Ogni fenomeno storico ha una fisionomia
caratteristica propria ed irripetibile, per cui, anche se rientra in una
determinata categoria di fenomeni (ad esempio “Rivoluzioni socialiste”,
“Regimi totalitari”, “Movimenti liberali”, “crisi economiche”) non è
mai la riproduzione di quanto l’ha preceduto e presenta un grado di
maggiore o minore complessità.
Parlando dell’attuale ondata di protesta,
molti esponenti delle classi dirigenti, accompagnati dai media, la
definiscono “populista”, mettendo nel sacco cose molto diverse fra loro:
si va dalle rivolte arabe, alle nuove formazioni elettorali di centro
destra del Nord Europa, da proteste di strada come Occupy Ws o gli
Indignados agli scioperi nel sud della Cina, dal successo elettorale del
M5s a quello attuale di Trump. Dunque cose di segno ideologico diverso e
con forme espressive e di azione dissimili fra loro che solo con
notevole pressappochismo possono essere catalogate come “populiste” (in
casi come quello cinese siamo di fronte a classici fenomeni di
rivendicazioni salariali, mentre le rivolte arabe hanno una complessità
notevole, mescolando classiche rivolte per il pane con movimenti che
reclamano maggiori libertà politiche ed altri inquadrabili nella
corrente islamista).
Il fatto è che le classi dirigenti definiscono “populista” qualsiasi accenno di disobbedienza agli assetti di potere stabiliti.
La filosofia è: “non disturbare il manovratore”. Come in ogni altro
caso di rivolta sociale, anche in questo la protesta parte da quello che
le classi popolari percepiscono come “il tradimento delle èlites”.
Qualsiasi sistema sociale si regge su un tacito patto fra governati e
governanti: i primi accettano che i secondi abbiano una serie di
privilegi e di eseguire le loro prescrizioni a condizione che i
privilegi non siano eccessivi e sfacciati e che ci sia un accettabile
livello di vita per tutti. Quando si determina una congiuntura per cui
le diseguaglianze sociali diventano intollerabili e le condizioni di
vita dei ceti bassi crollano per effetto di una guerra o di una crisi
economica, parte la crisi di legittimazione del sistema. Ed è
precisamente quello che sta accadendo in questo momento, dopo quasi un decennio di crisi ed in presenza di diseguaglianze senza precedenti.
Poi, naturalmente, ogni contesto fa
storia a sé e le forme della protesta variano da caso a caso, dove più
intense, dove più contenute, dove più violente e dove più legalitarie,
dove più improvvise e dove più graduali, dove più radicali e dove più
moderate. Nelle caratteristiche di ciascuna situazione locale incidono
tanto le particolari condizioni ambientali del momento quanto le
premesse che la hanno preparata, magari in qualche decennio.
Concentrando l’attenzione sugli attuali movimenti “populisti” in Europa ed Usa, costatiamo che essi:
- hanno prevalente caratterizzazione elettorale (con fiammate di movimenti di piazza, in genere contenute in comportamenti legalitari);
- hanno più spesso una caratterizzazione di destra
(a parte Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, che sono prevalentemente
di sinistra ed il caso del M5s in Italia, che fa storia a sé);
- mostrano (come è tipico di ogni populismo) una preoccupante carenza di cultura politica
che spesso include elementi di cultura politica della classe dominante,
quel che produce spesso forti oscillazioni nelle posizioni politiche;
- pur essendo in gran parte movimenti di natura elettorale, sono spesso caratterizzati da un accentuato antiparlamentarismo;
- quasi mai si pongono come alternativa
di sistema: non avendo gli strumenti culturali necessari a progettare un
diverso sistema sociale, politico ed economico, si limitano ad avanzare richieste compatibili con il sistema esistente
o lanciano obiettivi molto radicali che, però, non saprebbero come
realizzare, e concentrano la loro attenzione su singole personalità o
istituzioni (le banche) estrapolate dal loro contesto generale il tutto
con occasionali sfoghi verbali;
- come ogni populismo, propendono per soluzioni semplicistiche e di immediata resa propagandistica e rifiutano di confrontarsi con la complessità dei problemi in atto;
- mostrano una accentuata repulsione ad ogni dibattito politico
tanto dentro il movimento quanto al di fuori con altro soggetti
politici, magari neppure distanti politicamente. I dibattiti interni
sono vissuti come forieri di divisioni e scissioni; il confronto con
altri soggetti politici, come minaccia alla propria identità o trappola
dialettica e, comunque, come inutili;
- come sempre, sono movimenti che inclinano ad un atteggiamento sostanzialmente integralista che aborrono qualsiasi ipotesi di alleanza come snaturante;
- come è tipico di ogni populismo, esprimono un’ accentuata avversione ad ogni modello di organizzazione razionale, preferendo caratterizzarsi come movimenti poco formalizzati e tenuti insieme da una qualche leadership carismatica.
Questi sommari tratti sono abbastanza
comuni a ciascuno dei casi elencati, pur se con frequenti eccezioni su
questo o quel punto. Ovviamente, tutto questo ha un prima derivazione
nei processi socio culturali che hanno preparato il terreno.
L’accentuato carattere “antipolitico” (e
conseguentemente anti parlamentare) trova una delle sue cause nella
trentennale propaganda neo liberista che ha idealizzato il mercato come
meccanismo perfetto che non deve essere disturbato dalla politica che ha
il solo compito di proteggerlo da offensive esterne. Tutto questo,
nella mente della “signora Maria di Voghera” si è tradotto nella
convinzione che la politica sia sempre e solo una attività parassitaria e
la sua pretesa complessità sono solo gli alibi di un branco di
profittatori, mentre i problemi possono essere risolti con semplicità ed
onestà (unica dote richiesta al politico).
In questo, un ruolo rilevantissimo lo ha
giocato la tv commerciale, alla famelica ricerca di ascolti da tradurre
in introiti pubblicitari, che, identificando casalinghe e pensionati,
cioè gli strati meno colti della società come la fascia più consistente
dell’ascolto televisivo, ha adeguato al loro livello le trasmissioni, in
massima parte pensate come puro intrattenimento fra uno spot e l’altro
(si pensi al regresso culturale determinato dalle telenovelas).
A questo si è accompagnata l’intensa propaganda sulla fine dell’ideologia,
come strumento non necessario ed anzi dannoso, ai fini della formazione
delle decisioni politiche che, appunto, dovrebbero essere il frutto di
mere valutazioni di buon senso, lontane da ogni fumisteria
filosofeggiante non a caso, una delle forme più esplicite ed organiche
di populismo è stata il qualunquismo italiano degli anni quaranta.
Ciò ha occultato la natura altamente ideologica di questa operazione
che, di fatto, ha realizzato l’obiettivo di affermare l’ideologia neo
liberista come unica “corretta”. Ma senza ideologie non c’è cultura
politica e se non c’è cultura politica “altra” anche l’unica rimasta in
campo deperisce e muore, per assoluta mancanza di idee. Di qui
l’assorbimento di una parte dei contenuti neo liberisti da parte delle
classi meno colte e la conseguente incapacità dei movimenti populisti
(che si basano essenzialmente su quella base sociale) di porsi come
alternativa di sistema.
Anche il rifiuto dell’organizzazione
razionale (partiti e Parlamento sono visti come strumenti propri
dell’odiata casta che se ne pasce) è un prodotto di questo che, più che
cultura politica, sarebbe corretto chiamare “cultura impolitica”, o, più
semplicemente, “atteggiamento mentale da regressione”.
Quello che si è reso manifesto nella
reazione paranoica contro gli immigrati visti come “quelli che vengono a
rubarci il lavoro”, a “depredare le nostre risorse per fare vita
d’albergo a spese dello Stato”, quando non sono veri e propri terroristi
pronti a sgozzarci. E questo spiega la curvatura di destra della
maggioranza dei movimenti populisti in particolare in Europa.
Determinante nella formazione del sostrato preparatorio di questa ondata di populismo è stato il processo di “banalizzazione della cultura”:
lo scadimento di gran parte della letteratura a puro intrattenimento,
l’inaridirsi della cultura storica sempre meno capace di spiegare il
presente per la sostanziale viltà del ceto accademico che scansa temi
troppo scomodi, il decadere del giornalismo sempre più di sensazione e
di colore e sempre meno di inchiesta, la riduzione della sociologia a
formato da salotto televisivo, fatta di sgargianti metafore, ma priva di
contenuti reali. Anche questo è stato il brodo di coltura dell’attuale
situazione.
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