Dalla Siria continuano ad arrivare in queste ore notizie che parlano di un’evoluzione sostanziale del conflitto in alcune aree del paese dove sono concentrate le organizzazioni jihadiste che non rientrano nei termini del cessate il fuoco. Che sostanzialmente sembra tenere, concedendo respiro alle aree più densamente popolate stremate da circa 5 anni di intensi combattimenti e bombardamenti.
Secondo notizie riportate da Rami Abdel Rahmane, leader di un gruppo vicino alle opposizioni siriane ma basato a Londra – il cosiddetto “Osservatorio siriano per i diritti umani” – il portavoce del Fronte al Nusra, la branca locale di al Qaeda, suo figlio e una ventina di militanti jihadisti sarebbero stati uccisi nel corso di bombardamenti aerei realizzati nel nord est del paese. “Abu Firas al-Suri, il figlio e almeno 20 jihadisti di Al Nusra, di Jund al-Aqsa (gruppo vicino ad al Qaeda, ndr) e altri jihadisti provenienti dall’Uzbekistan sono stati uccisi in raid contro postazioni nella provincia di Idlib” ha riferito Abdel Rahmane, senza specificare se gli attacchi siano stati condotti dall’aviazione russa o siriana. Al Suri, nome di battaglia di Radwan Nammous, ha combattuto contro i sovietici in Afghanistan dove incontrò il leader di al Qaida, Osama bin Laden, e il suo mentore Abdullah Azzam, prima di tornare in Siria nel 2011. Secondo le informazioni diffuse da Londra – finora non confermate – i raid sarebbero stati lanciati quando “Al Suri era in riunione con altri jihadisti importanti nella roccaforte di Al Nusra, Kafar Jales, a Nord-Est di Idlib”.
Inoltre durante il fine settimana l’esercito siriano e i suoi alleati hanno riconquistato la maggior parte della strategica città di Al-Qaryatain, una delle roccaforti dello Stato islamico nella parte centrale della Siria.
Nei giorni scorsi invece una fossa comune contenente quarantadue corpi è stata rinvenuta nella periferia nord-orientale di Palmira. “L’esercito ha scoperto una fossa comune con i resti umani di 24 civili, tra cui tre bambini, e 18 militari”, ha precisato una fonte siriana, aggiungendo che le vittime sono state “decapitate o fucilate” dai jihadisti dello Stato Islamico che hanno occupato Palmira per dieci mesi. Gli stessi che, secondo un testimone, hanno giustiziato otto uomini nella loro roccaforte siriana Raqqa. Secondo il testimone, sentito dall’agenzia Ara, domenica i fondamentalisti avrebbero ucciso gli uomini, detenuti da un anno nelle loro prigioni, a colpi di pistola e poi ne avrebbero appeso i corpi ai pali della luce come monito alla popolazione sempre più insofferente. Tre degli uomini sarebbero stati ex membri di Daesh che avevano tentato la fuga, quattro erano accusati di aver violato la legge imposta dai jihadisti e un’altra persona era accusata di spionaggio.
Intanto le forze curde e quelle alleate, riunite nel coordinamento militare denominato ‘Forze Democratiche Siriane’, si apprestano ad attaccare Raqqa, considerata la “capitale” dell’Isis in Siria, per liberarla e infliggere così un colpo mortale allo Stato Islamico. Ad annunciarlo è stato il leader del Partito dell’Unione Democratica (PYD), forza curda gemellato con il Pkk e il cui braccio militare, le Unità di Difesa del Popolo (Ypg) hanno strappato molto terreno ai fondamentalisti dopo aver respinto l’assedio a Kobane. “Le Forze Democratiche sono preparate assieme alla coalizione per liberare Raqqa” ha dichiarato Saleh Muslim durante un incontro con alcuni giornalisti a Parigi. Muslim ha spiegato che le sue forze stanno cercando di prendere il controllo “del corridoio di 70 chilometri, che è l’unica via di accesso dei terroristi verso la Turchia”, nel nord della Siria e che, a detto del leader del PYD, va chiuso il prima possibile. Lo scorso mese, le forze curde ed i loro alleati hanno espugnato al Shadadi, città-bastione dell’Isis nella provincia nord-orientale di Hasake che garantiva ai jihadisti il collegamento con Mosul, loro roccaforte nel nord dell’Iraq.
L’operazione militare dovrebbe contare sul coinvolgimento di parecchie migliaia di combattenti e sulla copertura aerea dei caccia della coalizione a guida statunitense, e forse anche del supporto delle truppe russe rimaste nel paese mediorientale dopo il parziale ritiro ordinato da Putin alcune settimane fa. Nei giorni scorsi Oleg Syromolotov, viceministro russo degli Esteri, aveva informato che i responsabili militari russi e statunitensi stanno discutendo la possibilità di coordinare le operazioni allo scopo di liberare Raqqa. «I nostri ufficiali e la dirigenza del Pentagono stanno studiando gli aspetti concreti di questo coordinamento – ha spiegato Syromolotov – tenendo anche conto del ritiro di parte del nostro contingente». Il 13 marzo scorso, in un’intervista alla Ren Tv, il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov aveva affermato: «Non infrango probabilmente alcun segreto se dico che gli americani ci hanno proposto di mettere in atto una “divisione del lavoro”: le forze aeree russe concentrate sulla liberazione di Palmira, mentre la coalizione americana avrebbe puntato sulla liberazione di Raqqa, con l’aiuto dei russi. Significa che gli Usa iniziano a delineare uno scenario, e che capiscono che non basta scambiarsi informazioni». Di questo Putin e Lavrov hanno discusso di persona con il segretario di Stato USA John Kerry a Mosca nel corso di un incontro. Il mese scorso anche John Brennan, il capo della Cia, è stato in visita a Mosca, per incontri nella sede dell’Fsb, i servizi di sicurezza russi.
La crescente collaborazione tra Mosca e Washington e il sostegno comune alle milizie curde, pronte ad attaccare Raqqa, stanno seriamente impensierendo il regime turco che si sente, a ragione, stretto in una morsa.
Indiscrezioni pubblicate dal quotidiano turco Hurriyet – nel mirino della repressione del regime – indicano che la Turchia ha posto due condizioni agli Stati Uniti per acconsentire a dare il proprio sostegno (comunque non fondamentale) all’operazione militare per la liberazione della regione siriana di Manbij, a nord di Aleppo, attualmente controllata dai jihadisti che Ankara continua a sostenere. Le ostiche trattative sarebbero avvenute nel corso del breve faccia a faccia tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il numero uno della Casa Bianca Barack Obama, e il vicepresidente Usa Joe Biden, durante la visita del capo di stato turco a Washington in occasione del summit sul nucleare.
Gli Stati Uniti hanno insistentemente chiesto alla Turchia di sostenere la riconquista di Manbij, che si trova lungo i 98 chilometri di confine turco-siriano ma, stando a Hurriyet, Erdogan ha posto due condizioni: che le tribù locali arabo-siriane, che parteciperanno alle operazioni a Manbij, abbandonino le Forze democratiche siriane sotto il controllo dei curdi siriani; la Turchia ha anche chiesto agli Stati Uniti di aumentare il sostegno ai gruppi turcomanni ed arabi che Ankara rifornisce e appoggia a Marea, nella zona sudorientale del confine, con una campagna di bombardamenti aerei.
Condizioni, soprattutto la prima, che difficilmente Washington potrà rispettare visto lo stretto legame, seppur strumentale, instaurato nell’ultimo anno con le Ypg; e visto anche che il sostegno turco alle operazioni contro i jihadisti al confine, se mai dovesse davvero scattare, mirerebbe all’aumento dell’influenza turca in Siria e non certo all’indebolimento dei gruppi fondamentalisti che Ankara considera la sua estensione. Il che non vuol dire che l’amministrazione Obama, tatticamente, possa decidere di venire incontro ad alcune delle richieste turche, come sembra emergere da alcune fonti del regime neo-ottomano. Secondo Hurriyet oggi ad Ankara sono giunti alcuni dirigenti dell’intelligence statunitense per discutere con i loro omologhi locali i particolari della faccenda.
Nel frattempo anche le cosiddette opposizioni siriane manovrate più esplicitamente dall’Arabia Saudita, dalle altre petromonarchie e dalla stessa Turchia, quelle riunite nell’“Alto comando per i negoziati” (Hcn), lanciano dure accuse contro Washington, dicendosi preoccupate dell’ambiguità statunitense sulla sorte del presidente Assad ma rivelando così la loro debolezza di fronte all’avvicinamento tra Mosca e Washington. Secondo Bassma Kodmani, una dei portavoce delle opposizioni, “abbiamo a che fare con un’ambiguità americana che per noi è estremamente pregiudiziale. Non sappiamo cosa sono in procinto di discutere gli Stati Uniti con Mosca, ci sono vari tipi di rumors. Ci aspettiamo di avere la conferma che gli Usa siano ancora sulla posizione di rifiutare la riabilitazione di Assad”. “L’amministrazione americana nel suo complesso – ha spiegato Kodmani nel corso di un’intervista ai media francesi RFI, TV5Monde e LeMonde – continua a ripetere che non potrà governare il Paese” ma “resta da dimostrare se gli Stati Uniti possono farsi ascoltare da Mosca” che “continua a pensare che Assad debba restare al potere”, in quel caso “non ci sarà una soluzione per la Siria”.
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