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09/11/2017

A 100 anni dall’ottobre rosso: Lenin, l’insurrezione e la finanza globale

Ci sono eventi che a distanza di secoli pesano nella mente dei contemporanei ed altri che in poche decine di anni svaniscono nella mente collettiva del presente. Il primo caso è quello della Repubblica romana, quella oggetto dei testi di Tito Livio, per i protagonisti degli eventi rivoluzionari del 1848 e viene ricordato proprio da Marx. Il secondo riguarda la Rivoluzione d’ottobre liquidata come problema storico dopo il 1989. Con il leader bolscevico, la cui statua viene sollevata e trascinata via in Goodbye Lenin, che esce dalla scena in una simpatica commedia leggera tedesca. Non che da allora, sulla scena politica e culturale, sia scomparso il concetto di rivoluzione. E’ emerso il protagonismo delle rivoluzioni tecnologiche e della comunicazione assieme alla depoliticizzazione dell’idea stessa di rottura rivoluzionaria. Lo stesso concetto di Twitter Revolution, usato per l’Iran del 2009 e le primavere arabe suggeriva che il potenziale rivoluzionario stesse, in ultima istanza, nell’innovazione tecnologica, di mercato frutto maturo del capitalismo di ventura. Quella che era scomparsa, con il crollo dell’Urss e la contemporanea operazione di esorcismo globale nei confronti del comunismo, era la concezione della rivoluzione politica come un processo storico in grado di rovesciare completamente l’ordine terrestre delle cose. Insomma, la rivoluzione la grande paura delle classi agiate che, a partire da Thomas Müntzer passando per Robespierre, era diventata terrore atavico insopportabile con Lenin.
 
Si comprende  quindi perché alla caduta del muro di Berlino, e con le sinistre inabili a proporre la propria egemonia politica dopo la fine del fordismo, la cultura liberale si scagliò contro Lenin e la rivoluzione d’ottobre: da una parte perché l’ha sempre fatto dall’altra perché era l’occasione storica di regolare i conti con decenni di terrore atavico della rivoluzione. Del resto le residue sinistre cosa potevano fare con Lenin? Si trattava di qualcuno che, classicamente, era troppo o troppo poco.  Troppo perché la concezione e la pratica rivoluzionaria di Lenin erano un programma (improvvisamente se guardiamo alla fortuna di Lenin ancora negli anni ’70 citato anche da Veltroni...) troppo vasto per soggetti politici minimalisti e disorientati come quelli dei residui di sinistra rimasti sul campo dopo la fine del fordismo. Troppo poco perché la lettura della società russa dei tempi di Lenin non diceva nulla a chi doveva leggere una società ormai postfordista, tecnologica con un piano di miseria diffuso esistente ben differente da quello dei tempi del pope Gapon. Eppure Lenin era, e resta, un classico del machiavellismo vincente rivoluzionario, un maestro ad uso della polemica, e della battaglia di opinione, utile alla costruzione del partito. Tutta roba inservibile dagli anni ’90, da quando la parola “politica” è una sorta di marchio di infamia, a metà tra inconcludenza e corruzione, e i fenomeni che si vogliono promuovere devono essere etichettati come “sociali” e trovare pragmatica ed equilibrata collocazione.

Si capisce come Lenin e la rivoluzione d’ottobre siano stati, a partire dagli anni ’90, degli strumenti inservibili. Tanto più che, oltre a fenomeni di conclamata repulsione per l’idea stessa di presa del potere, nell’ultimo ventennio la lotta politica si è civilizzata, la sua legittimazione se possibile sta all’interno di forme giuridiche (si veda la vicenda ispano-catalana e il suo processo di tribunalizzazione) comunque non violente figuriamoci se sanguinarie. Già perché il giacobinismo della rivoluzione d’ottobre, teorizzato da Lenin e riconosciuto da Gramsci, che prevede l’insurrezione contro il tiranno e la sua successiva liquidazione come elementi essenziali per la liberazione di un popolo se fa paura, oggi sempre più lontana, alle classi agiate il terrore, oggigiorno, lo provoca a sinistra. Perché quel residuo di sinistra esistente riesce a riprodursi, in maniera sempre più difficoltosa, nelle forme giuridiche e nella civilizzazione dei costumi politici. Lenin rimane quindi uno scandalo impensabile.

Eppure sono due i grandi insegnamenti di Lenin e della rivoluzione d’ottobre immediatamente utili ai giorni nostri. Il primo è dovuto al fatto che i cambiamenti epocali, come le rivoluzioni classiche insegnano, si fanno solo con una rete di professionisti della politica. Magari evitando l’impressione, che ebbe Rosa Luxemburg di una Russia “governata solo da una dozzina di persone” pochi mesi dopo la rivoluzione. Uno scandalo comunque in una politica odierna che, non solo in Italia, pullula di professionisti di ogni tipo, di “tecnici” di ogni genere meno che dell’agitazione politica di massa (che è un qualcosa di più complesso che saper coltivare un account sui social media). La seconda, ed è oggetto dell’articolo che proponiamo, è che i grandi cambiamenti epocali si pensano e si progettano sapendo guardare allo scenario del capitale finanziario globale. Non esiste cambiamento, non esiste politica, non esiste scenario di rottura senza la comprensione di ciò che accade nel cielo della finanza. In poche parole, dalla comprensione di ciò che accade nella finanza, e nelle reti di potere macro e microfisico che determina, è possibile dare spessore politico all’insurrezione. Come fece Lenin nel celeberrimo, quanto oggi poco letto, Imperialismo fase suprema del capitalismo. Poco letto un po’ perché Lenin nel complesso è poco letto, un po' perché, si pensi ad autori come Gunder Frank, nel tempo il testo di Lenin, nel quale non manca un certo storicismo meccanicistico (come nel concetto di “fase suprema”), è stato visto solo come un classico della denuncia del colonialismo (e degli squilibri centro-periferia del sistema mondo). In realtà l’analisi di Lenin riguarda, oltre al colonialismo implicito nel sistema mondo della sua epoca, il complessivo movimento di quel piano di comando che si chiama capitale. In una frase celeberrima del testo sull’imperialismo Lenin, infatti, afferma: «per il vecchio capitalismo, era caratteristica l’esportazione di merci, per il nuovo capitalismo è caratteristica l’esportazione del capitale […] la necessità dell’esportazione di capitale è determinata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale […] non rimane più un campo di investimento redditizio».

Non sono frasi da poco se si considera che l’esportazione di capitale è talmente centrale, come strumento per produrre ulteriore capitale, da andare ben oltre, anche già all’epoca di Lenin tra l’altro, al semplice investimento su merci produttive per gettarsi su tutti i prodotti finanziari possibili. Del resto l’intera storia globale, dai tempi di Lenin ai giorni nostri, può leggersi come determinata dai momenti in cui i settori di capitalismo maturo, una volta che gli investimenti produttivi non si fanno più redditizi, hanno spinto i capitali finanziari a dinamiche d’esportazione. Sia produttiva che puramente finanziaria (del genere “facciamo un po' di soldi” alla Lewis Ranieri ne La grande scommessa). La globalizzazione che abbiamo conosciuto, nel momento in cui Lenin è stato praticamente dimenticato, nasce proprio su questo genere di spinta. L’articolo proposto, che riunisce due capitoli di un testo in corso d’uscita sul concetto di guerra finanziaria riguarda quindi Lenin e Mao. Lenin per il suo testo sull’imperialismo, Mao per le forza delle sue metafore. Il tentativo è quello di capire quanto Lenin aiuti a comprendere il capitalismo finanziario globale. Perché quanto più aiuta tanto più serve ad una teoria realistica della rottura politica.

Redazione, 7 novembre 2017
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La guerra finanziaria senza limiti e le categorie del politico 

La matematica può esplorare la quarta dimensione e il mondo di ciò che è possibile, ma lo zar può essere rovesciato solo nella terza dimensione. (Lenin)

A differenza di Lenin, spesso temuto quanto odiato dai suoi nemici, l’ammirazione per la retorica, e la poetica, di Mao è andata ben oltre le fila dei partiti e dei movimenti comunisti. O, meglio, l’ammirazione per Lenin, oltre i confini del movimento comunista, si è fermata con gli anni ‘20. Mao pare avere una fama vasta, ben oltre la pubblicistica comunista, tanto quanto l’impresa della lunga marcia. Alcune frasi celebri di Mao sono state citate negli ambienti più disparati. Sia perché diffuse dagli ex maoisti passati in ogni dove, sia a causa della lieve, originale delicatezza poetica con la quale Mao-Tse-Tung ornava frasi anche terribili. Ancora nel 2015, a quasi quaranta anni dalla morte e a quasi mezzo secolo dalla nascita della rivoluzione culturale, il libretto rosso veniva donato, per adornare una polemica politica, al parlamento inglese. La fama di Mao ha così superato la caduta del muro di Berlino e non solo a causa del peso della Cina che, formalmente, esiste ancora in suo nome. Questo grazie alla leggerezza della forma delle sue parole che prelude, inevitabilmente, alla forza del contenuto. E si parla di un tipo di leggerezza che si libera, spesso, dell’appartenenza al contesto feroce che l’ha generata. Come è accaduto per la frase, poi germogliata ovunque, di celebrazione della campagna di apertura del partito alla società del 1956. Quella dove Mao auspica “che cento fiori sboccino”, evidenziando con delicatezza naturalistica la necessità della nascita di inedite scuole di pensiero in Cina. La metafora, come sappiamo, è celeberrima, è fiorita ovunque. Ma è molto meno nota la severa repressione che lo stesso Mao decise, contro la libertà di espressione in Cina, poco più di un anno dopo la famosa frase. La campagna dei cento fiori era infatti sfuggita di mano al controllo del partito e le stesse persone che vi avevano aderito furono inviate, senza tanti complimenti, nei campi di rieducazione. Ma l’espressione di Mao che è poco circolata nel ventunesimo secolo, rispetto ad altre, è forse la più efficace per descrivere il terreno dove si giocano guerra finanziaria e guerra. È la notissima espressione sulla “tigre di carta” dedicata ai nemici sistemici della Cina di Mao. La frase, come qualsiasi gesto anche minore di Mao, è originale ma non estemporanea. Si riferisce al periodo in cui l’antica arte cinese del ritaglio degli animali di carta viene esplicitamente immessa tra le strategie educative alla rivoluzione. Come in questa poesia:

“Le forbicine scintillano,
il grande foglio rosso è tagliato e ritagliato:
tu ritagli la bandiera rossa che sventola a Tian’anmen,
lei ritaglia gonfie lanterne appese,
poi ritaglia un trattore che rovescia mille ettari di terra”

In questa rappresentazione di Mao il nemico come tigre di carta è qualcosa che, ad occhi occidentali come cinesi, rappresenta un processo effimero, senza sostanza, destinato a dissolversi in breve tempo nonostante i tentativi di conservazione. Ma ad occhi cinesi dell’epoca, la tigre di carta è un personaggio interno ad un sistema di rappresentazioni dove l’arte del ritaglio rappresenta un processo di abilità manuale, e di costruzione del simbolico, in grado di avviluppare il mondo. Ma, se guardiamo ai fatti, di quel mondo è proprio la tigre di carta che è sopravvissuta. Soprattutto se intendiamo come carta quella delle cedole azionarie, oggi digitalizzate in un processo di complessità di archiviazione inaudito per i tempi di Mao. E quella tigre di carta, la finanza, non solo è penetrata in Cina ma lo ha fatto su invito del braccio monetario del partito, grazie a un decreto della Banca del Popolo Cinese, il 26 novembre 1990. Con la riapertura, dopo 41 anni, della Borsa di Shangai. E nel 2016 lo Shangai Stock Exchange, solo parzialmente aperto ai capitali internazionali per non compromettere il ruolo di porta sulla Cina per i capitali globali della borsa di Hong Kong, rappresentava la quinta piazza borsistica del mondo per capitalizzazioni di mercato, la seconda in Asia. Decisamente la tigre di carta, nella versione dei mercati finanziari globali, si è fatta accettare di nuovo bene in Cina. Ma, anche qui, si trattava, come in tante leggende orientali, più di un animale di ritorno che di una novità che si presenta agli occhi del mondo. C’è infatti qualcosa che i nostri colonnelli cinesi, che hanno studiato le guerre sul campo e quelle finanziarie, conoscono bene. Le basi normative per una borsa a Shangai non sono questione solo dell’immediato ieri ma furono gettate anche dal trattato di Nanchino del 1842, che chiuse la prima guerra dell’oppio, tra il governo inglese e la dinastia Quing. Un caso, classico, di apertura militare forzosa alla globalizzazione, di finanza che segue gli esiti della guerra, che portò alla cessione di Hong Kong alla Gran Bretagna, entro un processo in grado anche di sviluppare una borsa a Shangai. Così nel 1866, all’epoca della terza guerra di indipendenza italiana, alla borsa di Shangai apparve una prima lista di titoli trattati. Appena cinque anni dopo il primo panico di borsa da speculazione da titoli, poi l’entrata dei capitali stranieri in borsa a Shangai dopo l’accordo (1895) sino-giapponese, che metteva fine alla prima grande guerra sul campo nell’epoca moderna. E poi le grandi oscillazioni, e speculazioni, del primo novecento della borsa di Shangai (su gomma e cotone). Insomma, guerra sul campo e guerra finanziaria si sono rincorse, ben prima dell’immissione di tecnologie digitali, della information warfare e della guerra contemporanea dove si connettono droni e soldati. La tigre di carta è quindi tornata in Cina, dove era già passata mietendo fascino, si pensi alle descrizioni della Shangai del primo novecento, e vittime.

Mao aveva sicuramente presente la leggenda popolare cinese del serpente bianco che esiste in innumerevoli versioni. Tante da far pensare che il serpente bianco spieghi non solo la difficoltà di distinguere moralmente i fenomeni, tra bene e male, ma anche di percepire la distinzione tra gli oggetti e le forme.

Insomma, Mao, che molto probabilmente conosceva le leggende del serpente bianco avrebbe dovuto sapere che, all’apparenza, quelle della tigre di carta erano sicuramente le forme di un nemico vecchio e fragile, da rappresentare con l’ironia nell’arte del ritaglio. Ma anche che si trattava di un’apparenza che nascondeva nuovi e terribili modi con i quali la vecchia tigre si sarebbe presentata in Cina. Invitata dallo stesso partito comunista cinese, in meno di un quarto di secolo dalla morte di Mao.

Rimane quindi da chiedersi cosa sia la dimensione del politico quando l’intreccio tra guerra finanziaria e guerra sul campo è in grado di riprodursi, nel tempo, entro vestiti tecnologici molto diversi tra loro (tanto che il telegrafo della prima borsa di Shangai e le piattaforme online e le app dello Shangai Stock Exchange sono comparabili quanto il proiettile di una catapulta e un missile). E cosa sia la politica quando, con forza, la guerra finanziaria è in grado di attraversare le epoche. Aspetto, quello dell’attraversamento della storia, che la politica credeva prerogativa propria. Ma, come nelle leggende del serpente bianco, l’apparenza confonde fino a rivelare un oggetto che porta con sé tratti inauditi di verità [...]

[...] Cominciamo con un'annotazione che potremmo trovare su qualche appunto, in un tablet o sul cellulare, di una qualsiasi analista finanziario: “Deutsche Bank, che prendiamo a considerare, è tra i più grandi gruppi bancari, se non addirittura il più grande” . Solo che l’appunto, se lo vogliamo chiamare così, non è del 2017 o del 2025 ma del 1917 e si riferisce a uno dei passi iniziali de L’imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin. Deutsche Bank non era certo il gigante dei derivati che sarebbe divenuto nel ventunesimo secolo ma era già centrale nella finanza tedesca dell’epoca e strategica a livello mondiale. Molto spesso, dopo Lenin, il concetto di imperialismo è stato declinato solo sul piano politico-militare, come capace di spiegare i motivi di golpe o invasioni, oppure per sostenere gli aspetti più illegittimi e odiosi del colonialismo di cui è stato spesso sinonimo.

Il punto è che il celebre testo sull’imperialismo è un’analisi della concentrazione finanziaria-bancaria a livello mondiale. Una analisi dove la “lotta per l’egemonia tra le banche tedesche, ci riporta sul piano della guerra finanziaria per essere ricondotta alla questione della concentrazione di potere bancario a lotta avvenuta. Lenin, che scrive dopo la sequenza di crisi di borsa che si apre nel 1873 e finisce nel 1907, si focalizza sul quanto avviene a livello bancario e non di Stock Exchange, ha una idea sfuocata dei movimenti di capitali dell’ottocento ma ha ben chiaro quello che sta avvenendo in pieno 1917 che suona familiare anche nel nostro secolo, quello  successivo: “l’inizio del secolo XX segna il punto critico del passaggio dall’antico al nuovo capitalismo, dal dominio del capitale in generale al dominio del capitale finanziario”. Il piano finanziario come la dimensione del dominio, dove Lenin cerca di entrare, grazie alle analisi di Schulze Gavernitz nel ruolo della borsa in questi processi, rispetto a quello che aveva chiamato “il capitale in generale” che rappresenta la sua visione del capitalismo produttivo, legato principalmente allo sviluppo dell’industria. A questo punto la guerra finanziaria, che in Lenin è sostanzialmente una “lotta per l’egemonia tra le banche tedesche” visti anche i limiti che si era imposto per motivi di censura, assume la generale conformazione di uno scontro che, progressivamente, riduce i posti di comando costruendo così il trionfo del capitale monopolistico. Non stupisce quindi che Lenin faccia emergere queste considerazioni: “per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale”.

Non è nell’economia di questa riflessione fare un confronto sulla lettura leniniana dell’esportazione dei capitali e il suo effettivo svolgersi nell’ottocento. Piuttosto qui è evidenziato il rapporto tra esportazione dei capitali, guerra finanziaria (che qui assume i caratteri dello scontro tra banche) e sviluppo della guerra sul campo che determina il fenomeno dell’imperialismo. Insomma guerra finanziaria e guerra sul campo si tengono assieme, in questo caso, in equilibrio. Tanto da far affermare a Lenin che negli Usa, i profitti delle cedole obbligazionarie superano di cinque volte quelli del commercio estero. L’imperialismo diviene una conseguenza quasi meccanica di questo processo: nell’egemonia della finanza sull’economia ogni conflitto, interno alla dimensione bancaria intesa come egemone sulla finanza, si risolve con una concentrazione di potere, con l’esportazione dei capitali, con la guerra ma anche con la finanza pura delle cedole azionarie. Quest’ultima, a sua volta, è il riflesso di una produzione di profitti che è superiore nel capitalismo finanziario rispetto a quello produttivo. L’imperialismo, il nesso tra finanza e guerra sul campo, in Lenin avviene quindi come necessità di garantire l’esportazione di capitale, caratteristica matura ed essenziale del capitalismo del ‘900, su nuovi territori. L’esempio cinese fatto da Lenin, proprio sui tentativi di colonizzazione militare del primo ‘900 fatti in questo paese per la costruzione di uno sbocco all’esportazione di capitali, è uno dei più calzanti per la definizione leniniana di imperialismo. La tigre di carta, intesa come carta delle cedole azionarie, rappresentata dall’imperialismo è però ben presente davanti agli occhi di Lenin. La “spartizione del mondo tra le grandi potenze” è quindi il riflesso politico-militare di due aspetti della guerra finanziaria. Il primo riguarda la necessità di trovare, fisicamente, nuovi mercati dove esportare capitali. Il secondo di garantire l’egemonia al cartello di potere vincente, nelle guerre finanziarie per il controllo dei monopoli, proprio attraverso il passaggio dalla guerra finanziaria a quella sul campo. Sono due riflessi della compiuta spazializzazione della guerra finanziaria. Quel fenomeno che porta l’esigenza dell'esportazione di capitali a trovare un campo, immediato, da conquistare per aprire mercati e immettere denaro.

Rispetto allo schema classico dell’imperialismo fissato da Lenin ci sono delle considerazioni, delle mutazioni e delle permanenze da fissare per avere un’idea non sfumata dei cambiamenti del fenomeno della guerra finanziaria. Una prima considerazione da fare è sicuramente legata all’analisi del capitale finanziario, che comunque rimane al comando dei processi produttivi in modo simile e differente rispetto alla concezione di Hilferding, analizzato qui più dal punto di vista delle banche che da quello del capitale di rischio presente in borsa. In Lenin, come in modo simile e differente per Hilferding, il capitale finanziario è visto soprattutto come un sistema integrato di finanza e industria dove la dimensione della borsa, dei capitali che si fanno con i movimenti e gli scontri tra capitali, viene messa in secondo piano.

Ma quando il primo bailout bancario moderno già viene censito nel 1837, quando una lunga teoria di crisi di borsa si distende, prima di Lenin, dal 1873 fino al 1907 è evidente che lo scoppio delle bolle, la guerra finanziaria, le crisi del capitalismo di carta devono trovare ulteriore sistemazione in questo schema. E’ evidente infatti che il capitalismo finanziario non è quella cupola rigida che governa, tramite le banche, dalla moneta alla produzione ma è anche, e sopratutto, altro. Un potente elemento di caos piuttosto che di ordine tanto per cominciare [...]

[...] Se dobbiamo invece occuparci delle mutazioni, rispetto allo scenario leniniano di inizio ventesimo secolo, possiamo affermare che è sicuramente cambiato l’equilibrio tra guerra e finanza. La dimensione finanziaria è l’aspetto decisivo, sul campo e successivamente, per misurare il successo di un conflitto. In poche parole, l’esportazione di capitali, elemento di forza del capitalismo finanziario oggi come ai tempi di Lenin (nell’esigenza di trarre profitto in questa dinamica di esportazione), deve sempre più contare sulla stessa dimensione finanziaria per risolvere dinamiche di guerra. Esemplare è qui questa considerazione presente in What U.S. Can Learn from China: l’uso del “financial warfare contro i paesi emergenti” diviene efficace molto più dell’antica guerra sul campo per convincere questi ultimi ad accettare l’esportazione del capitale altrui e condizioni commerciali migliori per il paese aggressore. Gli stati come la Cina ingaggiano, per muovere guerra finanziaria ad altri paesi, “specialisti che provengono da banche private”. La mutazione rispetto ai tempi di Lenin è evidente: la Cina, che nel testo sull’imperialismo, è il grande mercato (invano) conteso dall’imperialismo, nel nesso di allora tra guerra sul campo e guerra finanziaria, oggi diviene un paese benchmark nelle tattiche della guerra finanziaria. Quella che permette di sottomettere i paesi emergenti con un financial warfare che ottiene i risultati della guerra sul campo senza dover ingaggiare conflitti militari complessi e di difficile risoluzione: “lo stato di guerra sta uscendo dalla dimensione del massacro sanguinario esibendo una tendenza che va verso la bassa intensità di vittime, quando non la loro assenza, unita ad un’alta intensità. Quest’ultima è information warfare, guerra finanziaria.” . Queste frasi, provenienti da Guerra senza limiti, sono citate in un testo, The Oil Card, dove si cerca di capire quale sia la dimensione spaziale della guerra finanziaria nel momento in cui la guerra sul campo lascia tendenzialmente lo spazio alla guerra finanziaria nella determinazione del prezzo del petrolio.
La guerra finanziaria serve così per favorire l’export dei capitali sempre più in luogo della guerra sul campo. Il petrolio è invece il benchmark di come, e quando, coincidono le ragioni della guerra finanziaria e quelle della guerra sul campo. Oppure la prova di quando la guerra finanziaria, su questo terreno, prende piede rispetto alle ragioni “tradizionali” della guerra sul campo. La teoria dell’imperialismo, nonostante la mutata composizione del rapporto tra guerra finanziaria e guerra sul campo dai tempi di Lenin, si configura come una teoria spaziale della guerra finanziaria. Ovvero un corpo di concetti grazie al quale la guerra finanziaria trova una visualizzazione spaziale e geopolitica e un rapporto, di tipo nuovo, con la guerra sul campo [...]

[...] L’imperialismo si configura così, oggi, come una teoria spaziale della guerra finanziaria, tesa a localizzarne gli effetti sul piano geopolitico, che si sovrappone all’esercizio del primato della guerra finanziaria, rispetto a quella sul campo, che si svolge dallo spazio non naturale, quello delle transazioni tecnologiche in tempo reale. La nuova geografia della finanza, e della guerra finanziaria, è quindi composta dalla geopolitica e dalla geopolitica dello spazio non naturale. L’imperialismo, rispetto ai tempi di Lenin, si è clonato: oggi esistono un imperialismo geopolitico e uno dello spazio non naturale, tecnologico dove la guerra finanziaria appare sempre più sia lo strumento bellico principale sia lo sbocco all’esportazione dei capitali. Ad esempio l’allargamento del debito pubblico, attraverso un maggior tasso di interesse sull’emissione di bond di uno stato sovrano, è un ottimo sbocco alla necessità di esportazione di capitali per il denaro che, per moltiplicarsi, non può rimanere fermo. Intervenire per forzare l’andamento della moneta, o sui bond di questo stato sovrano, è un ottimo strumento per ottenere il proprio scopo: scatenare un conflitto finanziario sia per guadagnare subito, speculando, sia per imporre poi i propri capitali da esportare a questo paese. La quinta tigre di carta è proprio l’imperialismo. Nel duplice senso. Quello pensato da Mao, “l’imperialismo è una tigre di carta”, e quello del fatto che l’aspetto di carta, quello azionario, dell’imperialismo rappresenta l’evoluzione vincente di questo fenomeno. Quello dove la guerra finanziaria è prevalente su quella sul campo e parte dagli spazi non naturali, quelli delle transazioni tecnologicamente regolate.

Novembre 2017

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