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04/11/2013

Israele paga gli 'infiltrati' per andare via

Tel Aviv offrirà 5.000 dollari agli immigrati africani disposti a lasciare Israele di «propria volontà» e che prometteranno di non ritornarci più. È questa, in ordine di tempo, l'ultima proposta presentata dal ministero degli Interni al premier Netanyahu per risolvere la questione immigrazione.

Al momento la cifra pattuita, all'interno del programma (ironicamente) chiamato «ritorno volontario», è di 1.500 dollari per ciascuno migrante a cui si vanno ad aggiungere i costi del biglietto aereo per riportarlo nel suo Paese. L'aumento, nelle intenzioni dei ministeri degli Interni e del Tesoro, costituirebbe uno sprone per risolvere velocemente il "problema clandestini" nello Stato ebraico. Se realizzato non sarebbe però una novità. Pochi mesi fa, infatti, alcuni immigrati sudanesi ed eritrei avevano «accettato di ritornare a casa» in cambio di una cifra in denaro.

Il problema "infiltrati" (così una gran parte degli israeliani chiama i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati) è stato al centro di una riunione speciale convocata due settimane fa in seguito all'annullamento dell'emendamento alla legge per vietare le «infiltrazioni» disposto dalla Corte Suprema israeliana quasi due mesi fa.

Sebbene la proposta di aumentare il compenso per chi decide di lasciare Israele sia stata subito accolta favorevolmente da Netanyahu, tuttavia è in queste ore ancora oggetto di discussione nei ministeri dell'Interno e del Tesoro. Secondo i dati dell'Autorità dell'Immigrazione e Popolazione della Commissione sui lavoratori stranieri della Knesset, alla fine di settembre erano presenti in Israele 53.636 immigrati africani. Dall'inizio del 2013 solo 38 persone sono entrate illegalmente dal confine con l'Egitto.

Il centro di detenzione «aperto»

Ma il possibile aumento del compenso da 1.500 dollari a 5.000 non è l'unica strategia messa in campo dal governo per risolvere il problema immigrazione. Quando due settimane fa le organizzazioni dei diritti umani si sono rivolte al Consigliere giudiziario del governo, Yehuda Wainshtein, affinché venisse applicata la sentenza della Corte Suprema, la risposta che hanno ricevuto non è stata molto positiva.

Se da un lato, infatti, la vice consigliera di Wainshtein Dina Zilber ha ribadito che novanta giorni è il termine massimo per la liberazione dei detenuti e ha rassicurato le organizzazioni per i diritti umani che «il rilascio si svolgerà in modo continuato e graduale nelle prossime settimane», dall'altro ha osservato come l'intenzione del governo sia quella di trasferire in un centro di permanenza «aperto» (al momento non ancora completato) gli immigrati i cui casi non sono stati ancora esaminati. In pratica si tratta di trasferire1.800 persone (detenute attualmente senza aver compiuto alcun reato) nel centro di Sadot in pieno deserto.

Secondo il piano, gli immigrati potranno lasciare il campo la mattina ma dovranno far ritorno la sera dove sono stati allestiti 300 container. Non sono ancora chiari i costi e come il campo potrà trasformarsi in un «centro aperto». Così come non è stata fornita la data prevista per compiere i lavori di adeguamento all'impianto già esistente. L'unica cosa certa è che Tel Aviv ha investito finora 250 milioni di shekel per una struttura che dovrebbe "accogliere" 3.300 persone. Decisione, quella del campo aperto di Sadot, che ha scatenato le prime proteste. Il consiglio regionale di Ramat Negev è preoccupato dalle migliaia di migranti in giro di mattina in pieno deserto. Malcontento è stato espresso anche dai lavoratori del Servizio Prigioni che, oltre ad apparire scettici sull'utilità del provvedimento, hanno affermato di non aver esperienza con i «centri aperti».

Non ancora completato, il centro di Sadot diventerà una vera e propria cittadina carceraria al confine con l'Egitto. E pensare che il progetto iniziale prevedeva di detenere fino a 11.000 persone, facendo guadagnare a Sadot il (poco ambito) appellativo di carcere più grande al mondo.

Combattere gli «infiltrati»

L'aumento della cifra stanziata per "risolvere" il problema immigrati, il campo «aperto» di Sadot e la diminuzione del reato di clandestinità da tre anni a un anno e mezzo sono le tre principali strade seguite dal governo Netanyahu per aggirare l'annullamento all'emendamento sulla legge "anti-infiltramento" stabilito dalla Corte Suprema israeliana quasi due mesi fa. La modifica che l'estrema destra provò ad inserire permetteva allo stato di detenere per tre anni (ma in alcuni casi anche a tempo indefinito) i richiedenti asilo e gli immigrati. La Corte Suprema giustificò la sua decisione parlando di «rispetto per la dignità umana e la libertà». Netanyahu scelse subito di dare battaglia: «nell'ottemperare alla sentenza della Corte Suprema» - disse il premier israeliano stizzito - «intendo trovare insieme al Ministro degli Interni e al consigliere giudiziario del governo un modo che ci permetta di continuare la nostra politica ferrea che ha frenato l'infiltrazione e ha respinto migliaia di infiltrati». Ma l'ottemperanza della sentenza è stata solo a parole. Pochi giorni fa, infatti, le associazioni dei diritti dell'uomo hanno accusato il governo di non aver liberato gli immigranti come imponeva la Corte Suprema. Secondo i dati dell'Autorità dell'Immigrazione e Popolazione soltanto 33 richiedenti asilo venivano rilasciati a un mese dalla sentenza. Un numero irrisorio se si considera che nelle carceri israeliane sono rinchiusi 1.800 immigrati. La mancata applicazione della decisione giudiziaria non può costituire del tutto una sorpresa se si considera che lo stesso presidente della Corte Suprema, Asher Grunis, ha avuto un atteggiamento contraddittorio perché sebbene abbia bocciato l'emendamento si è contemporaneamente mostrato favorevole alla detenzione degli "infiltrati" per periodi più brevi.

Una lotta senza quartiere quella contro i lavoratori immigrati e i richiedenti asilo in cui la maggior parte della società israeliana è, in misura maggiore o minore, complice. I corpi dei "sudanesi" e dei "kushim" (negri in ebraico) sono sacrificati per mantenere compatta una coalizione governativa di estrema destra che da mesi si mostra profondamente divisa sul processo di pace in corso con i palestinesi ed è sempre più vincolata dai ricatti di "Casa Ebraica" di Bennet, l'uomo dei coloni.

I corpi degli "infiltrati" sono venduti per strizzare l'occhio ad una ampia maggioranza di israeliani preoccupati che la presenza degli "stranieri" (e tra questi anche gli "arabi") possa modificare irreversibilmente la natura ebraica della stato sionista. I corpi dei "sudanesi" sono infine immolati per placare la rabbia dei cittadini di HaTikva e Shapira, quartieri meridionali di Tel Aviv che in più occasioni negli ultimi anni hanno dato vita a pogrom di stampo fascista. E dove la politica ufficiale fallisce, le istituzioni sono assenti, lo Stato si disinteressa dei territori periferici tranne poi ricordarsene in campagna elettorale, la più infausta soluzione operata dai poteri espressione della media-alta borghesia è sempre la stessa: alimentare la criminalizzazione del debole, incanalare la frustrazione del sottoproletariato contro chi è ancora più emarginato (e non di chi è causa della propria marginalizzazione), contro chi è ancora più vittima e "dannato della terra". Chissà se qualcuno a Tikva, a Shapira un giorno lo capirà.

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