Sono un vecchio sessantottino (in quell’anno avevo 16 anni e conobbi le mie prime assemblee e le mie prime manifestazioni), come storico ho sempre difeso il sessantotto dai suoi detrattori e resto dell’idea che quel movimento fu il più grande fenomeno di mutamento sociale della storia repubblicana. Questo non significa che di quell'esperienza tutto vada accettato e difeso. Ci sono molte critiche da fare e non su aspetti secondari. Una delle eredità meno positive del sessantotto è stata il “parlare per slogan”, su cui conviene fare una riflessione. Gli studenti del sessantotto (ed anni seguenti) erano in gran parte “teleutenti nativi”: chi aveva 20 anni in quell’anno aveva avuto esperienza della televisione già quando ne aveva avuti otto o dieci. E con la televisione aveva assimilato il linguaggio della pubblicità commerciale filtrato attraverso il mitico “Carosello”. E la pubblicità è la negazione del mercato: dove questo presuppone un consumatore razionale ed informato che sceglie con cognizione di causa il miglio rapporto prezzo-qualità, la pubblicità vuole un consumatore suggestionato che sceglie sulla base di pulsioni che non hanno nulla a che fare con la razionalità economica. Si sceglie quel caffè non perché è buono ma perché il suo testimonial è quel celebre attore, quell’auto promette di far colpo sulle donne, quel gin è bevuto dai giovani, quella sigaretta è molto “virile” e così via. E questo esige un messaggio breve, facile a memorizzarsi (magari per una rima o una costruzione ad effetto), fulminante ed inverificabile: “Vecchia Romagna etichetta nera: il brandy che crea un’atmosfera”, “Finsec: ti dà la carica, ti manda in estasi”, “Atlantic: con meno il meglio”.. ricordate?
Poi non è affatto necessario che Atlantic sia davvero il prodotto migliore ed al costo più basso o che il Finsec potesse realmente mandare in estasi e tantomeno che la Vecchia Romagna (che ricordo con un insuperabile dopobarba) crei veramente una atmosfera. L’importante è che questo entri nell’immaginario dell’ascoltatore che a sua volta se ne faccia portatore ripetendo lo sloga, magari a mo’ di battuta, al bar con gli amici. La forza di questo tipo di comunicazione sta nella semplicità perentoria con la quale afferma qualcosa come se fosse una verità auto evidente, che non ha bisogno di alcuna prova. Come dire: “guarda fuori: è giorno”. Questo è lo slogan. Il movimento studentesco di quell’anno importò lo slogan nella politica: “Potere studentesco!”, “Operai a scuola, studenti in officina: faremo in Italia come hanno fatto in Cina”, “Imperialismo tigre di carta”, “Vietnam vince perché spara” “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia” e così via. I vantaggi di questa innovazione erano diversi: lo slogan ritmato nella manifestazioni ed assemblee creava un senso di soggetto collettivo come i canti politici, il messaggio era breve ed immediato, era una forma di propaganda che costava poco o nulla richiedendo al massimo un megafono, il che è essenziale per un movimento povero di mezzi, ecc. Ma comportava degli effetti negativi alla lunga prevalenti su quelli positivi. In primo luogo tendeva ad essere ripetitivo, ad essere ripreso anche all’interno di testi un po’ più articolati (come un volantino o il pezzo di un giornale murale) favoriva una notevole standardizzazione e, dunque, un impoverimento del linguaggio. A sua volta questo spingeva verso l’impoverimento dell’analisi ed, in definitiva, verso un discorso politico scarsamente articolato. Cosa significa “Lo stato borghese”? Lo “stato borghese” può essere molte cose: può identificarsi con il fascismo o anche con il Welfarestate, con una dittatura militare o un regime parlamentare… “E che ce frega? Tanto lo dovemo abbatte!”. Ricordate “Ecce Bombo”? Ecco, avete capito di cosa parlo.
In secondo luogo, il carattere assertivo e privo di incertezze degli slogan (d’altra parte, che successo avrebbe uno slogan dubitativo?), non incoraggiava né un atteggiamento laico né, tantomeno la mediazione politica. E questo è stato sempre uno dei punti deboli della cultura politica del sessantotto: il non capire che la mediazione politica non implica né rinuncia ai principi né un atteggiamento meno radicale. Lenin aveva un fortissimo senso della mediazione politica e non mi pare che fosse un moderato. Ma i sessantottini preferirono sempre pensare che la politica fosse sempre e solo brutale esercizio dei rapporti di forza, in una dimensione militaresca che ignorava di fatto l’idea di egemonia che non è fatta solo di forza, ma anche di consenso. Ad una cultura politica così fatta, il linguaggio un po’ primitivo degli slogan calzava come un guanto di morbida pelle. Poi, però, l’avventura del partito armato tirò le somme di quella incapacità di passare ad una età adulta della pratica politica.
Man mano, la riduzione della politica militante a frenetico attivismo senza meta finì per svuotare di senso la stessa militanza e gli slogan furono la colonna sonora di questo poco esaltante film. Tutto questo non è passato senza conseguenze. Intendiamoci, non è stata solo colpa del sessantotto che al massimo ha fatto da involontario facilitatore di qualcosa che ci sarebbe stato comunque: la trasformazione della propaganda politica in termini sempre più affini alla pubblicità commerciale. Era una conseguenza logica del dominio televisivo. Il sessantotto ha avuto la responsabilità specifica di formare la cultura politica di una generazione e non solo nella sua fiancata di sinistra: quello degli slogan non fu il linguaggio solo della gioventù di sinistra ma di tutta quella generazione.
Da questo punto di vista, possiamo ritenere Monti (che, in fondo, appartiene a quella generazione avendo avuto 25 anni nel 1968) un “sessantottino ad honorem”, pur non avendo mai avuto esperienze di movimento studentesco. Certo, oggi gli slogan non sono più in rima e non sono gridati nei cortei, ma possono assumere la forma di un documento politico pronunciato con voce pacata come lo è la sua Agenda. Quello che resta è l’assertività, con frasi brevi e staccate, che non ammette verifiche, l’assoluta mancanza di laicità, la suggestività del messaggio basata sull’indifferenza verso il contenuto. La stessa perentoria affermazione di verità auto evidenti che non richiedono prove e non ammettono mediazioni: “L’Europa è il futuro certo ed unico del nostro paese; ci sono state difficoltà, ma adesso faremo l’unità politica.”
E se obietti che non c’è nessun segno di questa prossima unità ed, anzi, che le dinamiche segnalano, semmai, un allontanamento dei paesi membri fra loro, lo sloganista ti risponderà che non è vero e sei tu che non vedi i segni di questa prossima unità (che però non ti dirà quali sono). Ed, al massimo, l’altro aggiungerà una banalità qualsiasi come quella del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto e che lui è un ottimista. E se poi, dopo qualche anno, l’unità politica europea non si fa e magari salta tutto in aria? Nessun problema: si cambia slogan, con l’aria di chi ha sempre detto la stessa cosa. L’Europa, nella retorica montiana, assolve alla stessa funzione che aveva la Cina nel discorso dell’ala maoista del sessantotto: un mito-attaccapanni cui appendere le proprie aspettative ed i propri disegni. Ed i miti non ammettono discussioni: si accettano o si respingono, senza incertezze e sfumature. A venti anni questo può essere l’ingenuo rifugio di un acerbo immaginario. A sessanta è solo l’espediente cinico di operazioni poco confessabili. Ma il meccanismo retorico resta lo stesso.
Fonte
Davvero un bel pezzo questo di Giannuli che per altro può allargarsi a tutti i soggetti politici attualmente in corsa, Movimento 5 Stelle e arancioni in primis.
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