di Michele Giorgio – Il Manifesto
Il colpo basso dell’Iran ha fatto molto male ai rivali sauditi.
Dal vertice dell’altro giorno a Doha l’Arabia Saudita voleva un taglio
alla produzione del petrolio per spingere verso l’alto il prezzo
dell'(ex) oro nero, precipitato nei mesi scorsi al punto più basso da
molti anni a questa parte. L’Iran, uno dei principali produttori
mondiali, però ha annunciato, nell’imminenza dell’incontro, che non
avrebbe preso parte al summit e, soprattutto, che non ridurrà la sua
produzione, proprio ora che, cessato l’embargo internazionale, può
tornare ad esportare la sua intera quota. Fallito il vertice i
sauditi sono stati costretti ad ammettere che, in mancanza di un
accordo con il rivale Iran, la riduzione della produzione risulterebbe
impossibile. Le conseguenze sul mercato sono state immediate.
Il prezzo del greggio è sceso intorno ai 40 dollari al barile dopo il
rialzo registrato nelle ultime settimane. Gli esperti tuttavia escludono
che possa precipitare di nuovo sotto i 30 dollari alla luce del calo
della produzione americana.
Riyadh per quasi due anni si era opposta al taglio della produzione,
sostenendo che così facendo avrebbe perduto quote di mercato. I Paesi
importatori, spiegava, con tanta abbondanza di greggio in giro non
avrebbero fatto fatica a trovare da un’altra parte petrolio a buon
mercato. Ma i sauditi avevano anche un obiettivo politico. Forti
delle loro enormi riserve in dollari, ritenevano di poter reggere, a
differenza dell’Iran, l’urto del calo degli introiti. Una strategia ben
chiara, che per qualche tempo ha strangolato Tehran (e una serie di
Paesi dipendenti dalla vendita petrolio, Venezuela in testa).
Ha cambiato tutto l’accordo sul nucleare della scorsa estate tra
Occidente e Iran, seguito dalla fine delle sanzioni internazionali.
Tehran quindi ha reso pan per focaccia ai sauditi che nel frattempo
hanno fatto male i loro conti. La politica interventista di re Salman ha
aperto una voragine nelle riserve di valuta della petromonarchia.
Riyadh impegnata in una dispendiosa (e sanguinosa) offensiva militare in
Yemen contro i ribelli Houthi, coinvolta nella guerra civile siriana a
sostegno degli islamisti armati che combattono contro Damasco, pronta a
investire decine di miliardi di dollari per comprare la politica estera
di alcuni Paesi, Egitto in testa, ha visto svuotarsi le sue casse. E ora
che ha bisogno della risalita del prezzo del greggio per colmare il
deficit deve fare i conti con la ritorsione iraniana.
Così se per l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie il
summit di Doha è stato un fallimento, l’Iran al contrario si considera
il vincitore di questa partita. «Il fatto che il nostro Paese –
scriveva ieri il quotidiano Khorasan – abbia respinto tutte le
pressioni dell’Arabia Saudita e di altri paesi come la Russia,
dimostrando di non avere nessuna paura per il futuro del prezzo del
petrolio e di voler perseguire i suoi obiettivi a lunga scadenza, è
stato un grande successo». Secondo Khorasan, le responsabilità sono
tutte di Riyadh e dei suoi «cambi di atteggiamento» mentre l’Iran ha
sempre detto di voler recuperare la fetta di mercato che aveva prima
dell’embargo. Tehran ora si trova in una posizione di forza poiché è
riuscita a diminuire la propria dipendenza dalle esportazioni
petrolifere e allo stesso tempo la sua l’economia ha retto all’impatto
del calo del prezzo del greggio.
Deve essere forte la rabbia di re Salman per come sono andate le cose a Doha.
E ieri la Giordania, con l’obiettivo evidente di compiacere l’alleata
Riyadh, con mesi di ritardo rispetto ad altri Paesi arabi, ha deciso di
richiamare l’ambasciatore a Tehran in segno di protesta contro presunte
interferenze iraniane negli affari interni arabi. Adesso la
monarchia saudita si aspetta gesti importanti anche da parte dell’odiato
presidente americano Obama che a metà settimana sarà a Riyadh per
ricucire le relazioni tra i due Paesi prima della fine del suo mandato.
Re Salman vuole diverse cose dagli Usa, tra queste lo stop al progetto
di legge in discussione al Congresso che permetterebbe alle famiglie
delle vittime dell’11 settembre di portare in giudizio l’Arabia Saudita,
Paese dal quale provenivano quasi tutti i qaedisti protagonisti
quindici anni fa dell’attacco alle Torri Gemelle e ad altri obiettivi in
terra americana. Riyadh, in caso contrario, minaccia di liberarsi di
obbligazioni e titoli di stato americani e di altri beni per un valore
complessivo di 750 miliardi di dollari.
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