Gli interessi di Tel Aviv e Riad sembrano coincidere, lasciando a Washington il ruolo di terzo incomodo. Analisi di Lorenzo Carrieri.
La situazione caotica e frammentata della regione mediorientale si
caratterizza per una serie di fattori e alleanze che non sarebbero
facili da spiegare se non facendo riferimento a concetti come quello di
realpolitik e mantenimento dell'equilibrio di potenza. Non sarebbe
altrimenti possibile spiegare le convergenze di interessi tra Israele e Arabia saudita, Paesi che non potrebbero essere più differenti sul piano del carattere, della storia, dell'affiliazione religiosa, del sistema politico e della cultura.
Israele e Arabia Saudita sono i due più importanti alleati strategici
degli Stati Uniti nella regione: entrambi garantiscono la perpetuazione
dell'egemonia americana in cambio della protezione degli Usa e di
accordi finanziari. Che gli Stati Uniti siano riusciti a mantenere
queste relazioni e trarne vantaggio senza troppi conflitti date le
differenze tra di loro, è tanto il risultato di esigenze saudite e
israeliane quanto della creatività e abilità diplomatica americana. Eppure
oggi gli interessi di Israele e Arabia sembrano convergere, lasciando
agli Stati Uniti, su alcune questioni, il ruolo di terzo incomodo.
Gli Stati Uniti sono pressati da entrambe queste potenze nella conduzione dei colloqui con l'Iran: l'eventuale raggiungimento di un accordo lascerebbe due dei suoi ultimi alleati del Medio Oriente di stucco.
Da quando l'Iran ha lanciato segnali di apertura verso l'Occidente, nel
tentativo di riabilitare dei contatti con esso, Israele e Arabia
Saudita "sembrano" convergere verso una conduzione di un alleanza
segreta volta a costituirsi come nuova potenza regionale. Sembra che i
primi contatti tra israeliani e sauditi vi siano stati a seguito della
guerra del Libano nel 2006 [quando Israele attaccò Hezbollah nel sud
Libano]. Obiettivo di questi incontri segreti era il contenimento dell'Iran nella regione.
Sembra che anche oggi, come si è lasciato sfuggire un funzionario di
governo vicino al primo ministro israeliano Netanyahu, Israele stia
coordinando politiche condivise con i sauditi e il Consiglio
Cooperazione del Golfo (CCG) per prevenire il riavvicinamento Usa-Iran sul
nucleare.
Ma la cooperazione tra questi Paesi è stata ostacolata, ed è tuttora
ostacolata, dal ruolo dell'Arabia Saudita nel fornire sostegno a gruppi
che combattono l'occupazione israeliana, come Hamas e la Jihad islamica.
Oltre a ciò, sicuramente d'ostacolo è l'opinione pubblica dei due
Paesi. Nonostante le differenze, Tel Aviv e Riad condividono molti punti di vista riguardo il contesto regionale:
entrambi vogliono un accerchiamento dell'Iran per domarlo e
neutralizzarlo, entrambi vogliono un cambio di regime in Siria ed
entrambi sostengono il governo militare egiziano.
Insomma, questi due attori lavorano ossessivamente per la "stabilità" e il mantenimento del balance of power che li vede in posizione di dominio nell'area.
Allo stesso tempo c'è da parte americana la preoccupazione che
un'eventuale alleanza formalizzata tra Tel Aviv e Riad (improbabile a
breve termine), che sia in grado di unire la lobby di potere sionista a
Washington con le capacità finanziarie saudite, possa rappresentare un
pericolo per gli interessi americani nell'area, spostando equilibri e
chiudendo spazi di manovra agli States.
CONVERGENZE SULL'EGITTO
Entrambe le potenze sostengono il colpo di Stato portato avanti dal
generale Abdel-Fattah Al-Sisi contro il presidente regolarmente eletto
Mohammed Morsi, della Fratellanza musulmana. Dal punto di vista sionista
la caduta di Mubarak non era stata ben accolta. L'Egitto è l'unico
Paese arabo (insieme alla Giordania) che ha firmato un accordo di pace e
di riconoscimento di Israele: con la firma del trattato di pace del
1978 a opera di Sadat e Begin, la leadership egiziana venne tagliata
fuori dal contenzioso sul conflitto israelo-palestinese. Grazie a quegli
accordi Tel Aviv e Washington facevano fuori il Paese arabo che
rappresentava l'ideologia panaraba, la guida del mondo arabo.
Con la presidenza Mubarak le cose si consolidarono: a seguito
dell'elezione di Morsi, Israele temeva un governo a maggioranza islamica
come quello della Fratellanza musulmana. Inizialmente, sotto il governo
della Fratellanza, nonostante i rapporti tra i governi fossero stati
interrotti, proseguirono i dialoghi tra i vertici degli eserciti: sotto Morsi è proseguita a più non posso la distruzione dei tunnel che collegano Gaza-Egitto,
che portano beni di prima necessità e la politica del pugno duro verso i
jihadisti nella penisola del Sinai è stata vista di buon occhio da
Israele. Nello stesso tempo Morsi, durante l'attacco israeliano a Gaza
denominato Pillar of Defense (14-21 novembre 2012) prese una
serie di misure che irritarono lo Stato ebraico: tra queste vi furono il
richiamo ufficiale dell'ambasciatore egiziano da Israele, l'espulsione
di quello israeliano dal Cairo, l'apertura del valico di Rafah per 24
ore al giorno e l'invio di una delegazione ufficiale in visita alla
Striscia di Gaza.
Questi fatti alimentarono le diffidenze da parte israeliana, diffidenze spazzate via dalla presa di potere da parte dei militari.
C'è chi ha parlato di un coinvolgimento diretto del Mossad nella
preparazione del colpo di Stato. Come ha rivelato un report del
quotidiano israeliano Haaretz nei giorni precedenti il golpe
Israele, avendo contatti diretti coi militari egiziani, promise un
totale appoggio e garantì, per conto degli Stati Uniti, che gli aiuti
non sarebbero stati fermati.
E' ironico che invece l'Arabia Saudita, stato che si rifà
all'applicazione della Sharia, tema la presa di potere da parte di
movimenti islamici nel suo Paese e all'estero, soprattutto quelli legati
alla Fratellanza musulmana. Fino alla presa di potere, nel 2012, della
Fratellanza, Riad forniva protezione e riconoscimento a questi ultimi: negli anni di Nasser i Fratelli musulmani venivano foraggiati con donazioni per combattere l'ideologia laica panaraba.In
seguito, dopo la rivoluzione islamica iraniana, i sauditi usarono i
Fratelli come difesa della leadership sunnita nel mondo mussulmano
contro le rivendicazioni sciite. I sauditi dunque hanno usato la
Fratellanza fino a quando quest'ultima non ha cercato di legittimarsi
agli occhi del mondo islamico come regime ideologico e populista
alternativo ai sauditi, anti-monarchico e repubblicano. La sua
politicità è stata vista come una sfida alla monarchia e le primavere
arabe sono state interpretate da Riad come una sfida allo status quo e
alla stabilità dell'area. A seguito della presa di potere di Al Sisi, il re Abdullah ha sostenuto il nuovo esecutivo con un prestito di cinque miliardi di dollari,
sostituendosi agli Stati Uniti che hanno tagliato gli aiuti, e si è
congratulato con i militari per il loro impegno nello sradicare il
dissenso, il caos e il terrorismo della Fratellanza.
CONVERGENZE SIRIANE
La posizione israeliana nei confronti del conflitto siriano è ambivalente: se
da una parte Tel Aviv vede un'opportunità per indebolire il regime
siriano, dall'altra la presenza di elementi qaedisti ai confini con la
Siria è un motivo di preoccupazione. Perciò il raggiunto accordo per
la distruzione delle armi chimiche siriane è stato visto come una prima
vittoria da parte israeliana, che ne ha visto una perdita di deterrenza
da parte siriana e uno sbilanciamento dell'equilibrio di potenza a suo
favore, e che potrebbe portare, in un futuro prossimo, Damasco e Tel
Aviv a sedersi al tavolo della pace con uno squilibrio di forze tutto a
favore di Israele.
La Siria, infatti, rimane il terzo incomodo nella cintura del processo di pace attorno allo Stato ebraico: nessuna pace è complessiva per Israele senza la Siria e,
per fare ciò, Israele vuole essere in posizione di forza. Allo stesso
tempo, come ha riportato il Jerusalem Post in un intervista con
l'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren, "meglio un
regime cattivo non sostenuto dall'Iran che uno sostenuto da esso".
Dunque c'è tutto l'interesse da parte israeliana a far cadere il regime
di Assad.
Per le elitè di potere di Tel Aviv, la Siria rappresenta la chiave di
volta dell'arco sciita e la sua caduta significherebbe un isolamento
iraniano nell'area. Israele non ha interesse a intervenire
direttamente sul campo, ma è suo obiettivo principale che i ribelli
anti-Assad abbiano la meglio per una serie di ragioni favorevoli allo
Stato ebraico: ciò permetterebbe l'annessione totale delle alture del
Golan, occupate nel 1981, Hezbollah impegnato sul fronte siriano lo
distoglierebbe da attaccare Israele, l'emergere di una nazione-autonoma
kurda porterebbe alla balcanizzazione della Siria, la popolazione drusa
si rivolgerebbe ad Israele per avere protezione e, soprattutto, l'Iran
verrebbe indebolito.
Per quanto riguarda la posizione saudita sulla Siria, fondamentale
rimane il ruolo di Riad nel contenere l'influenza iraniana sulla
regione, in quest'ottica va letto il finanziamento di gruppi qaedisti in
Siria. Rompere l'Asse della Resistenza, installare un regime
filo-saudita, cambiare i rapporti di forza oggi esistenti favorevoli al
regime.
ALLONTANAMENTO DALL'ALLEATO PRINCIPALE
Le relazioni tra questi due Paesi e gli Stati Uniti sembrano peggiorare
negli ultimi tempi: l'atteggiamento di attesa americano nei confronti
della minaccia iraniana ha fatto storcere il naso a Tel Aviv e Riad,
soprattutto dopo le aperture della presidenza Obama ai colloqui diretti
sul nucleare.
Riad e Tel Aviv interpretano questo reapprochment come un
tentativo di prendere tempo della leadership iraniana, in maniera tale
da costruirsi l'arma atomica e, in risposta a ciò, cercano di costruirsi
delle nuove alleanze. Tel Aviv, pur rimanendo alleato strategico degli
States, riabilita nella sua politica estera quella periphery doctrine
elaborata da Ben Gurion negli anni 50, una strategia basata su vasto
raggio diplomatico verso i periferici della regione (e non), come la
Turchia (con quest'ultima i rapporti si sono raffreddati a seguito del
colpo di Stato in Egitto), l'India ma soprattutto la Cina, nella
speranza di rompere l'isolamento e aprire nuove strade per la
cooperazione in vari campi (militare, finanziario, commerciale).
Anche la rinuncia al seggio nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu da
parte saudita è stato un segnale forte nei confronti della loro alleanza
con gli Usa. Due influenti membri della casa reale saudita hanno
parlato apertamente di "anomalie nei rapporti con gli USA". Quando nel
luglio 2012 il re Abdullah incaricò il principe diplomatico Bandar Bin
Sultan, per 22 anni ambasciatore a Washington, generale del servizio
d'intelligence saudita, si aspettava una convergenza totale con
l'alleato americano sulle questioni vitali per il regno. A un anno di
distanza la situazione non è cambiata di una virgola, e la paura di un
cambiamento nello status quo a livello regionale e globale costringe
Riad a guardarsi intorno in cerca di nuove alleanze, nonostante le
assicurazioni di John Kerry e la stretta interdipendenza tra questi due
Paesi, soprattutto in campo economico e militare.
Oggi Washington sembra riconsiderare i propri rapporti, riapprocciandosi a Teheran in un discorso di appeasement del regime degli Ayatollah, ma il
mantenimento di stretti legami con Israele e Arabia Saudita è troppo
importante per gli interessi strategici americani sull'area:
mantenimento del flusso continuo di gas e petrolio dal Golfo Persico
verso i mercati mondiali, non proliferazione delle armi di distruzione
di massa nell'area (per mantenere la superiorità israeliana) e lotta al
"terrorismo". Per conseguire ciò Washington necessita il mantenimento
del balance of power (tutto a favore di Israele) e la continuazione
della presenza delle sue truppe in loco: il mantenimento dello status
quo è garantito da questi fattori e Israele e Arabia Saudita ne sono gli
interpreti principali.
Ma anche negli States ci sono ripensamenti su queste due alleanze:
Stephen Walt, professore di relazioni internazionali ad Harvard e
analista di politica estera americana, si chiede se il servilismo di
Washington nei confronti di Israele e l'eccessiva dipendenza dal
petrolio saudita servano alla credibilità americana nell'area e alla
riproduzione della sua egemonia. O se nel gioco delle alleanze gli Stati
Uniti si siano dimenticati del loro motto principale: we have no permanent friends, only permanent interests, cioè non esistono amici permanenti, ma soltanto interessi permanenti.
Questo non significa la fine dell'egemonia americana sull'area, ma va vista in un'ottica di massimizzazione dell'influenza di questa egemonia,
senza schiacciarsi troppo su determinati alleati (Arabia Saudita e
Israele), ma cooperando con l'Iran su specifiche questioni strategiche
(nucleare, Afghanistan).
Fonte
Bella analisi, non condivido soltanto la chisura dell'articolo che mi pare in antitesi con quanto è stato sostenuto fino al penultimo capoverso. Quello attuale è proprio l'inizio del declino dell'egemonia unica americana, finalmente aggiungerei!
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