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01/12/2012

Ecuador: raccolti 300 milioni per non trivellare un parco naturale

Destinare fondi alla conservazione della natura invece che al petrolio? Per l’Ecuador è la scelta migliore. Mentre il resto del mondo fa a gara per accaparrarsi le ultime riserve di greggio, infatti, la repubblica sudamericana non le vuole più toccare. Soprattutto se queste si trovano in aree protette. Come il Parco Yasuní, la zona più ricca di biodiversità dell’intero pianeta. Ora, dopo 5 anni di attesa, il sogno ambientalista ecuadoriano sta per diventare realtà. In un solo anno, infatti, sono stati raccolti 300 milioni di dollari. Una cifra limitata, pari a meno del 10% di quella richiesta all’Onu dal presidente Rafael Correa per compensare i mancati introiti petroliferi. Ma che basta al Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) per iniziare il suo lavoro: finanziare energie verdi, riforestazione e progetti per le comunità locali, in alternativa alle trivellazioni.

Sconvolto dagli effetti dell’industria petrolifera, che in quattro decenni ha portato a livelli eccessivi di inquinamento e degrado sociale, il Paese del Buen Vivir è deciso a cambiare rotta. Come? Tutelando in particolare la Ishpingo-Tambococha-Tiputini (ITT), una delle aree naturalistiche più importanti del pianeta. Situata all’interno del Parque Nacional Yasuní, la ITT è un paradiso per insetti, uccelli, mammiferi e anfibi, che in un solo ettaro ospita fino a 655 specie di alberi, lo stesso numero di quelle in Usa e Canada messi insieme. Un gioiello di biodiversità, sotto cui però si nasconde un altro tesoro: 850 milioni di barili di oro nero, il 20% delle riserve nazionali.

Per non toccarli, lo Stato sudamericano ha dovuto pensare a come compensare le mancate entrate. Da qui l’idea di chiedere il contributo della comunità internazionale: 3 miliardi e 600 milioni di dollari, da raccogliere nell’arco di 13 anni. Una somma pari alla metà delle entrate a cui l’Ecuador rinuncerà per il mancato sfruttamento del sottosuolo della ITT, che nel 2007 lo stesso Correa chiese all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in nome dell’interesse globale. Sì, perché lasciando intatta la riserva, l’Ecuador potrà evitare l’emissione di 407 milioni di tonnellate di CO2, quasi quelle di tutta Italia in un anno.

Un’impresa ritenuta da alcuni impossibile, da altri eccessivamente idealistica, ma che grazie ai fondi raccolti finora può finalmente partire. A supportarla, secondo i dati dell’Undp, sono stati soprattutto singoli individui, inclusi musicisti e attori (come Edward Norton e Leonardo Di Caprio), fondazioni ed enti locali. Un aiuto, a sorpresa, è arrivato anche da compagnie aeree e multinazionali come la Coca Cola. Dai governi, sono giunti contributi da Paesi come Georgia, Cile, Colombia e Turchia. Dalle nazioni più ricche, invece, praticamente nulla, nonostante le promesse. Unica eccezione: la Germania, che donando 50 milioni di dollari ha di fatto permesso l’avvio del progetto. Improvvisa magnanimità di Berlino? Non proprio. A smuovere le istituzioni federali sono state le pressioni dei cittadini tedeschi, mobilitatisi a migliaia per la causa ecuadoriana. “Ciò che ha convinto governi come quello tedesco è stata la gente”, conferma Ivonne Baki, capo del comitato di negoziazione di Yasunì-ITT: “In Germania oltre 100mila persone hanno firmato la nostra petizione in una sola settimana”.

“L’Ecuador non vuole dipendere dal petrolio”, afferma Baki: “I Paesi ricchi di petrolio sono maledetti, e dipendono da esso così tanto da non sviluppare nient’altro”. “Il petrolio foraggia la corruzione e fa pagare il prezzo di tutto ai più poveri – aggiunge – portando benefici solamente alle elite”. Un rischio che, in realtà, si corre anche con i progetti legati alle rinnovabili. Per questo i soldi delle donazioni per l’iniziativa Yasunì-ITT, non essendo donati direttamente al governo ecuadoriano, sono tenuti in fondi fiduciari e gestiti dall’Undp. Che, insieme a un consiglio composto da popolazioni indigene, comunità locali e accademici, deciderà a quali progetti ambientali e sociali destinarli. Un modello virtuoso che, alla faccia delle inconcludenti negoziazioni sul clima in corso a Doha, sta contagiando altre nazioni. Come Guatemala, Madagascar e Nigeria, seriamente interessate a seguire le orme dell’Ecuador. Del resto, il fatto che “quello che c’è sulla terra vale molto più di quello che si trova nel sottosuolo”, come ricorda Ivonne Baki riguardo a Yasunì, può valere per molti altri luoghi del pianeta. Italia inclusa.

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