Sulla piazza del Campidoglio da qualche giorno penzolano tre cappi che i
cinque stelle hanno confezionato con le loro stesse mani e a cui
adesso, per il più classico dei paradossi, rischiano di rimanere
impiccati. Il primo cappio è quello della cosiddetta “trasparenza
totale”, maneggiata ingenuamente quasi fosse un sinonimo di “onestà” ed
indicata come l’unico antidoto capace di diradare quel porto delle
nebbie che è invece la politica italiana.
Se si sostiene, però, che trasformare il comune in una “casa di vetro”
rappresenti la sola garanzia di una amministrazione corretta, è
inevitabile poi che ogni seppur minima opacità venga trattata dai propri
nemici come un indizio di malagestione della cosa pubblica.
Un’ingenuità che, tanto per fare un esempio, lo scorso 5 settembre ha
dato modo al PD (al PD!!!) di trasformare l’audizione della Raggi e
della Muraro da parte della commissione parlamentare Ecomafie in un
interrogatorio pubblico sui rapporti tra la giunta Raggi e il
direttorio, sul contenuto delle loro mail private inviate a Di Maio, sui
dissidi interni al M5s, ecc. Domande che non c’entravano nulla con gli
scopi della commissione d’inchiesta (che dovrebbe occuparsi della
gestione del ciclo dei rifiuti) ma a cui tanto la Sindaca che
l’Assessore, salite da sole sul banco degli imputati, non hanno potuto
non rispondere per evitare di apparire reticenti e, per l’appunto, poco
trasparenti.
Il secondo cappio, ancora più robusto, è figlio di una cultura
tecnocrate ormai egemone in questo paese e di cui il movimento fondato
da Grillo è sembrato essere intriso fin dalla nascita, ossia la
convinzione totalmente sballata della cosiddetta “neutralità dei
tecnici”. Una neutralità che ovviamente non esiste, che non è mai
esistita, ma che secondo i pentastellati dovrebbe invece bastare a
garantire il buon funzionamento della macchina pubblica. Quasi che, per
rimanere nella metafora automobilistica, il “come” venga guidata questa
macchina sia un aspetto prioritario rispetto al “verso dove” la stessa
sia diretta. Non per caso la costruzione della Giunta capitolina si è
trascinata per oltre due settimane nel faticoso tentativo, tra un
rifiuto e l’altro, di reperire il profilo tecnico giusto da mettere al
posto giusto: l’ingegnere ambientale all’Ama, il dirigente della Consob
al bilancio, ecc. quasi che bastasse un buon curriculum a fare un buon
assessore. Ovviamente non è qui in discussione l’importanza delle
competenze specifiche, ma la consapevolezza che la “politica” dovrebbe
prevalere sempre sulla “tecnica”, soprattutto per un movimento che si
autorappresenta come un elemento di discontinuità. Altrimenti ci si
ritrova presi in ostaggio ad osservare un po’ increduli la sfilata dei
vari Minenna, Raineri, Solidoro, De Dominicis, ecc.
C’è, infine, il terzo cappio, quello più forte e insidioso, quello da
cui già penzolano altre giunte grilline ed in cui anche la giunta Raggi
sembra aver infilato la testa. Ed è il cappio dell’ideologia del “buon
governo”. Ovvero la convinzione che la semplice buona gestione della
città (onesta, trasparente, competente...) possa da sola bastare a far
funzionare la cosa pubblica. Dimenticando così che senza la forzatura
dei vincoli di bilancio, senza la rottura della gabbia neoliberale che
in questi anni si è andata costruendo anche intorno ai comuni, mantenere
le aspettative suscitate in larga parte della città diventa
semplicemente impossibile. Crediamo debba essere proprio questa la
principale responsabilità da imputare all’amministrazione capitolina
dopo i primi tre mesi: che fine ha fatto la discontinuità promessa?
Sinceramente non ce ne frega niente se la procura ha aperto un fascicolo
sulla Muraro, ci interessa di più sapere che fine ha fatto l’audit sul
debito oppure sapere come e quando la giunta darà finalmente seguito al
suo programma. Così come, mentre ci interessano poco i rapporti tra il
sindaco e il mini direttorio dei cinque stelle, siamo più interessati
invece a comprendere come la Raggi intenda opporsi alla privatizzazione
dei servizi pubblici prevista dal decreto Madia. O perchè non abbia
ancora preso una posizione netta contro le olimpiadi che tanto stanno a
cuore all’altro sindaco di Roma, quello non eletto dai cittadini ma dai
costruttori, Caltagirone.
Appare evidente che senza una mobilitazione popolare che sappia
incalzarla, dal basso e da sinistra, l’attuale amministrazione
capitolina è destinata a diventare definitivamente ostaggio della
propria insipienza e di quei poteri forti che in questi mesi hanno dato
vita ad un’aggressione mediatica senza precedenti pur di riuscire a
condizionarla. Ed è questa la partita che saremo chiamati a giocare nei
prossimi mesi, consapevoli che la posta in gioco va ben oltre gli
scranni del Campidoglio, ma assume un rilievo nazionale.
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