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06/09/2016

“Comunità concrete”, postfordismo e insorgenza populista

Dopo decenni di analisi sulla transizione al postfordismo, si sono esaurite le illusioni in merito alle chance che quella mutazione offrirebbe ai membri di una emergente “classe creativa”. La grande crisi, giunta all’ottavo anno senza che si profilino prospettive di ripresa, ha scavato un abisso fra l’economia dei flussi (finanza e transnazionali del settore hi tech in prima fila) che continua a riempire le tasche dei super ricchi e l’economia dei luoghi, dove le disiecta membra di classi lavoratrici sempre più impoverite lottano per la sopravvivenza. In mezzo, dopo il tramonto della funzione di rappresentanza di partiti e associazioni, e dopo l’indebolimento delle classi medie, non sembra restare alcunché.

Al tentativo di rintracciare segni di una possibile rinascita della “terra di mezzo”, è dedicata una nuova collana dell’editore DeriveApprodi, intitolata “Comunità concrete” e diretta da Aldo Bonomi. Il primo volume, “La società circolare”, curato dallo stesso Bonomi, è approdato in libreria da qualche giorno. Preso atto che la cosiddetta economia “immateriale” è tutt’altro che “leggera”, ma funziona come una macchina schiacciasassi in grado di frantumare ogni velleità di autonomia dei capitalismi locali, che avevano tenuto in piedi la nostra economia negli ultimi decenni del secolo scorso, e di trasformare i territori in colonie, riserve di saperi sociali da cui estrarre plusvalore, Bonomi e gli altri coautori del volume cercano di capire come e se sia possibile resistere (ma il termine usato è piuttosto resilienza) alla colonizzazione, saldando quanto resta dei vecchi localismi alle nuove forme di economia in rete, imprenditori (e banche) locali e classe creativa (non solo quella della sharing economy e delle tecnologie digitali ma anche quella dei “ritornanti” alla terra e della green economy).

Come si vede, l’idea va in direzione opposta alla visione neoliberista che scommette sulle ambizioni individuali degli “imprenditori di sé stessi”, su una digitalizzazione “hard”, guidata dall’alto, dei territori, nonché su una governamentalità che ciancia di autonomia ma pratica il centralismo; qui la direzione indicata è invece quella del fare rete dal basso fra le centinaia di iniziative imprenditoriali che si configurano come progetti comunitari, prima che come aziende in senso stretto, una galassia che tuttavia, come riconosce lo stesso Bonomi, non dispone ancora di un racconto politico in grado di rappresentarla, per cui rischia di funzionare come pretesto (come modello di “buone pratiche”, per usare uno stucchevole luogo comune mediatico) di retoriche “nuoviste” asservite a tutt’altri obiettivi.

Questa visione, che potremmo definire neo oweniana, era già apparsa chiara in un’opera precedente (“Il vento di Adriano”, DeriveApprodi) in cui Bonomi ragionava con Marco Revelli e Alberto Magnaghi sul “fordismo dolce” di Adriano Olivetti, cioè su un modello di impresa-comunità che aveva cercato di integrare fabbrica e territorio, produzione e riproduzione, lavoro e vita – un modello spazzato via dal fordismo made in Italy targato Fiat. Già in quel lavoro, tuttavia, sia Bonomi che Magnaghi prendevano atto del fatto che solo un robusto progetto politico-istituzionale, una politica in grado di fare interposizione fra flussi globali e sistemi locali, potrebbe garantire la tenuta di un simile progetto, impedendone l’integrazione/subordinazione al dominio dell’economia dei flussi.

È a partire da questo “buco” che chi scrive, nel secondo volume della collana (“La variante populista”, in libreria a fine ottobre) reinterpreta l’insorgenza populista come una nuova forma di lotta di classe, e come un’opportunità per costruire quell’alternativa sistemica che è l’unica possibilità di dare sbocco alla rivolta dei luoghi. Nei suoi scritti Bonomi ragiona sulle tre comunità: la comunità operosa (i nuovi creativi), la comunità di cura (la galassia del volontariato) e la comunità del rancore (gli esclusi e la loro rabbia), concentrando l’attenzione soprattutto sulle prime due. Personalmente credo invece che, se non saprà partire dalla rabbia degli esclusi (che ha finora colpevolmente consegnato all’egemonia delle destre), la sinistra è condannata alla sconfitta. Naturalmente non mi riferisco alla sinistra tradizionale, che è già stata sconfitta (e convertita al paradigma liberista), ma a una sinistra che sappia assumere il volto di un populismo di sinistra capace di unificare comunità, territorio e fabbrica, esclusi e classi medie impoverite.

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