfetto per imporre le loro posizioni.

Oggi sono altre le priorità dei dirigenti politici, particolarmente di quelli europei, che per più di un decennio avevano guidato questo sforzo, apparentemente convinti che fosse imprescindibile, di fronte alle resistenze dei nordamericani. E in una certa misura anche la mobilitazione sociale in questo campo ha perso intensità, perché la disoccupazione e le ansie economiche hanno prevalso su qualsiasi altra sensibilità.

Quel che è certo è che gli specialisti si aspettano molto poco da Doha. “Le conversazioni promettono pochi drammi”, scriveva John M. Brother sul New York Times il giorno della sua inaugurazione. “Gli ultimi tre vertici sono stati un macello, caratterizzato da proposte politiche arrischiate, blocchi e una sensazione che ci dev’essere qualche modo migliore di far fronte alla crescente sfida di un pianeta che si sta consumando a fuoco lento. La riunione di Doha promette di essere molto più noiosa e non è previsto che in essa si concordi niente che permetta di fermare questo processo”.

Il settimanale tedesco Der Spiegel recupera la vecchia tradizione europea di incolpare di questo principalmente gli Stati Uniti: “I commenti che ha fatto il presidente Obama dopo il disastro provocato dall’uragano Sandy hanno fatto sorgere in tutto il mondo speranze che gli Stati Uniti fossero finalmente disponibili ad agire contro il cambiamento climatico. Ma il rifiuto nordamericano di fare concessioni a Doha mostra che la loro posizione è cambiata pochissimo”.

Ma il caso dell’Europa è quasi peggiore. Perché sta facendo marcia indietro. Secondo Le Monde, la Commissione europea ha appena informato che manterrà le sue sovvenzioni per l’acquisto di crediti di emissioni di gas carbonici, smentendo quello che aveva promesso fino a poco prima. “È una nuova sconfitta per la Commissione - dice Le Monde - che il 12 novembre aveva rinunciato a includere le compagnie aeree extra-continentali nel suo sistema di quote”. Gli imprenditori che inquinano stanno vincendo su tutti i fronti. La crisi e la necessità di mantenere l’occupazione sono scuse che servono per tutto.

E comunque gli scienziati continuano a sottolineare gli allarmi. Due di questi, Benjamin Strauss e Robert Kopp, hanno scritto quanto segue sul New York Times: “Temiamo che l’uragano Sandy sia stata solo una modesta anteprima dei pericoli che stanno per arrivare, dal momento che continuiamo ad alimentare la nostra economia globale bruciando combustibili che inquinano l’aria con gas ad effetto serra”.

Lunedì scorso il New York Times riportava un sondaggio secondo cui il 69% dei newyorkesi ritiene che l’uragano Sandy, così come le tormente tropicali Irene e Lee, dell’anno scorso, abbiano a che fare con il cambiamento climatico. La sensibilità verso il dramma è aumentata di colpo. Chiaro che per questo gli sia dovuto cadere addosso il diluvio.

E, per finire, una riflessione molto più ampia, lunedì scorso la faceva anche George Monbiot sul Guardian londinese: “Le più grandi crisi dell’umanità coincidono con l’auge di un’ideologia che rende impossibile affrontarle. Il neoliberismo si propone di liberare il mercato da qualsiasi interferenza politica. Ma quello che si chiama "il mercato" sono gli interessi delle grandi corporations e dei super-ricchi. Il neoliberismo è poco più che la giustificazione della plutocrazia. Evitare il collasso climatico - i 4, 5 o 6 gradi di riscaldamento pronosticati per questo secolo da estremisti verdi come la Banca Mondiale, l’Agenzia Internazionale dell’Energia o Price Waterhouse Coopers - significa mettersi contro le industrie del petrolio, del gas e del carbone. Significa cancellare le prospezioni e lo sviluppo di nuove riserve, così come invertire lo sviluppo  di qualsiasi infrastruttura (come gli aeroporti) che non potranno funzionare in mancanza di esse”.

“Ma gli Stati non possono agire”, conclude Monbiot. “Possono solo sedersi in mezzo alla strada e aspettare che il camion li investa. Tutto questo evidenza il più grande e più vasto fallimento del fondamentalismo di mercato: quello di essere incapace di affrontare la nostra crisi esistenziale. La lotta contro il cambiamento climatico non potrà vincere senza una lotta politica molto più ampia: una mobilitazione democratica contro la plutocrazia”.


Traduzione per Senzasoste a cura di Andrea Grillo, 12/12/2012

Vertice ONU: il bicchiere mezzo vuoto di Doha

Altri otto anni di validità, a partire dal 2013, per il Protocollo di Kyoto, ma a impegnarsi sono solo Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia. Clini: “la comunità internazionale ha fatto un passo indietro”

Doha come Durban, come Cancun, Copenaghen e Bali. Il vertice Onu sui cambiamenti climatici lascia ancora una volta l’amaro in bocca.  Le due settimane di negoziati internazionali si sono chiusi ieri sera in un clima vivo di polemiche e in un Qatar, il Paese ospite, aspramente criticato per la debole leadership e per aver lasciato che le trattative andassero alla deriva.

Nelle intenzioni, questa 18sima Conferenza delle Parti dell’Unfccc doveva costituire la cerniera virtuale tra il protocollo di Kyoto in scadenza a fine anno e il nuovo trattato mondiale vincolante del 2015. A conti fatti si tratta ancora di interpretare i risultati e decidere se il bicchiere che si sta guardando è mezzo pieno o mezzo vuoto.

RISULTATI SENZA ENTUSIASMI Dopo due settimane di lavori, il Doha climate gateway, il documento finale appare decisamente debole. L’accordo è arrivato con un giorno di ritardo fiaccato dalla strenua difesa di posizioni inconciliabili. Un esempio su tutti, l’insistenza di Russia, Ucraina e Bielorussia per ottenere credi di carbonio extra all’interno del mercato delle emissioni, pena – e così è stato per Mosca – la mancata ratifica del Kyoto bis. Al vertice di Doha va però il merito d’aver stabilito, per la prima volta, che le nazioni ricche debbano assumersi l’onere economico dei danni climatici subiti dalle nazioni povere, ma solo dopo aver avuto la “prudenza” di rinviare la decisione sul pacchetto di aiuti ai Paesi in via di sviluppo.
"Il bicchiere di Doha è per tre quarti vuoto e per un quarto pieno”, ha commentato il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. “Invece di fare un passo avanti, la comunità internazionale ha fatto un passo indietro perché non si è riusciti a trovare un accordo in grado di dare concretezza e continuità di impegni presi con il Protocollo di Kyoto”.

MODIFICA AL PROTOCOLLO DI KYOTO I 200 paesi partecipanti hanno lanciato a partire dal 1° gennaio 2013 un nuovo periodo di impegno ai sensi del protocollo di Kyoto che, a conti fatti, sarà l’unico impegno climatico attivo in attesa che nel 2020 entri in vigore il nuovo accordo vincolante sulle emissioni. Peccato che a prendersi l’impegno con un Kyoto-bis saranno unicamente Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia, responsabili insieme solo del 15-20 per cento delle emissioni di gas serra. Alla defezione di USA (assente anche da Kyoto 1), Nuova Zelanda, Giappone e Canada si è aggiunta anche quella della Russia sfilatasi dall’accordo all’ultimo minuto per paura danneggiare il proprio mercato energetico. I governi hanno deciso, inoltre, che la durata del secondo periodo sarà di 8 anni, accettando di rivedere i propri impegni di riduzione delle emissioni entro il 2014 e mantenendo tutti gli strumenti di mercato chiave del trattato come il meccanismo di sviluppo pulito (CDM) o il Joint Implementation (JI).

NUOVE INFRASTRUTTURE Il testo licenziato da Doha ufficializza due nuove infrastrutture necessarie ad incanalare tecnologie e finanziamenti ai paesi in via di sviluppo: il Fondo verde per il clima lanciato dalla Corea del Sud e Climate Technology Center guidato da consorzio sotto l’egida dell’Unep.

FINANZIAMENTI Nell’undicesimo giorno dei lavori della COP 18, Xie Zhenhua, capo della delegazione cinese e vice-direttore della Commissione statale cinese per lo sviluppo e la riforma, aveva rivelato che attraverso consultazioni e negoziati, già 6 Nazioni avevano promesso di offrire fondi ai paesi in via di sviluppo per affrontare i cambiamenti climatici.  Un’anticipazione rispettata dal momento che Germania, Regno Unito, Francia, Danimarca, Svezia e la Commissione europea hanno annunciato un impegno finanziario concreto da oggi fino al 2015, per un totale di circa 6 miliardi di dollari. Nel Doha Climate Gateway i paesi sviluppati hanno ribadito il loro impegno a mantenere le promesse fatte continuando a sostenere i finanziamenti climatici a lungo termine al fine di mobilitare 100 miliardi di dollari sia per l’adattamento e la mitigazione entro il 2020. Per ora però sono solo parole su carta, con la promessa di definire tutte i tecnicismi del caso a partire dal 2013.

"Non è stato un percorso facile – ha commentato il commissario Ue all’Ambiente Connie Hedegaard – ma abbiamo lanciato un ponte e speriamo ora di andare più spediti”.

LEGGI LE DECISIONI ADOTTATE DALLA COP18


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