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19/04/2016

USA-Arabia Saudita, ruggine tra alleati

di Michele Paris

La visita di questa settimana del presidente americano Obama in Arabia Saudita si inserisce in un clima caratterizzato da un evidente raffreddamento delle relazioni bilaterali tra i due paesi alleati. Alle ragioni che già da tempo hanno relativamente incrinato il rapporto tra Riyadh e l’amministrazione Democratica, si sono aggiunte nuove questioni negli ultimi giorni, anch’esse legate però come le prime al parziale cambio di prospettive e scelte strategiche degli Stati Uniti in merito alla proiezione dei propri interessi in Medio Oriente.

Tutti o quasi gli osservatori fanno risalire l’origine dei dissapori tra gli USA e la casa regnante saudita alla rivoluzione in Egitto che nel 2011 portò alla deposizione del presidente Hosni Mubarak. Se Washington in quell’occasione aveva appoggiato quest’ultimo fino a quando era stato possibile, l’ondata di manifestazioni di piazza aveva alla fine spinto Obama a voltare le spalle al fedele alleato nel paese nordafricano.

Questa decisione aveva suscitato le ire e i timori di un regime costretto improvvisamente a fare i conti con le scosse della “Primavera Araba” e l’emergere sulla scena regionale degli odiati Fratelli Musulmani che sarebbero di lì a poco giunti al potere in Egitto.

Da allora, l’agenda dei due super-alleati si sarebbe discostata come mai era successo da molti decenni, sia pure sempre in termini relativi e ferma restando la sostanziale comunanza di vedute sul piano strategico mediorientale. Se Washington non ha mai messo in discussione il legame multiforme col suo principale partner – dopo Israele – nella regione, fondato sulla stabilità garantita dai “petrodollari”, almeno altri due fattori hanno contribuito ad alimentare le tensioni e a far salire il livello di diffidenza nei confronti dell’amministrazione Obama.

Il primo risale all’estate del 2013, quando, in seguito alle accuse contro il regime del presidente siriano Assad di avere utilizzato armi chimiche contro i “ribelli”, Obama aveva annunciato l’avvio di bombardamenti aerei per poi fare una clamorosa marcia indietro una volta accertata l’opposizione popolare e dello stesso Congresso americano. Le accuse, peraltro, erano apparse da subito dubbie e in seguito sarebbe emerso che, con ogni probabilità, l’uso di agenti chimici era da attribuire agli stessi “ribelli” anti-Assad, protagonisti di una provocazione, con il sostegno almeno della Turchia, per istigare un intervento armato esterno contro Damasco.

L’altro fattore che ha definitivamente messo in allarme la monarchia saudita è stato l’accordo sul nucleare iraniano che, al di là delle aspettative e degli obiettivi di Washington, ha gettato le basi per consentire alla Repubblica Islamica, ovvero il principale rivale regionale di Riyadh, di tornare a svolgere un ruolo di primo piano sulla scena internazionale.

La prospettiva saudita, basata sull’esportazione del fondamentalismo sunnita wahhabita e sulla demonizzazione dei paesi e delle minoranze sciite per favorire la promozione dei propri interessi, ha finito insomma per scontrarsi con i nuovi disegni strategici delineati a Washington.

Il caso dell’Iran è estremamente indicativo in questo senso. In linea con l’atteggiamento saudita, gli Stati Uniti non hanno mai pensato per un solo istante di accettare Teheran come un legittimo attore sulla scena mediorientale, malgrado il desiderio mostrato da Obama di raggiungere un compromesso sul nucleare.

Allo stesso tempo, però, lo scarso appetito per un nuovo conflitto su larga scala e l’aumento delle rivalità globali con potenze ben maggiori, come Cina e Russia, ha sostanzialmente convinto almeno una parte della classe dirigente USA a puntare per il momento sulla collaborazione con l’Iran per neutralizzare lo scontro o, nella più ottimistica delle ipotesi e nel medio-lungo periodo, per indurre un cambio di regime strisciante attraverso la penetrazione del capitale occidentale in questo paese.

Ciò ha verosimilmente scatenato il panico in Arabia Saudita, dove si continua a percepire qualsiasi minimo scostamento degli Stati Uniti dalle politiche di appoggio incondizionato al regime e di opposizione totale all’arco della resistenza sciita come una sorta di tradimento e un pericolo esistenziale.

Che l’isteria dei regnanti di Riyadh sia a dir poco eccessiva appare in ogni caso evidente dall’appoggio che gli USA continuano ad assicurare a un regime tra i più anti-democratici, oscurantisti e violenti del pianeta. Ad esempio, le compagnie americane continuano a far segnare numeri da record in relazione alle forniture di armi ed equipaggiamenti strategici destinati all’Arabia Saudita.

Washington, poi, collabora attivamente sul fronte militare e dell’intelligence con questo paese nel conflitto in atto contro lo Yemen, caratterizzato da innumerevoli episodi classificabili come crimini di guerra. Inoltre, l’amministrazione Obama, nonostante evidenti contrarietà, ha in sostanza coperto le responsabilità saudite nel sostenere finanziariamente e logisticamente i gruppi fondamentalisti sunniti anti-Assad in Siria.

Le frizioni tra i due alleati sono ad ogni modo tornate sulle prime pagine dei giornali in questi giorni, dopo l’apparire della notizia della minaccia, pronunciata dal ministro degli Esteri di Riyadh, Adel al-Jubeir, nel corso di una visita a Washington qualche settimana fa, di vendere 750 miliardi di dollari in titoli del tesoro USA detenuti dall’Arabia Saudita.

L’avvertimento del ministro saudita potrebbe avverarsi se il Congresso di Washington dovesse approvare una proposta di legge che intende privare i governi stranieri dell’immunità nei procedimenti giudiziari legati a episodi di terrorismo avvenuti in territorio americano. Il provvedimento è stato presentato da due senatori – il Democratico di New York, Chuck Schumer, e il Repubblicano del Texas, John Cornyn – con l’obiettivo principale di far luce sulle responsabilità dell’Arabia Saudita negli attentati dell’11 settembre 2001.

Dei possibili legami tra questo paese e i responsabili degli attacchi, di cui 15 su 19 erano di nazionalità saudita, si discute da tempo e informazioni al riguardo potrebbero essere contenute nelle 28 pagine tuttora classificate del rapporto del Congresso USA sull’11 settembre. I famigliari delle vittime hanno intentato varie cause nei confronti dell’Arabia Saudita ma finora sono state tutte fermate in base a una legge del 1976 che garantisce appunto l’immunità ai governi stranieri.

Le pressioni affinché questa sezione del rapporto venga finalmente resa pubblica sono aumentate nelle ultime settimane, come ha confermato anche un recente speciale trasmesso nel corso della nota trasmissione della CBS, “60 Minutes”. Nel programma non sono emersi nuovi dati relativi alle responsabilità saudite, ma significativo è stato il fatto che svariati ex membri del Congresso ed ex esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale USA abbiano chiesto apertamente la declassificazione del materiale segreto.

Tra gli intervistati vi erano l’ex senatore Democratico Robert Graham e l’ex deputato Repubblicano ed ex direttore della CIA, Porter Goss, nonché tre membri della commissione sull’11 settembre, i Democratici Robert Kerrey e Timothy Roemer e il Repubblicano John Lehman.

Questi personaggi hanno tuttora legami con il governo, l’intelligence o i vertici militari americani, così che le loro dichiarazioni non sono da considerarsi di semplici cittadini privati. Anzi, i loro appelli pubblici alla pubblicazione di documenti scottanti sull’Arabia Saudita indicano come vi siano sezioni all’interno del governo americano che intendono lanciare un segnale sia all’amministrazione Obama, che si oppone alla declassificazione, sia all’alleato mediorientale, il cui comportamento viene considerato ormai come un elemento di disturbo degli obiettivi strategici di Washington.

Tutt’altro che accidentale è dunque il fatto che la trasmissione della CBS e la notizia della minaccia saudita di disfarsi del debito USA siano apparse alla vigilia del viaggio di Obama a Riyadh. Le tensioni tra i due paesi saranno perciò al centro delle discussioni nei prossimi giorni, anche se solo gli sviluppi futuri potranno chiarire se il presidente uscente sarà riuscito a rassicurare e, soprattutto, a convincere a cambiare rotta una sempre più diffidente monarchia saudita.

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