Tel Aviv offrirà 5.000 dollari agli immigrati africani disposti a
lasciare Israele di «propria volontà» e che prometteranno di non
ritornarci più. È questa, in ordine di tempo, l'ultima proposta
presentata dal ministero degli Interni al premier Netanyahu per
risolvere la questione immigrazione.
Al momento la cifra pattuita, all'interno del programma (ironicamente) chiamato «ritorno volontario», è di 1.500 dollari per ciascuno migrante a cui si vanno ad aggiungere i costi del biglietto aereo per riportarlo nel suo Paese.
L'aumento, nelle intenzioni dei ministeri degli Interni e del Tesoro,
costituirebbe uno sprone per risolvere velocemente il "problema
clandestini" nello Stato ebraico. Se realizzato non sarebbe però una
novità. Pochi mesi fa, infatti, alcuni immigrati sudanesi ed eritrei
avevano «accettato di ritornare a casa» in cambio di una cifra in
denaro.
Il problema "infiltrati" (così una gran parte degli israeliani chiama i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati) è
stato al centro di una riunione speciale convocata due settimane fa in
seguito all'annullamento dell'emendamento alla legge per vietare le
«infiltrazioni» disposto dalla Corte Suprema israeliana quasi due mesi
fa.
Sebbene la proposta di aumentare il compenso per chi decide di lasciare
Israele sia stata subito accolta favorevolmente da Netanyahu, tuttavia è
in queste ore ancora oggetto di discussione nei ministeri dell'Interno e
del Tesoro. Secondo i dati dell'Autorità dell'Immigrazione e
Popolazione della Commissione sui lavoratori stranieri della Knesset, alla fine di settembre erano presenti in Israele 53.636 immigrati africani. Dall'inizio del 2013 solo 38 persone sono entrate illegalmente dal confine con l'Egitto.
Il centro di detenzione «aperto»
Ma il possibile aumento del compenso da 1.500 dollari a 5.000 non è
l'unica strategia messa in campo dal governo per risolvere il problema
immigrazione. Quando due settimane fa le organizzazioni dei diritti
umani si sono rivolte al Consigliere giudiziario del governo, Yehuda
Wainshtein, affinché venisse applicata la sentenza della Corte Suprema,
la risposta che hanno ricevuto non è stata molto positiva.
Se da un lato, infatti, la vice consigliera di Wainshtein Dina Zilber ha
ribadito che novanta giorni è il termine massimo per la liberazione dei
detenuti e ha rassicurato le organizzazioni per i diritti umani che «il
rilascio si svolgerà in modo continuato e graduale nelle prossime
settimane», dall'altro ha osservato come l'intenzione del governo sia
quella di trasferire in un centro di permanenza «aperto» (al momento non
ancora completato) gli immigrati i cui casi non sono stati ancora
esaminati. In pratica si tratta di trasferire1.800 persone (detenute
attualmente senza aver compiuto alcun reato) nel centro di Sadot in
pieno deserto.
Secondo il piano, gli immigrati potranno lasciare il campo la mattina ma
dovranno far ritorno la sera dove sono stati allestiti 300 container.
Non sono ancora chiari i costi e come il campo potrà trasformarsi in un
«centro aperto». Così come non è stata fornita la data prevista per
compiere i lavori di adeguamento all'impianto già esistente. L'unica
cosa certa è che Tel Aviv ha investito finora 250 milioni di shekel per
una struttura che dovrebbe "accogliere" 3.300 persone. Decisione, quella
del campo aperto di Sadot, che ha scatenato le prime proteste. Il
consiglio regionale di Ramat Negev è preoccupato dalle migliaia di
migranti in giro di mattina in pieno deserto. Malcontento è stato
espresso anche dai lavoratori del Servizio Prigioni che, oltre ad
apparire scettici sull'utilità del provvedimento, hanno affermato di non
aver esperienza con i «centri aperti».
Non ancora completato, il centro di Sadot diventerà una vera e propria
cittadina carceraria al confine con l'Egitto. E pensare che il progetto
iniziale prevedeva di detenere fino a 11.000 persone, facendo guadagnare
a Sadot il (poco ambito) appellativo di carcere più grande al mondo.
Combattere gli «infiltrati»
L'aumento della cifra stanziata per "risolvere" il problema immigrati,
il campo «aperto» di Sadot e la diminuzione del reato di clandestinità
da tre anni a un anno e mezzo sono le tre principali strade seguite dal
governo Netanyahu per aggirare l'annullamento all'emendamento sulla
legge "anti-infiltramento" stabilito dalla Corte Suprema israeliana
quasi due mesi fa. La modifica che l'estrema destra provò ad inserire
permetteva allo stato di detenere per tre anni (ma in alcuni casi anche a
tempo indefinito) i richiedenti asilo e gli immigrati. La Corte Suprema giustificò la sua decisione parlando di «rispetto per la dignità umana e la libertà».
Netanyahu scelse subito di dare battaglia: «nell'ottemperare alla
sentenza della Corte Suprema» - disse il premier israeliano stizzito -
«intendo trovare insieme al Ministro degli Interni e al consigliere
giudiziario del governo un modo che ci permetta di continuare la
nostra politica ferrea che ha frenato l'infiltrazione e ha respinto
migliaia di infiltrati». Ma l'ottemperanza della sentenza è stata solo a parole.
Pochi giorni fa, infatti, le associazioni dei diritti dell'uomo hanno
accusato il governo di non aver liberato gli immigranti come imponeva la
Corte Suprema.
Secondo i dati dell'Autorità dell'Immigrazione e Popolazione soltanto 33
richiedenti asilo venivano rilasciati a un mese dalla sentenza. Un
numero irrisorio se si considera che nelle carceri israeliane sono
rinchiusi 1.800 immigrati. La mancata applicazione della decisione
giudiziaria non può costituire del tutto una sorpresa se si considera
che lo stesso presidente della Corte Suprema, Asher Grunis, ha avuto un
atteggiamento contraddittorio perché sebbene abbia bocciato
l'emendamento si è contemporaneamente mostrato favorevole alla
detenzione degli "infiltrati" per periodi più brevi.
Una lotta senza quartiere quella contro i lavoratori immigrati e i
richiedenti asilo in cui la maggior parte della società israeliana è, in
misura maggiore o minore, complice. I corpi dei "sudanesi" e dei
"kushim" (negri in ebraico) sono sacrificati per mantenere compatta una
coalizione governativa di estrema destra che da mesi si mostra
profondamente divisa sul processo di pace in corso con i palestinesi ed è
sempre più vincolata dai ricatti di "Casa Ebraica" di Bennet, l'uomo
dei coloni.
I corpi degli "infiltrati" sono venduti per strizzare l'occhio ad una
ampia maggioranza di israeliani preoccupati che la presenza degli
"stranieri" (e tra questi anche gli "arabi") possa modificare
irreversibilmente la natura ebraica della stato sionista. I corpi
dei "sudanesi" sono infine immolati per placare la rabbia dei cittadini
di HaTikva e Shapira, quartieri meridionali di Tel Aviv che in più
occasioni negli ultimi anni hanno dato vita a pogrom di stampo fascista.
E dove la politica ufficiale fallisce, le istituzioni sono assenti, lo
Stato si disinteressa dei territori periferici tranne poi ricordarsene
in campagna elettorale, la più infausta soluzione operata dai poteri
espressione della media-alta borghesia è sempre la stessa: alimentare la criminalizzazione del debole,
incanalare la frustrazione del sottoproletariato contro chi è ancora
più emarginato (e non di chi è causa della propria marginalizzazione),
contro chi è ancora più vittima e "dannato della terra". Chissà se
qualcuno a Tikva, a Shapira un giorno lo capirà.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento