di Fabrizio Casari
La notizia che
tutte le persone dotate di buon senso attendevano da decadi è arrivata.
Gli Stati Uniti rivedono in forma e sostanza la loro politica verso
l’isola socialista. Sebbene non sarà facile l'abrogazione del blocco,
che potrà darsi solo con il voto del Congresso a maggioranza
repubblicana, i poteri presidenziali permetteranno all'Amministrazione
Obama di procedere verso la normalizzazione delle relazioni diplomatiche
con Cuba.
Da subito, insieme ad una serie di misure destinate a svuotare il
blocco, come primo significativo atto della nuova fase, Obama ha accolto
la proposta di Cuba di uno scambio tra Alan Gross, detenuto a L’Avana e
i tre cubani prigionieri negli Stati Uniti. Un gesto auspicato da
diverso tempo da Cuba e che rappresenta ora un importante inizio di
questa nuova fase delle relazioni tra i due paesi.
Fidel l’aveva promesso al suo popolo e così è stato. Volveran (torneranno)
era stata la parola che in questi anni aveva accompagnato ogni presa di
posizione in ogni parte del mondo che chiedeva il ritorno a Cuba dei
suoi eroi antiterroristi imprigionati negli Stati Uniti, giudicati da
processi farsa e condannati sulla base dell’odio politico degli USA
verso l’isola caraibica. E ora sono liberi e a casa, premio finale di
una politica che il governo cubano ha saputo costruire miscelando
dialogo e fermezza, decisionismo politico e aperture costanti.
Un atteggiamento che ha reso chiaro all’interlocutore statunitense
come il confronto era tra pari e che la soluzione del conflitto su tema
degli attacchi terroristici contro Cuba e il diritto di essa a
difendersi non avrebbe trovato altro terreno possibile che non vedesse
le parti trattare sulla base dell’eguaglianza, come si deve a due paesi
che reciprocamente riconoscono il loro diritto alla sicurezza.
A
simbolizzare l'accordo, persino nelle comunicazioni ai rispettivi popoli
c’è stata uguaglianza, visto il contemporaneo intervento del presidente
Usa e di quello cubano a commentare il nuovo cammino intrapreso. Dopo
aver entrambi ringraziato Papa Francesco e il governo del Canada per
l’opera di mediazione svolta, il Presidente Obama si è detto convinto
che “non si possa procedere per sempre con politiche identiche sperando
che diano risultati differenti”, riconoscendo quanto meno l'inutilità
delle misure adottate fino ad oggi. Affermando in spagnolo “tutti siamo
americani” (disarticolando così la Dottrina Monroe), e dicendosi
convinto che “dobbiamo imparare l’arte di convivere civilmente con le
nostre differenze”, il presidente USA ha chiamato il Congresso “a
rimuovere ostacoli ed impedimenti che restringano i vincoli tra i nostri
popoli” chiedendo così di approvare rapidamente la fine del blocco
contro Cuba.
Concetti simili quelli esposti dal Presidente cubano Raul Castro, che
in un discorso alla nazione ha affermato che “L’Avana è pronta a
stabilire livelli di cooperazione negli ambiti multilaterali come le
Nazioni Unite” e, pur ricordando come i due paesi abbiano “visioni
differenti sul tema dei diritti umani e politica estera, da parte di
Cuba c’è la volontà di dialogare con gli Usa su questi temi”.
Immediati
i complimenti per il cambio di politica da parte di Washington da parte
di Papa Francesco e del Segretario delle Nazioni Unite Bank Ki Moon,
così come da diversi leader latinoamericani, primo dei quali il
Presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, che ha affermato si debba
riconoscere al Presidente Obama “un gesto valoroso”.
La
liberazione di Alan Gross, il contrattista dell’USAID arrivato a Cuba
per contribuire alla costruzione di una rete clandestina sovversiva,
nell’ambito del progetto governativo statunitense di “attività per lo
sviluppo della democrazia a Cuba”, (cioè l’interferenza a scopo di
destabilizzazione del clima politico nell’isola), è stata da alcuni anni
la richiesta di Washington a L’Avana come viatico per l’apertura di un
processo che portasse gradualmente alla “normalizzazione delle
relazioni”.
Da
parte sua, Cuba - che nell’ambito dell’accordo ha deciso di liberare
altri 53 detenuti per sovversione ed una spia statunitense di origine
cubana - aveva sempre proposto lo scambio del detenuto statunitense con i
tre eroi cubani prigionieri con un duplice obiettivo: il primo,
ovviamente, era quello di riportare a casa uomini che a buon diritto e
senza nessuna retorica è possibile chiamare eroi.
Seppelliti sotto pene detentive pazzesche, in nessun momento hanno
accettato di sottomettersi alle esigenze politiche statunitensi fornendo
versioni che avrebbero potuto risparmiargli la detenzione. Hanno
continuato a subire ogni privazione ed ogni affronto ma gridando al
mondo la verità della loro missione: infiltrarsi nella rete
terroristico-mafiosa della FNCA e smascherare i loro piani terroristici
contro l’isola.
La liberazione di due di essi era già arrivata
nei mesi scorsi per lo scadere delle loro condanne, mentre tre
rimanevano ancora prigionieri. Contro l’assurdità delle condanne e per
la loro liberazione, in ogni dove del mondo si sono pronunciati
parlamenti e singole personalità politiche, intellettuali, artisti,
uomini e donne di ogni categoria e professione, giuristi ed organi di
stampa. Ed è evidente come questa campagna internazionale abbia ottenuto
l’effetto di rendere ogni giorno più difficile mantenerli prigionieri
e, dunque, ogni giorno più possibile avviare un dialogo che prevedesse
la loro liberazione.
Il secondo obbiettivo cubano era invece
tutto politico: mettere sulla bilancia la liberazione di Alan Gross e
quella dei tre prigionieri cubani significava chiarire al mondo che chi
da Miami combatteva le infiltrazioni terroristiche contro Cuba aveva ben
ragione di farlo, dato che dette operazioni venivano realizzate anche
dalle agenzie statali USA, nell’ambito del progetto di sovvertire
l’ordine sociopolitico cubano.
Mettere sullo stesso piano Gross e
i tre cubani significava costringere gli Stati Uniti ad ammettere che
Gross era a Cuba per conto del governo USA, così come Renè Gonzalez,
Gerardo Hernandez, Fernando Gonzalez, Antonio Guerrero e Ramon Labanino
erano negli Usa per conto di Cuba. Tutti avevano una missione da
compiere
Assai diverse tra loro, però. I cinque lavoravano per fermare gli
attentati che in 55 anni sono costati all’isola centinaia di morti e
feriti e miliardi di dollari di danni, mentre Gross era a Cuba come
soggetto attivo nelle più recenti operazioni di destabilizzazione contro
l’isola, realizzate tramite la manipolazione della Rete internet, il
sostegno ai cosiddetti “dissidenti”, le attività spionistiche realizzate
dalle ONG fintamente indipendenti. Operazioni che si sommavano al
blocco economico e commerciale, all’aggressione diplomatica e alla
propaganda anticubana, formando i tanti - non tutti - tasselli del
puzzle che disegna l’ostilità degli USA verso Cuba.
Da parte
cubana si registra una inevitabile soddisfazione per l’esito auspicato
in questi anni. Non si tratta, peraltro, solo del riconoscimento
implicito da parte degli USA del diritto di Cuba a difendersi ed
ottenere comunque un risultato politico indiscutibile nel tenere allo
stesso tavolo, con pari dignità, Davide e Golia, ma anche di vedere ora,
in una prospettiva politica di breve termine, la fine di una ostilità
ed un odio anacronistico che può aprire per entrambi i paesi un cammino
diverso.
Per
Cuba la normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti rappresenta
di per sé un ulteriore conferma di come 55 anni di resistenza non sono
stati vani; le aperture già determinatesi con l’evoluzione del
socialismo cubano troveranno ulteriore rafforzamento da questo
passaggio. Il cui significato sarà, fino a quando non si accompagnerà
alla fine formale del blocco economico, soprattutto politico, ma il cui
valore simbolico rappresenta la fine di un’era e l’inizio di un nuovo
corso della storia.
Per gli Stati Uniti, il riconoscimento
dell’interlocuzione politica con Cuba, sollecitato dai suoi mass media
più prestigiosi, apre uno scenario interno inedito, giacché riporta per
la prima volta in 50 anni la titolarità della politica verso Cuba nelle
mani della Casa Bianca. I repubblicani daranno battaglia affinché il
Congresso non approvi la fine del blocco contro Cuba, e d'altra parte
ciò dal punto di vista dei loro interessi è comprensibile. Non solo uno
dei capisaldi della loro politica viene messo in crisi, e per di più con
Congresso e Senato nelle loro mani, ma la Casa Bianca pone il partito
repubblicano in totale isolamento nei confronti dell'opinione pubblica
interna ed internazionale.
Inoltre, l'iniziativa di Obama riduce enormemente, in un colpo solo,
l’influenza della lobby affaristico-mafiosa diretta dalla FNCA in
Florida e mette i parlamentari eletti grazie ai suoi voti in una
posizione secondaria. Assesta un ulteriore colpo all’area più
reazionaria e recalcitrante del partito repubblicano e pone la Florida,
uno degli stati-chiave per l’elezione del Presidente, di fronte ad uno
scenario che vedrà ripercussioni enormi sul piano dell’equilibrio dei
poteri locali quando le leggi anticubane e l’intero blocco dovessero
cessare di esistere.
Basti pensare a cosa sarebbe dei colossali affari che la FNCA realizza con l’immigrazione clandestina il giorno che la Ley del pie mojado
(“legge del piede bagnato”, con la quale si stabilisce che ogni cubano
che arrivi a toccare il territorio americano sia immediatamente
residente, mentre di ogni altra nazionalità viene arrestato). Sul
traffico di clandestini tra Cuba e Usa la FNCA ha costruito una parte
consistente delle sue fortune, con le quali ha continuato a finanziare
la sua corte di terroristi anticubani.
Non è un caso che il
Senatore Marco Rubio, che rappresenta il volto nuovo della lobby
parlamentare anticubana diretta dalla FNCA di Miami, abbia dichiarato
immediatamente che “lo scambio rappresenta un precedente pericoloso che
mette a rischio gli statunitensi nel mondo”, che la visione di Obama è
“ingenua e ignorante e tradisce i valori statunitensi” e la sua
ventriloqua, Yoani Sanchez, abbia commentato che “il castrismo ha
vinto”. Per lei, come per i suoi compari nell’isola, il vento sarà
indubbiamente diverso: la normalizzazione delle relazioni non potrà non
determinare la fine degli stanziamenti verso la sovversione, o comunque
una sua significativa riduzione.
Per l’analfabeta politica che gli Usa avevano scelto come bandiera
della democrazia, si apre una fase diversa, dove i milioni di dollari
accumulati avranno bisogno di oculatezza negli investimenti, visto il
futuro che si prospetta meno generoso. Nel momento in cui Washington
dovesse ritenere superflua la sua esistenza, non basterebbero certo gli
Aznar o i Vaclav Havel a garantirle le ricchezze ricevute in cambio
delle sue menzogne strampalate diffuse in tutto il mondo con l’aurea di
verità indiscutibili.
Sotto
il profilo della politica interna USA, poi, c’è da sottolineare come il
processo di normalizzazione delle relazioni con Cuba sia sempre stato
un proposito di Hillary Clinton e che lo stesso Obama, all’inizio del
suo mandato, sei anni orsono, aveva ritenuto dover mettere in agenda.
Il compito di rivedere la presenza di Cuba nella lista dei paesi che
patrocinano il terrorismo spetterà a John Kerry, che in passato - va
ricordato - fu uno dei senatori che denunciarono il loro scetticismo sui
finanziamenti statunitensi alla “dissidenza”, arrivando a dubitare
fortemente non solo dell’efficacia ma soprattutto della gestione poco
trasparente di quei finanziamenti.
Obama ha quindi deciso di
assecondare le pressioni che imprese, media e cittadini statunitensi
hanno diffuso da ormai molti anni, liberando la Casa Bianca dalla morsa
ricattatoria della comunità cubano americana, che dalla Baia dei Porci
ad oggi ha rappresentato il più emblematico caso di esercizio lobbistico
dannoso per il paese e, cosa altrettanto importante, sul piano
dell’immagine sceglie di chiudere uno dei buchi neri storici della
politica estera USA.
Evidentemente liberatosi dalla cautela, vista la fase finale del suo
ultimo mandato, Barak Obama ha deciso di dare un segnale forte alla sua
amministrazione, di passare in qualche modo alla storia come il
presidente che mise fine ad una posizione politica ridicola e condannata
dal mondo intero, abbattendo così l'ultimo pezzo d'intonaco del muro
ereditato dalla guerra fredda. E, così facendo, guadagnandosi almeno una
parte di quel Nobel per la pace prematuramente offertogli all’inizio
del suo primo mandato.
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