Oggi in Catalogna è stato proclamato lo sciopero generale da una serie di sindacati catalani e autonomi più la CNT di matrice anarchica.
Uno sciopero che va in continuità con le
mobilitazioni di questi giorni sia per il referendum indipendentista
che come reazione alla scelta del governo centrale di Madrid di fermare con la violenza la consultazione stessa. Fatto che ha compattato il fronte catalano anche con coloro, ad esempio Podemos e la sindaca di Barcellona Ada Colau, che non erano d’accordo con la modalità del referendum e con l’accelerazione politica data da Puigdemont e i centristi al governo della Regione.
Ai piani alti intanto si tratta perché entrambe le parti sanno che il terreno si è fatto molto scivoloso.
A noi però interessa capire quali sono le dinamiche reali che hanno portato a questo scontro e soprattutto le prospettive teorizzate e probabili di questa vicenda.
Partiamo dagli aspetti positivi. Vedere decine di migliaia di persone in piazza che rivendicano di partecipare e votare e che sfidano un potere centrale non è cosa da tutti i giorni in Europa. È comunque simbolo che la società catalana è viva,
molto più viva di altre, confermando una tendenza progressista che la
base di lavoratori, studenti, precari, disoccupati e società organizzata
hanno sempre dimostrato. Quindi pensiamo che nessuno possa “sputare” su mobilitazioni che comunque sono anche frutto delle contraddizioni espresse dalla crisi. Senza dimenticare la profonda frattura storica, mai sanata fino in fondo dalla Costituzione del 1978, fra società spagnola (e i suoi strascichi franchisti) e catalani che dalla guerra civile in poi hanno versato il loro sangue.
C’è però un altro aspetto, di natura politico-economica,
più complesso e che non può rimanere condizionato dalla rabbia e
dallo schifo delle immagini viste ai seggi con la Guardia Civil e i
reparti speciali protagonisti di violenze contro gente inerme.
Qual è il nodo politico? È la prospettiva. Perché al di là del tipo di Stato o della forma di governo, un territorio è determinato soprattutto dal tipo di società e di economia riesce che a costruire. È allora invece di fare polemica o discutere se chiedere l’indipendenza catalana sia di destra o di sinistra, sarebbe meglio concentrarsi in merito a per quale società e prospettiva economica stanno lottando i catalani
e se essa combacia con quella delle élites. O se comunque ci sono
concrete possibilità che in questa dinamica indipendentista possano
prevalere forze antisistema o antiliberiste. Al momento pare di no, ma
non siamo in grado di verificare se la CUP o la semplice dinamica di piazza
delle migliaia di persone (e di molti militanti, lavoratori o
sindacalisti) stia rafforzando un’idea diversa da quella di Puigdemont.
Perché il presidente catalano ha tentato l’azzardo, ma lo ha fatto con una chiara idea di economia, di partnership con l’Ue e di società che continui nel solco già delineato. È chiaro che una parte di coloro che oggi sono indipendentisti
vogliano giocare le proprie carte (cioè il sistema economico catalano)
sul mercato UE perché si considerano più competitivi del sistema
spagnolo visto come un fardello.
Stiamo a vedere. I rapporti di forza si creano anche stando dentro le contraddizioni e nelle situazioni che nascono comunque da una condizione di crisi. Basta
avere chiaro quali sono i rischi e come relazionarsi con chi, fuori
dalla Catalogna, appartiene alla stessa classe sociale o ha prospettive
simili. Sennò diventa una situazione il cui interesse è limitato ai confini catalani.
Quindi sinistra o destra? Probabilmente l’indipendentismo è spesso la via più semplice, la scorciatoia, per reagire ad un malessere. Bisogna vedere se è anche efficace. Diventerà
un cortile e un semplice staterello con qualche vantaggio fiscale per
attirare nuovi capitali, oppure rappresenterà la punta più avanzata
della messa in crisi del sistema UE e una guida per tanti popoli
addormentati?
Per noi il nodo di tutto è questo.
redazione, 3 ottobre 2017
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