Di solito non sono mai d'accordo su niente, ma stavolta si sono prodotti in una votazione alla bulgara. Nel Congresso degli Stati Uniti, Democratici e Repubblicani hanno votato all'unanimità contro il progetto di affidare alle Nazioni Unite il controllo di internet. La Camera (repubblicana) si è espressa con 397 voti contrari e nessuno favorevole. Un verdetto analogo era arrivato a settembre dal Senato (democratico).
Che i due rami del Congresso raggiungano un accordo di proporzioni simili è davvero un evento prodigioso, soprattutto perché in questi giorni Washington è paralizzata da una delle crisi politiche più gravi degli ultimi anni (quella sul "fiscal cliff", il precipizio fiscale, che rischia di mandare in rosso il Pil americano del 2013).
Quale straordinario evento può aver mai prodotto un simile livello di concordia? In realtà il verdetto della politica americana ha essenzialmente un valore simbolico e politico, dato che le stesse Nazioni Unite riconoscono di non poter imporre unilateralmente ai singoli Paesi regole o procedure sull'uso di internet. Prima del voto, tuttavia, il repubblicano Greg Walden ha ribadito la "necessità d'inviare un segnale forte del Congresso sull’impegno americano per un web non regolamentato", contro gli interessi di Paesi come Russia e Cina, che "cercano di manipolare il controllo della rete".
La questione però è spinosa, perché chiama in causa interessi contrastanti. I fronti sono almeno tre: gli utenti del web, che hanno diritto a navigare nel modo più libero possibile; i mastini delle corporation telematiche, che vedono qualsiasi regolamentazione del mercato come un possibile ostacolo alla loro capacità di produrre utili; i paesi (più o meno) autoritari, interessati a favorire accordi che consentano un maggior controllo sulle attività della rete.
La proposta bocciata dagli Stati Uniti prevedeva di affidare la gestione del web all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu, nell'acronimo inglese), ovvero l’agenzia dell’Onu che si occupa di tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non è un caso che proprio negli ultimi giorni sia andato in scena a Dubai un gigantesco summit dell'Itu, che per la prima volta doveva aggiornare il trattato internazionale sulle regole in materia di telecomunicazioni (testo siglato ormai nella preistoria del 1988).
Erano presenti i delegati di tutti i 193 Stati membri dell'Onu (un conteggio da cui rimane esclusa la Palestina, da poco assurta allo status di "osservatore"). Per tenere sotto controllo la situazione, gli americani avevano inviato anche rappresentanti del Congresso e della Federal Communications Commission. Non poteva mancare, naturalmente, un avamposto di Google e degli altri colossi internettiani, compresi alcuni padri della rete come Vinton Cerf e Bob Kahn.
In sostanza, la contrapposizione fondamentale è fra due schieramenti: da una parte chi si oppone a qualsiasi regolamentazione nel nome della libertà assoluta; dall'altra i Paesi favorevoli alla centralizzazione della gestione, la quale, pur facilitando la prevenzione di abusi e malfunzionamenti, favorisce inevitabilmente anche chi punta al controllo delle comunicazioni. Com'è ovvio, Hamadoun Toure, direttore dell'Itu, ha negato che ad essere in discussione fosse il principio di libertà che da sempre caratterizza la rete.
Il problema è che l'Unione non ha il potere di centrare il vero obiettivo della questione. Non è infatti internet in quanto tale ad aver bisogno di nuove regole, ma il mercato multimiliardario che su di essa si è generato. Se davvero la comunità internazionale avesse a cuore la libertà degli utenti, cercherebbe di arginare il potere assoluto dei pochi giganti che dominano il campo da gioco.
Si potrebbe iniziare stabilendo delle regole per evitare i cartelli e gli abusi di posizione dominante, per poi passare a una regolamentazione della pubblicità. In particolar modo di quella "personalizzata", che si fonda su una sistematica e impunita violazione della privacy di milioni di utenti, la cui attività in rete viene tracciata ogni giorno a loro insaputa.
L'Itu invece ha approvato un nuovo standard unico e vincolante per la Dpi, ossia la Deep Packet Inspection (ispezione profonda dei pacchetti), una tecnica per analizzare nel dettaglio il traffico in circolazione.
L'obiettivo ufficiale è di migliorare la gestione e quindi i servizi offerti agli utenti. Lodevole proposito. Peccato che da oggi i magnati delle telecomunicazioni potranno usare la Dpi per suddividere il traffico e imporre prezzi variabili a proprio piacimento.
Secondo il Center For Democracy and Technology, inoltre, l’impiego diffuso della Dpi consentirà d'ispezionare qualsiasi genere d'informazioni, il tutto senza che nessuno si sia preoccupato di accompagnare a questa innovazione una più stringente politica sulla privacy. E indovinate un po' da chi è partita l'idea? Nemmeno a dirlo, da Pechino.
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