di Michele Paris
La visita di
questa settimana del presidente americano Obama in Arabia Saudita si
inserisce in un clima caratterizzato da un evidente raffreddamento delle
relazioni bilaterali tra i due paesi alleati. Alle ragioni che già da
tempo hanno relativamente incrinato il rapporto tra Riyadh e
l’amministrazione Democratica, si sono aggiunte nuove questioni negli
ultimi giorni, anch’esse legate però come le prime al parziale cambio di
prospettive e scelte strategiche degli Stati Uniti in merito alla
proiezione dei propri interessi in Medio Oriente.
Tutti o quasi
gli osservatori fanno risalire l’origine dei dissapori tra gli USA e la
casa regnante saudita alla rivoluzione in Egitto che nel 2011 portò alla
deposizione del presidente Hosni Mubarak. Se Washington in
quell’occasione aveva appoggiato quest’ultimo fino a quando era stato
possibile, l’ondata di manifestazioni di piazza aveva alla fine spinto
Obama a voltare le spalle al fedele alleato nel paese nordafricano.
Questa
decisione aveva suscitato le ire e i timori di un regime costretto
improvvisamente a fare i conti con le scosse della “Primavera Araba” e
l’emergere sulla scena regionale degli odiati Fratelli Musulmani che
sarebbero di lì a poco giunti al potere in Egitto.
Da allora,
l’agenda dei due super-alleati si sarebbe discostata come mai era
successo da molti decenni, sia pure sempre in termini relativi e ferma
restando la sostanziale comunanza di vedute sul piano strategico
mediorientale. Se Washington non ha mai messo in discussione il legame
multiforme col suo principale partner – dopo Israele – nella regione,
fondato sulla stabilità garantita dai “petrodollari”, almeno altri due
fattori hanno contribuito ad alimentare le tensioni e a far salire il
livello di diffidenza nei confronti dell’amministrazione Obama.
Il
primo risale all’estate del 2013, quando, in seguito alle accuse contro
il regime del presidente siriano Assad di avere utilizzato armi
chimiche contro i “ribelli”, Obama aveva annunciato l’avvio di
bombardamenti aerei per poi fare una clamorosa marcia indietro una volta
accertata l’opposizione popolare e dello stesso Congresso americano. Le
accuse, peraltro, erano apparse da subito dubbie e in seguito sarebbe
emerso che, con ogni probabilità, l’uso di agenti chimici era da
attribuire agli stessi “ribelli” anti-Assad, protagonisti di una
provocazione, con il sostegno almeno della Turchia, per istigare un
intervento armato esterno contro Damasco.
L’altro fattore che ha
definitivamente messo in allarme la monarchia saudita è stato l’accordo
sul nucleare iraniano che, al di là delle aspettative e degli obiettivi
di Washington, ha gettato le basi per consentire alla Repubblica
Islamica, ovvero il principale rivale regionale di Riyadh, di tornare a
svolgere un ruolo di primo piano sulla scena internazionale.
La
prospettiva saudita, basata sull’esportazione del fondamentalismo
sunnita wahhabita e sulla demonizzazione dei paesi e delle minoranze
sciite per favorire la promozione dei propri interessi, ha finito
insomma per scontrarsi con i nuovi disegni strategici delineati a
Washington.
Il caso dell’Iran è estremamente indicativo in questo
senso. In linea con l’atteggiamento saudita, gli Stati Uniti non hanno
mai pensato per un solo istante di accettare Teheran come un legittimo
attore sulla scena mediorientale, malgrado il desiderio mostrato da
Obama di raggiungere un compromesso sul nucleare.
Allo stesso
tempo, però, lo scarso appetito per un nuovo conflitto su larga scala e
l’aumento delle rivalità globali con potenze ben maggiori, come Cina e
Russia, ha sostanzialmente convinto almeno una parte della classe
dirigente USA a puntare per il momento sulla collaborazione con l’Iran
per neutralizzare lo scontro o, nella più ottimistica delle ipotesi e
nel medio-lungo periodo, per indurre un cambio di regime strisciante
attraverso la penetrazione del capitale occidentale in questo paese.
Ciò
ha verosimilmente scatenato il panico in Arabia Saudita, dove si
continua a percepire qualsiasi minimo scostamento degli Stati Uniti
dalle politiche di appoggio incondizionato al regime e di opposizione
totale all’arco della resistenza sciita come una sorta di tradimento e
un pericolo esistenziale.
Che l’isteria dei regnanti di Riyadh
sia a dir poco eccessiva appare in ogni caso evidente dall’appoggio che
gli USA continuano ad assicurare a un regime tra i più anti-democratici,
oscurantisti e violenti del pianeta. Ad esempio, le compagnie americane
continuano a far segnare numeri da record in relazione alle forniture
di armi ed equipaggiamenti strategici destinati all’Arabia Saudita.
Washington,
poi, collabora attivamente sul fronte militare e dell’intelligence con
questo paese nel conflitto in atto contro lo Yemen, caratterizzato da
innumerevoli episodi classificabili come crimini di guerra. Inoltre,
l’amministrazione Obama, nonostante evidenti contrarietà, ha in sostanza
coperto le responsabilità saudite nel sostenere finanziariamente e
logisticamente i gruppi fondamentalisti sunniti anti-Assad in Siria.
Le
frizioni tra i due alleati sono ad ogni modo tornate sulle prime pagine
dei giornali in questi giorni, dopo l’apparire della notizia della
minaccia, pronunciata dal ministro degli Esteri di Riyadh, Adel
al-Jubeir, nel corso di una visita a Washington qualche settimana fa, di
vendere 750 miliardi di dollari in titoli del tesoro USA detenuti
dall’Arabia Saudita.
L’avvertimento del ministro saudita potrebbe
avverarsi se il Congresso di Washington dovesse approvare una proposta
di legge che intende privare i governi stranieri dell’immunità nei
procedimenti giudiziari legati a episodi di terrorismo avvenuti in
territorio americano. Il provvedimento è stato presentato da due
senatori – il Democratico di New York, Chuck Schumer, e il Repubblicano
del Texas, John Cornyn – con l’obiettivo principale di far luce sulle
responsabilità dell’Arabia Saudita negli attentati dell’11 settembre
2001.
Dei possibili legami tra questo paese e i responsabili
degli attacchi, di cui 15 su 19 erano di nazionalità saudita, si discute
da tempo e informazioni al riguardo potrebbero essere contenute nelle
28 pagine tuttora classificate del rapporto del Congresso USA sull’11
settembre. I famigliari delle vittime hanno intentato varie cause nei
confronti dell’Arabia Saudita ma finora sono state tutte fermate in base
a una legge del 1976 che garantisce appunto l’immunità ai governi
stranieri.
Le pressioni affinché questa sezione del rapporto
venga finalmente resa pubblica sono aumentate nelle ultime settimane,
come ha confermato anche un recente speciale trasmesso nel corso della
nota trasmissione della CBS, “60 Minutes”. Nel programma non sono emersi
nuovi dati relativi alle responsabilità saudite, ma significativo è
stato il fatto che svariati ex membri del Congresso ed ex esponenti
dell’apparato della sicurezza nazionale USA abbiano chiesto apertamente
la declassificazione del materiale segreto.
Tra
gli intervistati vi erano l’ex senatore Democratico Robert Graham e
l’ex deputato Repubblicano ed ex direttore della CIA, Porter Goss,
nonché tre membri della commissione sull’11 settembre, i Democratici
Robert Kerrey e Timothy Roemer e il Repubblicano John Lehman.
Questi
personaggi hanno tuttora legami con il governo, l’intelligence o i
vertici militari americani, così che le loro dichiarazioni non sono da
considerarsi di semplici cittadini privati. Anzi, i loro appelli
pubblici alla pubblicazione di documenti scottanti sull’Arabia Saudita
indicano come vi siano sezioni all’interno del governo americano che
intendono lanciare un segnale sia all’amministrazione Obama, che si
oppone alla declassificazione, sia all’alleato mediorientale, il cui
comportamento viene considerato ormai come un elemento di disturbo degli
obiettivi strategici di Washington.
Tutt’altro che accidentale è
dunque il fatto che la trasmissione della CBS e la notizia della
minaccia saudita di disfarsi del debito USA siano apparse alla vigilia
del viaggio di Obama a Riyadh. Le tensioni tra i due paesi saranno
perciò al centro delle discussioni nei prossimi giorni, anche se solo
gli sviluppi futuri potranno chiarire se il presidente uscente sarà
riuscito a rassicurare e, soprattutto, a convincere a cambiare rotta una
sempre più diffidente monarchia saudita.
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