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12/12/2012

Taranto, il regalo europeo all'Ilva

La saga dell’Ilva di Taranto continua, tra il dramma per la salute dei cittadini e quello dei lavoratori dell’impianto. Prodotti semilavorati e finiti ancora sotto sequestro, difficoltà di scarico delle materie prime, disperazione tra gli operai e indagini a tutto campo della magistratura che inseguono anche all’estero i membri della famiglia Riva. Su tutto poi i dubbi su quanto il decreto del governo, ancora in via di conversione in un Parlamento di fine legislatura, possa risolvere la situazione nel medio e lungo termine e dare un futuro possibile al sogno di una “filiera dell’acciaio sostenibile”.

Tutto ruota, infatti, sull’applicazione dell’autorizzazione integrale ambientale, e in particolare intorno a chi dovrebbe pagare bonifica e riconversione, se ancora possibile, dell’impianto dell’Ilva – per non parlare delle compensazioni per la popolazione locale.

Eppure i soldi sono stati dati, e da tempo. Il 16 dicembre 2010 la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha accordato un prestito di ben 400 milioni di euro a favore dei Riva per il progetto “Riva Taranto Energia e Ambiente”: 200 milioni sborsati subito e ulteriori 200 concessi il 3 febbraio 2012.

Obiettivo del progetto, secondo quanto riporta il sito web della Bei, “mantenere la competitività del sito [industriale] attraverso un programma di investimenti su larga scala per modernizzare le strutture produttive, migliorare la produttività dell’impianto e allo stesso tempo facilitare l’aumento dell’efficienza energetica e ridurre l’impatto ambientale”. Il tutto prendendo a riferimento gli impegni della valutazione di impatto ambientale del progetto, licenziata nel 2007 dal ministero dell’Ambiente italiano e poi rivista.

Singolare, perciò, che oggi si dica che il problema è chi pagherà per la riconversione, quando sarebbe da chiedersi che cosa ha fatto la famiglia Riva dei 400 milioni prestati dalla Bei per un progetto di quasi 800 milioni, di cui loro avrebbero dovuto mettere l’altra metà.

Ma le domande non finiscono qui, ed è giusto che non si facciano sconti neanche alle autorità europee, sempre così solerti a chiedere nuovi poteri per interferire nella gestione dei conti pubblici dei paesi membri, ma poi stranamente tolleranti, o disattente, a monitorare come i soldi pubblici europei siano gestiti dalle grandi imprese continentali. E’ giusto chiedersi perché la Bei non abbia monitorato la situazione di Taranto, ben nota alle cronache, e continuato a sborsare centinaia di milioni di euro, quando i livelli di emissioni erano oltre la norma, secondo quanto sostenuto dalla magistratura pugliese. In base alla scheda progetto della Bei, la riduzione delle emissioni di gas serra dell’impianto di Taranto sarebbero state certificate dall’Istituto italiano per la garanzia della qualità. Ma perché non si parla nella scheda progetto anche di altri inquinanti al cuore del dramma della salute per la popolazione di Taranto? Ma soprattutto la Bei ha in maniera solerte informato sia la magistratura italiana, che quella anti-corruzione europea – ossia l’ufficio dell’OLAF – di una possibile cattiva gestione del prestito all’Ilva?

Si aggiunga che la Bei sembra conoscere bene l’area di Taranto, poiché sempre alla fine del 2010 la Banca dell’Ue ha finanziato la Cementir per il “miglioramento ambientale” del suo impianto nella città pugliese. Anche in questo caso ci si domanda perché le tanto attente autorità europee, di fronte al ben noto lassismo di quelle italiane, non si sono poste almeno loro domande più stringenti su quale fosse la reale emergenza sanitaria a Taranto e quanto le misure proposte miglioreranno per davvero la qualità dell’aria nella città, che forse avrebbe bisogno di massicci investimenti pubblici di lungo termine per una ben diversa riconversione industriale.

Se, come sancito dai recenti Consigli Europei, la Bei diverrà il braccio finanziario che con i suoi investimenti anti-ciclici in economia reale rilancerà la crescita in Europa, è meglio che i cittadini europei si inizino a preoccupare per i propri territori, perché al riguardo neanche l’inflessibile Europa appare troppo interessata.

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