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23/12/2012

Quegli operai che battono le mani

La politica è una cosa, l'analisi teorica un'altra. “Classe operaia” e operai in carne e ossa sono parecchio differenti.

Nei momenti migliori gli esseri umani tendono a somigliare all'icona che la Storia ha disegnato. In tempi difficili, come questi, oltre a battaglie generose e disperate, si vedono invece anche scene vergognose. E che dovrebbero far pensare soprattutto i protagonisti.

A Melfi è andata in scena, giovedì 20 dicembre, una cerimonia tentata soltanto nel ventennio fascista. Per la precisione nell'ottobre del 1932, al Lingotto, quando Mussolini venne omaggiato da Gianni Agnelli – il nonno dell'Avvocato, a sua volta nonno del John Elkann che a nome della “Famiglia” affiancava Sergio Marchionne sul set lucano – nello stabilimento torinese del Lingotto.

Anche allora ci furono applausi per il Duce e il Padrone. Operai selezionati tra il personale più fedele, capi travestiti in tuta (come ieri il direttore di Melfi!), una militarizzazione che sconsigliava dissonanze. Ma c'era anche una prospettiva industriale, una produzione che “tirava” nonostante il mondo intero stesse assaggiando la frusta della crisi del '29.

Lo stesso gioco, sette anni dopo, per l'inaugurazione di Mirafiori, non riuscì affatto. Il silenzio degli operai del 1939 fu tale da far andare via i gerarchi, di corsa, con Agnelli al seguito. La crisi non era affatto finita, l'Italia stava per entrare in guerra (lo fece qualche mese dopo, ma la discussione era all'ordine del giorno), e la Fiat stava per costruire camion militari e blindatini, invece di automobili.


A Melfi gli applausi ci sono stati. Obbligati, pagati, sotto ricatto occupazionale e produttivo (i due nuovi mini-suv che dovrebbero esservi costruiti partiranno solo nel 2014, se non succederà qualcosa che lo sconsigli). Ma ci sono stati.

Soprattutto, Monti e Marchionne hanno squadernato il “nuovo modello sociale” che dovrà caratterizzare secondo loro l'Italia del futuro: tanto lavoro per sempre meno gente, silenzio e testa bassa, applausi quando si accende la luce rossa a volontà del capo. Sputare sangue ed esser pronti a ringraziare, facendo la claque.

Dentro la fabbrica, e nel sistema delle relazioni industriali, un solo sindacato: quello di regime. Oggi sono ancora quattro (Cisl, Uil, il Fismic solo perché erano in casa Fiat, e l'inesistente Ugl ex-fascista), ma in tempi rapidi diventeranno uno solo, sfrondando apparati davvero pletorici per il lavoro che li aspetta: dire sì al padrone.

Fuori dalla fabbrica, e dal sistema della rappresentanza “riconosciuta”, tutte le sigle non omologate, conflittuali, dissenzienti. A Melfi c'era - fuori - la Fiom, con Maurizio Landini; considerato quasi un “sindacato di base”, ormai, e come quello “da cancellare”. Non c'era la Cgil e tantomeno Susanna Camusso, ufficialmente impegnata in un Direttivo nazionale durato un solo giorno invece dei due previsti. Si vede che non hanno trovato nulla su cui discutere, o almeno ragionare, mentre governo e padroni stanno disegnando un mondo che non prevede più la presenza di una cosa chiamata Cgil.

Gli applausi ci sono stati e ci devono far pensare. Senza una prospettiva, senza un orizzonte concreto verso cui indirizzare il malcontento e la rabbia, anche tra chi viene spremuto come un limone la Resistenza non inizia, non prende corpo. Ci si affida al Padrone e al Duce di turno nella speranza che le cose vadano meglio, che almeno quei pochi che lavorano continuino a farlo, che “passi 'a nuttata”.

Il ritiro delle organizzazioni “complici”, lo smarrimento di quelle che pur hanno resistito in questi ultimi anni senza però comprendere fino in fondo lo spessore “epocale” del “modello Pomigliano” (la Fiom, in primo luogo, ma non solo), sembra aprire una prateria davanti.
C'è il rischio, se si commettono altri errori, di lasciarla diventare un deserto.

Non serve sparare parole incendiarie, oggi. Serve, è necessario, è indispensabile, individuare quella prospettiva e mantenere-radicare-articolare la presenza antagonista. Mettere in piazza organizzazione fatta per durare, cervello e cuore, sguardo lungo e piedi per terra. Poche chiacchiere, nessuna mitologia, tanto lavoro.

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