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10/09/2016

La giunta Raggi ovvero l’arte di impiccarsi alla propria corda

Sulla piazza del Campidoglio da qualche giorno penzolano tre cappi che i cinque stelle hanno confezionato con le loro stesse mani e a cui adesso, per il più classico dei paradossi, rischiano di rimanere impiccati. Il primo cappio è quello della cosiddetta “trasparenza totale”, maneggiata ingenuamente quasi fosse un sinonimo di “onestà” ed indicata come l’unico antidoto capace di diradare quel porto delle nebbie che è invece la politica italiana. Se si sostiene, però, che trasformare il comune in una “casa di vetro” rappresenti la sola garanzia  di una amministrazione corretta, è inevitabile poi che ogni seppur minima opacità venga trattata dai propri nemici come un indizio di malagestione della cosa pubblica. Un’ingenuità che, tanto per fare un esempio, lo scorso 5 settembre ha dato modo al PD (al PD!!!) di trasformare l’audizione della Raggi e della Muraro da parte della commissione parlamentare Ecomafie in un interrogatorio pubblico sui rapporti tra la giunta Raggi e il direttorio, sul contenuto delle loro mail private inviate a Di Maio, sui dissidi interni al M5s, ecc. Domande che non c’entravano nulla con gli scopi della commissione d’inchiesta (che dovrebbe occuparsi della gestione del ciclo dei rifiuti) ma a cui tanto la Sindaca che l’Assessore, salite da sole sul banco degli imputati, non hanno potuto non rispondere per evitare di apparire reticenti e, per l’appunto, poco trasparenti.

Il secondo cappio, ancora più robusto, è figlio di una cultura tecnocrate ormai egemone in questo paese e di cui il movimento fondato da Grillo è sembrato essere intriso fin dalla nascita, ossia la convinzione totalmente sballata della cosiddetta “neutralità dei tecnici”. Una neutralità che ovviamente non esiste, che non è mai esistita, ma che secondo i pentastellati dovrebbe invece bastare a garantire il buon funzionamento della macchina pubblica. Quasi che, per rimanere nella metafora automobilistica, il “come” venga guidata questa macchina sia un aspetto prioritario rispetto al “verso dove” la stessa sia diretta. Non per caso la costruzione della Giunta capitolina si è trascinata per oltre due settimane nel faticoso tentativo, tra un rifiuto e l’altro, di reperire il profilo tecnico giusto da mettere al posto giusto: l’ingegnere ambientale all’Ama, il dirigente della Consob al bilancio, ecc. quasi che bastasse un buon curriculum a fare un buon assessore. Ovviamente non è qui in discussione l’importanza delle competenze specifiche, ma la consapevolezza che la “politica” dovrebbe prevalere sempre sulla “tecnica”, soprattutto per un movimento che si autorappresenta come un elemento di discontinuità. Altrimenti ci si ritrova presi in ostaggio ad osservare un po’ increduli la sfilata dei vari Minenna, Raineri, Solidoro, De Dominicis, ecc.

C’è, infine, il terzo cappio, quello più forte e insidioso, quello da cui già penzolano altre giunte grilline ed in cui anche la giunta Raggi sembra aver infilato la testa. Ed è il cappio dell’ideologia del “buon governo”. Ovvero la convinzione che la semplice buona gestione della città (onesta, trasparente, competente...) possa da sola bastare a far funzionare la cosa pubblica. Dimenticando così che senza la forzatura dei vincoli di bilancio, senza la rottura della gabbia neoliberale che in questi anni si è andata costruendo anche intorno ai comuni, mantenere le aspettative suscitate in larga parte della città diventa semplicemente impossibile. Crediamo debba essere proprio questa la principale responsabilità da imputare all’amministrazione capitolina dopo i primi tre mesi: che fine ha fatto la discontinuità promessa?

Sinceramente non ce ne frega niente se la procura ha aperto un fascicolo sulla Muraro, ci interessa di più sapere che fine ha fatto l’audit sul debito oppure sapere come e quando la giunta darà finalmente seguito al suo programma. Così come, mentre ci interessano poco i rapporti tra il sindaco e il mini direttorio dei cinque stelle, siamo più interessati invece a comprendere come la Raggi intenda opporsi alla privatizzazione dei servizi pubblici prevista dal decreto Madia. O perchè non abbia ancora preso una posizione netta contro le olimpiadi che tanto stanno a cuore all’altro sindaco di Roma, quello non eletto dai cittadini ma dai costruttori, Caltagirone.

Appare evidente che senza una mobilitazione popolare che sappia incalzarla, dal basso e da sinistra, l’attuale amministrazione capitolina è destinata a diventare definitivamente ostaggio della propria insipienza e di quei poteri forti che in questi mesi hanno dato vita ad un’aggressione mediatica senza precedenti pur di riuscire a condizionarla. Ed è questa la partita che saremo chiamati a giocare nei prossimi mesi, consapevoli che la posta in gioco va ben oltre gli scranni del Campidoglio, ma assume un rilievo nazionale.


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