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06/04/2016

Libia: la seconda guerra della NATO

di Michele Paris

I preparativi per un nuovo intervento militare dell’Occidente in Libia, dopo le conseguenze disastrose dell’operazione di cambio di regime progettata e portata termine nel 2011, sembrano continuare senza sosta nonostante le difficoltà del cosiddetto “processo di pace” promosso dalle Nazioni Unite. Le operazioni nel paese nordafricano dovrebbero infatti iniziare solo dopo l’insediamento del governo di “unità nazionale”, nato con l’appoggio della comunità internazionale ma che fatica a raccogliere il consenso delle due entità che controllano la Libia e le milizie su cui esse poggiano il loro potere.

Il nuovo governo, o Consiglio Presidenziale, è stato creato a tavolino dai governi occidentali lo scorso dicembre ed è guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj. I suoi membri sono giunti a Tripoli via mare dalla Tunisia settimana scorsa e hanno potuto installarsi nella capitale solo grazie al seguito di una massiccia scorta armata.

Come ha scritto lunedì la Reuters, il governo sostenuto dall’ONU ha subito cercato di “imporre la propria autorità ordinando il congelamento dei budget dei ministeri” e, soprattutto, assicurandosi la protezione di “una potente milizia armata”. Lo stesso governo aveva ottenuto anche l’appoggio formale dell’Autorità libica per gli Investimenti, della Corporazione Nazionale per il Petrolio e della Banca Centrale.

In segno di sostegno alla nuova compagine, martedì il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha fatto sapere che Parigi intende riaprire la propria rappresentanza diplomatica a Tripoli. Sempre martedì, l’inviato speciale dell’ONU per la Libia, Martin Kobler, ha incontrato a Tripoli i membri del Consiglio Presidenziale, dopo che solo alcune settimane fa gli era stato impedito di recarsi nel paese.

Se poi al momento “non si registrano reazioni violente da parte delle altre milizie”, la sorte del governo non appare comunque rosea. Il governo filo-occidentale che opera da Tobruk, nella parte orientale del paese, ha ad esempio detto di opporsi all’assunzione dei pieni poteri da parte del gabinetto di “unità nazionale” prima di un voto formale del proprio parlamento, come peraltro previsto dall’accordo mediato dalle Nazioni Unite.

Nel caso, però, il governo di Sarraj dovesse stabilire rapporti troppo stretti con le milizie attive a Tripoli e nella Libia occidentale, verrebbe visto da Tobruk come uno strumento di queste ultime, tanto da far saltare l’intero accordo voluto dall’ONU.

La situazione confusa e la fragilità del nuovo governo da poco giunto in Libia riflettono le manovre e gli interessi dei paesi che in Occidente lo hanno voluto. Questo organismo, finora senza praticamente alcun potere, ha cioè come unico scopo quello di ottenere almeno una parvenza di legittimità così da richiedere in maniera formale l’assistenza militare della NATO, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) e gli altri gruppi fondamentalisti che operano in Libia.

In altre parole, di fronte alla disgregazione di questo paese, dovuta precisamente al precedente intervento del 2011, i governi e le compagnie occidentali ritengono che i propri interessi in Libia possano essere difesi solo con una nuova presenza militare. Per fare ciò è indispensabile passare attraverso un processo apparentemente legale e motivato dalla necessità di garantire la sicurezza e la stabilità del paese.

Le milizie fondamentaliste che forniscono oggi la giustificazione – almeno a livello ufficiale – per un nuovo intervento militare esterno in Libia sono nate da quegli stessi gruppi sostenuti dai paesi NATO nel 2011 per abbattere il regime di Gheddafi e che, dopo avere contribuito con migliaia di combattenti alla guerra in Siria contro le forze di Assad, hanno rivolto in varie occasioni le armi verso i loro (ex) benefattori occidentali.

I preparativi per la guerra sono stati annunciati dal presidente americano Obama dopo un incontro avvenuto lunedì alla Casa Bianca con il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. Obama ha detto di essere certo che gli USA e i loro alleati possano “fornire un aiuto enorme per stabilizzare” la Libia, mentre Stoltenberg ha assicurato che la NATO “è pronta ad appoggiare il nuovo governo” di Tripoli.

Sempre lunedì, poi, il Washington Post ha spiegato come il Comando militare Africano degli Stati Uniti (AFRICOM) stia studiando “decine di obiettivi in Libia” che potrebbero essere colpiti dagli aerei da guerra americani ed europei, dalla città costiera di Sirte a Derna, entrambe roccaforti di gruppi estremisti e già colpite da aerei USA lo scorso autunno.

Il Pentagono, inoltre, “sta cercando di rafforzare il coordinamento tra le Forze Speciali americane e le loro controparti francesi e britanniche, le quali hanno stabilito piccole cellule sul campo” in Libia per mettere assieme “milizie amiche in grado di affrontare i combattenti estremisti”.

In questo contesto, sarebbe l’Italia a dover giocare un ruolo di primo piano, possibilmente con l’invio di un massimo di seimila uomini da impiegare sul territorio della ex colonia, anche se, aggiunge il Post, al momento non vi è ancora nessun impegno militare concreto né da parte americana né tra i paesi europei.

Se la propaganda di governi e parecchi media occidentali a favore di un nuovo intervento “umanitario” in Libia è creduta ormai da pochi, anche l’efficacia di un’eventuale invasione per stabilizzare il paese che fu di Gheddafi è in fortissimo dubbio. A conferma di ciò vi è, tra l’altro, la contrarietà o, quanto meno lo scetticismo, verso l’intervento NATO dei paesi vicini – Algeria, Egitto, Tunisia – teoricamente i più interessati a un miglioramento della situazione in Libia attraverso la presenza di soldati occidentali e una nuova campagna di bombardamenti aerei.

L’esempio del 2011 è d’altra parte ben impresso nella memoria di quanti hanno fatto le spese del disastroso intervento “umanitario” occidentale in Libia dopo la pianificazione della “rivoluzione” popolare anti-Gheddafi. Svariati analisti, infine, mettono in guardia dalla strategia preparata in Occidente e basata sulla creazione di legami e collaborazioni con determinate milizie armate, visto che rischierebbe di aggravare le divisioni interne al paese e alimentare ulteriori violenze.

Stati Uniti ed Europa, peraltro, vedono come una possibile soluzione al caos proprio la frammentazione della Libia, come ha spiegato il già ricordato articolo del Washington Post, da suddividere “in una rete di forze regionali o tribali” appoggiate da un governo centrale che eserciti un minimo di controllo sull’intero paese e che, soprattutto, un certo controllo sulle proprie risorse energetiche lo assicuri ai suoi sponsor occidentali.

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