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19/04/2016

Petrolio, la vendetta fredda dell'Iran

di Michele Giorgio – Il Manifesto

Il colpo basso dell’Iran ha fatto molto male ai rivali sauditi. Dal vertice dell’altro giorno a Doha l’Arabia Saudita voleva un taglio alla produzione del petrolio per spingere verso l’alto il prezzo dell'(ex) oro nero, precipitato nei mesi scorsi al punto più basso da molti anni a questa parte. L’Iran, uno dei principali produttori mondiali, però ha annunciato, nell’imminenza dell’incontro, che non avrebbe preso parte al summit e, soprattutto, che non ridurrà la sua produzione, proprio ora che, cessato l’embargo internazionale, può tornare ad esportare la sua intera quota. Fallito il vertice i sauditi sono stati costretti ad ammettere che, in mancanza di un accordo con il rivale Iran, la riduzione della produzione risulterebbe impossibile. Le conseguenze sul mercato sono state immediate. Il prezzo del greggio è sceso intorno ai 40 dollari al barile dopo il rialzo registrato nelle ultime settimane. Gli esperti tuttavia escludono che possa precipitare di nuovo sotto i 30 dollari alla luce del calo della produzione americana.

Riyadh per quasi due anni si era opposta al taglio della produzione, sostenendo che così facendo avrebbe perduto quote di mercato. I Paesi importatori, spiegava, con tanta abbondanza di greggio in giro non avrebbero fatto fatica a trovare da un’altra parte petrolio a buon mercato. Ma i sauditi avevano anche un obiettivo politico. Forti delle loro enormi riserve in dollari, ritenevano di poter reggere, a differenza dell’Iran, l’urto del calo degli introiti. Una strategia ben chiara, che per qualche tempo ha strangolato Tehran (e una serie di Paesi dipendenti dalla vendita petrolio, Venezuela in testa). Ha cambiato tutto l’accordo sul nucleare della scorsa estate tra Occidente e Iran, seguito dalla fine delle sanzioni internazionali. Tehran quindi ha reso pan per focaccia ai sauditi che nel frattempo hanno fatto male i loro conti. La politica interventista di re Salman ha aperto una voragine nelle riserve di valuta della petromonarchia. Riyadh impegnata in una dispendiosa (e sanguinosa) offensiva militare in Yemen contro i ribelli Houthi, coinvolta nella guerra civile siriana a sostegno degli islamisti armati che combattono contro Damasco, pronta a investire decine di miliardi di dollari per comprare la politica estera di alcuni Paesi, Egitto in testa, ha visto svuotarsi le sue casse. E ora che ha bisogno della risalita del prezzo del greggio per colmare il deficit deve fare i conti con la ritorsione iraniana.

Così se per l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie il summit di Doha è stato un fallimento, l’Iran al contrario si considera il vincitore di questa partita.  «Il fatto che il nostro Paese – scriveva ieri il quotidiano Khorasan – abbia respinto tutte le pressioni dell’Arabia Saudita e di altri paesi come la Russia, dimostrando di non avere nessuna paura per il futuro del prezzo del petrolio e di voler perseguire i suoi obiettivi a lunga scadenza, è stato un grande successo». Secondo Khorasan, le responsabilità sono tutte di Riyadh e dei suoi «cambi di atteggiamento» mentre l’Iran ha sempre detto di voler recuperare la fetta di mercato che aveva prima dell’embargo. Tehran ora si trova in una posizione di forza poiché è riuscita a diminuire la propria dipendenza dalle esportazioni petrolifere e allo stesso tempo la sua l’economia ha retto all’impatto del calo del prezzo del greggio.

Deve essere forte la rabbia di re Salman per come sono andate le cose a Doha. E ieri la Giordania, con l’obiettivo evidente di compiacere l’alleata Riyadh, con mesi di ritardo rispetto ad altri Paesi arabi, ha deciso di richiamare l’ambasciatore a Tehran in segno di protesta contro presunte interferenze iraniane negli affari interni arabi. Adesso la monarchia saudita si aspetta gesti importanti anche da parte dell’odiato presidente americano Obama che a metà settimana sarà a Riyadh per ricucire le relazioni tra i due Paesi prima della fine del suo mandato. Re Salman vuole diverse cose dagli Usa, tra queste lo stop al progetto di legge in discussione al Congresso che permetterebbe alle famiglie delle vittime dell’11 settembre di portare in giudizio l’Arabia Saudita, Paese dal quale provenivano quasi tutti i qaedisti protagonisti quindici anni fa dell’attacco alle Torri Gemelle e ad altri obiettivi in terra americana. Riyadh, in caso contrario, minaccia di liberarsi di obbligazioni e titoli di stato americani e di altri beni per un valore complessivo di 750 miliardi di dollari.

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