di Michele Paris
I preparativi
per un nuovo intervento militare dell’Occidente in Libia, dopo le
conseguenze disastrose dell’operazione di cambio di regime progettata e
portata termine nel 2011, sembrano continuare senza sosta nonostante le
difficoltà del cosiddetto “processo di pace” promosso dalle Nazioni
Unite. Le operazioni nel paese nordafricano dovrebbero infatti iniziare
solo dopo l’insediamento del governo di “unità nazionale”, nato con
l’appoggio della comunità internazionale ma che fatica a raccogliere il
consenso delle due entità che controllano la Libia e le milizie su cui
esse poggiano il loro potere.
Il nuovo governo, o Consiglio
Presidenziale, è stato creato a tavolino dai governi occidentali lo
scorso dicembre ed è guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj. I suoi
membri sono giunti a Tripoli via mare dalla Tunisia settimana scorsa e
hanno potuto installarsi nella capitale solo grazie al seguito di una
massiccia scorta armata.
Come ha scritto lunedì la Reuters,
il governo sostenuto dall’ONU ha subito cercato di “imporre la propria
autorità ordinando il congelamento dei budget dei ministeri” e,
soprattutto, assicurandosi la protezione di “una potente milizia
armata”. Lo stesso governo aveva ottenuto anche l’appoggio formale
dell’Autorità libica per gli Investimenti, della Corporazione Nazionale
per il Petrolio e della Banca Centrale.
In segno di sostegno alla
nuova compagine, martedì il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc
Ayrault, ha fatto sapere che Parigi intende riaprire la propria
rappresentanza diplomatica a Tripoli. Sempre martedì, l’inviato speciale
dell’ONU per la Libia, Martin Kobler, ha incontrato a Tripoli i membri
del Consiglio Presidenziale, dopo che solo alcune settimane fa gli era
stato impedito di recarsi nel paese.
Se poi al momento “non si
registrano reazioni violente da parte delle altre milizie”, la sorte del
governo non appare comunque rosea. Il governo filo-occidentale che
opera da Tobruk, nella parte orientale del paese, ha ad esempio detto di
opporsi all’assunzione dei pieni poteri da parte del gabinetto di
“unità nazionale” prima di un voto formale del proprio parlamento, come
peraltro previsto dall’accordo mediato dalle Nazioni Unite.
Nel
caso, però, il governo di Sarraj dovesse stabilire rapporti troppo
stretti con le milizie attive a Tripoli e nella Libia occidentale,
verrebbe visto da Tobruk come uno strumento di queste ultime, tanto da
far saltare l’intero accordo voluto dall’ONU.
La situazione
confusa e la fragilità del nuovo governo da poco giunto in Libia
riflettono le manovre e gli interessi dei paesi che in Occidente lo
hanno voluto. Questo organismo, finora senza praticamente alcun potere,
ha cioè come unico scopo quello di ottenere almeno una parvenza di
legittimità così da richiedere in maniera formale l’assistenza militare
della NATO, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico
(ISIS) e gli altri gruppi fondamentalisti che operano in Libia.
In
altre parole, di fronte alla disgregazione di questo paese, dovuta
precisamente al precedente intervento del 2011, i governi e le compagnie
occidentali ritengono che i propri interessi in Libia possano essere
difesi solo con una nuova presenza militare. Per fare ciò è
indispensabile passare attraverso un processo apparentemente legale e
motivato dalla necessità di garantire la sicurezza e la stabilità del
paese.
Le
milizie fondamentaliste che forniscono oggi la giustificazione – almeno
a livello ufficiale – per un nuovo intervento militare esterno in Libia
sono nate da quegli stessi gruppi sostenuti dai paesi NATO nel 2011 per
abbattere il regime di Gheddafi e che, dopo avere contribuito con
migliaia di combattenti alla guerra in Siria contro le forze di Assad,
hanno rivolto in varie occasioni le armi verso i loro (ex) benefattori
occidentali.
I preparativi per la guerra sono stati annunciati
dal presidente americano Obama dopo un incontro avvenuto lunedì alla
Casa Bianca con il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg.
Obama ha detto di essere certo che gli USA e i loro alleati possano
“fornire un aiuto enorme per stabilizzare” la Libia, mentre Stoltenberg
ha assicurato che la NATO “è pronta ad appoggiare il nuovo governo” di
Tripoli.
Sempre lunedì, poi, il Washington Post ha
spiegato come il Comando militare Africano degli Stati Uniti (AFRICOM)
stia studiando “decine di obiettivi in Libia” che potrebbero essere
colpiti dagli aerei da guerra americani ed europei, dalla città costiera
di Sirte a Derna, entrambe roccaforti di gruppi estremisti e già
colpite da aerei USA lo scorso autunno.
Il Pentagono, inoltre,
“sta cercando di rafforzare il coordinamento tra le Forze Speciali
americane e le loro controparti francesi e britanniche, le quali hanno
stabilito piccole cellule sul campo” in Libia per mettere assieme
“milizie amiche in grado di affrontare i combattenti estremisti”.
In
questo contesto, sarebbe l’Italia a dover giocare un ruolo di primo
piano, possibilmente con l’invio di un massimo di seimila uomini da
impiegare sul territorio della ex colonia, anche se, aggiunge il Post,
al momento non vi è ancora nessun impegno militare concreto né da parte
americana né tra i paesi europei.
Se la propaganda di governi e
parecchi media occidentali a favore di un nuovo intervento “umanitario”
in Libia è creduta ormai da pochi, anche l’efficacia di un’eventuale
invasione per stabilizzare il paese che fu di Gheddafi è in fortissimo
dubbio. A conferma di ciò vi è, tra l’altro, la contrarietà o, quanto
meno lo scetticismo, verso l’intervento NATO dei paesi vicini – Algeria,
Egitto, Tunisia – teoricamente i più interessati a un miglioramento
della situazione in Libia attraverso la presenza di soldati occidentali e
una nuova campagna di bombardamenti aerei.
L’esempio del 2011 è d’altra parte ben impresso nella memoria di quanti
hanno fatto le spese del disastroso intervento “umanitario” occidentale
in Libia dopo la pianificazione della “rivoluzione” popolare
anti-Gheddafi. Svariati analisti, infine, mettono in guardia dalla
strategia preparata in Occidente e basata sulla creazione di legami e
collaborazioni con determinate milizie armate, visto che rischierebbe di
aggravare le divisioni interne al paese e alimentare ulteriori
violenze.
Stati Uniti ed Europa, peraltro, vedono come una possibile soluzione al
caos proprio la frammentazione della Libia, come ha spiegato il già
ricordato articolo del Washington Post, da suddividere “in una
rete di forze regionali o tribali” appoggiate da un governo centrale che
eserciti un minimo di controllo sull’intero paese e che, soprattutto,
un certo controllo sulle proprie risorse energetiche lo assicuri ai suoi
sponsor occidentali.
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