Ci sono eventi che a distanza di
secoli pesano nella mente dei contemporanei ed altri che in poche
decine di anni svaniscono nella mente collettiva del presente. Il primo caso è quello della Repubblica romana, quella oggetto dei testi di Tito Livio, per i protagonisti degli eventi rivoluzionari del 1848 e viene ricordato proprio da Marx. Il secondo riguarda la Rivoluzione d’ottobre liquidata come problema storico dopo il 1989. Con il leader bolscevico, la cui statua viene sollevata e trascinata via in Goodbye Lenin,
che esce dalla scena in una simpatica commedia leggera tedesca. Non che
da allora, sulla scena politica e culturale, sia scomparso il concetto
di rivoluzione. E’ emerso il protagonismo delle rivoluzioni
tecnologiche e della comunicazione assieme alla depoliticizzazione
dell’idea stessa di rottura rivoluzionaria. Lo stesso concetto
di Twitter Revolution, usato per l’Iran del 2009 e le primavere arabe
suggeriva che il potenziale rivoluzionario stesse, in ultima istanza,
nell’innovazione tecnologica, di mercato frutto maturo del capitalismo
di ventura. Quella che era scomparsa, con il crollo dell’Urss e la
contemporanea operazione di esorcismo globale nei confronti del
comunismo, era la concezione della rivoluzione politica come un processo
storico in grado di rovesciare completamente l’ordine terrestre delle
cose. Insomma, la rivoluzione la grande paura delle classi
agiate che, a partire da Thomas Müntzer passando per Robespierre, era
diventata terrore atavico insopportabile con Lenin.
Si comprende quindi perché alla caduta del muro di Berlino, e con le sinistre inabili a proporre la propria egemonia politica dopo la fine del fordismo, la cultura liberale si scagliò contro Lenin e la rivoluzione d’ottobre:
da una parte perché l’ha sempre fatto dall’altra perché era l’occasione
storica di regolare i conti con decenni di terrore atavico della
rivoluzione. Del resto le residue sinistre cosa potevano fare con Lenin?
Si trattava di qualcuno che, classicamente, era troppo o troppo poco. Troppo perché la concezione e la pratica rivoluzionaria di Lenin erano
un programma (improvvisamente se guardiamo alla fortuna di Lenin ancora
negli anni ’70 citato anche da Veltroni...) troppo vasto per soggetti
politici minimalisti e disorientati come quelli dei residui di sinistra
rimasti sul campo dopo la fine del fordismo. Troppo poco perché la
lettura della società russa dei tempi di Lenin non diceva nulla a chi
doveva leggere una società ormai postfordista, tecnologica con un piano
di miseria diffuso esistente ben differente da quello dei tempi del pope
Gapon. Eppure Lenin era, e resta, un classico del machiavellismo
vincente rivoluzionario, un maestro ad uso della polemica, e della
battaglia di opinione, utile alla costruzione del partito. Tutta roba
inservibile dagli anni ’90, da quando la parola “politica” è una sorta
di marchio di infamia, a metà tra inconcludenza e corruzione, e i
fenomeni che si vogliono promuovere devono essere etichettati come
“sociali” e trovare pragmatica ed equilibrata collocazione.
Si capisce come Lenin e la rivoluzione
d’ottobre siano stati, a partire dagli anni ’90, degli strumenti inservibili.
Tanto più che, oltre a fenomeni di conclamata repulsione per l’idea
stessa di presa del potere, nell’ultimo ventennio la lotta
politica si è civilizzata, la sua legittimazione se possibile sta
all’interno di forme giuridiche (si veda la vicenda ispano-catalana e il
suo processo di tribunalizzazione) comunque non violente figuriamoci se
sanguinarie. Già perché il giacobinismo della rivoluzione
d’ottobre, teorizzato da Lenin e riconosciuto da Gramsci, che prevede
l’insurrezione contro il tiranno e la sua successiva liquidazione come
elementi essenziali per la liberazione di un popolo se fa paura, oggi
sempre più lontana, alle classi agiate il terrore, oggigiorno, lo
provoca a sinistra. Perché quel residuo di sinistra esistente riesce a
riprodursi, in maniera sempre più difficoltosa, nelle forme giuridiche e
nella civilizzazione dei costumi politici. Lenin rimane quindi uno
scandalo impensabile.
Eppure sono due i grandi insegnamenti di Lenin e della rivoluzione d’ottobre immediatamente utili ai giorni nostri. Il
primo è dovuto al fatto che i cambiamenti epocali, come le rivoluzioni
classiche insegnano, si fanno solo con una rete di professionisti della
politica. Magari evitando l’impressione, che ebbe Rosa
Luxemburg di una Russia “governata solo da una dozzina di persone” pochi
mesi dopo la rivoluzione. Uno scandalo comunque in una politica odierna
che, non solo in Italia, pullula di professionisti di ogni tipo, di
“tecnici” di ogni genere meno che dell’agitazione politica di massa (che
è un qualcosa di più complesso che saper coltivare un account sui
social media). La seconda, ed è oggetto dell’articolo che
proponiamo, è che i grandi cambiamenti epocali si pensano e si
progettano sapendo guardare allo scenario del capitale finanziario
globale. Non esiste cambiamento, non esiste politica, non
esiste scenario di rottura senza la comprensione di ciò che accade nel
cielo della finanza. In poche parole, dalla comprensione di ciò che
accade nella finanza, e nelle reti di potere macro e microfisico che
determina, è possibile dare spessore politico all’insurrezione. Come
fece Lenin nel celeberrimo, quanto oggi poco letto, Imperialismo fase suprema del capitalismo.
Poco letto un po’ perché Lenin nel complesso è poco letto, un po'
perché, si pensi ad autori come Gunder Frank, nel tempo il testo di
Lenin, nel quale non manca un certo storicismo meccanicistico (come nel
concetto di “fase suprema”), è stato visto solo come un classico della
denuncia del colonialismo (e degli squilibri centro-periferia del
sistema mondo). In realtà l’analisi di Lenin riguarda, oltre al
colonialismo implicito nel sistema mondo della sua epoca, il complessivo
movimento di quel piano di comando che si chiama capitale. In una frase
celeberrima del testo sull’imperialismo Lenin, infatti, afferma: «per
il vecchio capitalismo, era caratteristica l’esportazione di merci, per
il nuovo capitalismo è caratteristica l’esportazione del capitale […]
la necessità dell’esportazione di capitale è determinata dal fatto che
in alcuni paesi il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale
[…] non rimane più un campo di investimento redditizio».
Non sono frasi da poco se si considera
che l’esportazione di capitale è talmente centrale, come strumento per
produrre ulteriore capitale, da andare ben oltre, anche già all’epoca di
Lenin tra l’altro, al semplice investimento su merci produttive per
gettarsi su tutti i prodotti finanziari possibili. Del resto
l’intera storia globale, dai tempi di Lenin ai giorni nostri, può
leggersi come determinata dai momenti in cui i settori di capitalismo
maturo, una volta che gli investimenti produttivi non si fanno più
redditizi, hanno spinto i capitali finanziari a dinamiche
d’esportazione. Sia produttiva che puramente finanziaria (del
genere “facciamo un po' di soldi” alla Lewis Ranieri ne La grande
scommessa). La globalizzazione che abbiamo conosciuto, nel momento in
cui Lenin è stato praticamente dimenticato, nasce proprio su questo
genere di spinta. L’articolo proposto, che riunisce due capitoli di un
testo in corso d’uscita sul concetto di guerra finanziaria riguarda
quindi Lenin e Mao. Lenin per il suo testo sull’imperialismo, Mao per le
forza delle sue metafore. Il tentativo è quello di capire quanto Lenin
aiuti a comprendere il capitalismo finanziario globale. Perché quanto
più aiuta tanto più serve ad una teoria realistica della rottura
politica.
Redazione, 7 novembre 2017
*****
La guerra finanziaria senza limiti e le categorie del politico
La matematica può esplorare la
quarta dimensione e il mondo di ciò che è possibile, ma lo zar può
essere rovesciato solo nella terza dimensione. (Lenin)
A
differenza di Lenin, spesso temuto quanto odiato dai suoi nemici,
l’ammirazione per la retorica, e la poetica, di Mao è andata ben oltre
le fila dei partiti e dei movimenti comunisti. O, meglio, l’ammirazione
per Lenin, oltre i confini del movimento comunista, si è fermata con gli
anni ‘20. Mao pare avere una fama vasta, ben oltre la pubblicistica
comunista, tanto quanto l’impresa della lunga marcia. Alcune frasi
celebri di Mao sono state citate negli ambienti più disparati. Sia
perché diffuse dagli ex maoisti passati in ogni dove, sia a causa della
lieve, originale delicatezza poetica con la quale Mao-Tse-Tung ornava
frasi anche terribili. Ancora nel 2015, a quasi quaranta anni dalla
morte e a quasi mezzo secolo dalla nascita della rivoluzione culturale,
il libretto rosso veniva donato, per adornare una polemica politica, al
parlamento inglese. La fama di Mao ha così superato la caduta del muro
di Berlino e non solo a causa del peso della Cina che, formalmente,
esiste ancora in suo nome. Questo grazie alla leggerezza della forma
delle sue parole che prelude, inevitabilmente, alla forza del contenuto.
E si parla di un tipo di leggerezza che si libera, spesso,
dell’appartenenza al contesto feroce che l’ha generata. Come è accaduto
per la frase, poi germogliata ovunque, di celebrazione della campagna di
apertura del partito alla società del 1956. Quella dove Mao auspica
“che cento fiori sboccino”, evidenziando con delicatezza naturalistica
la necessità della nascita di inedite scuole di pensiero in Cina. La
metafora, come sappiamo, è celeberrima, è fiorita ovunque. Ma è molto
meno nota la severa repressione che lo stesso Mao decise, contro la
libertà di espressione in Cina, poco più di un anno dopo la famosa
frase. La campagna dei cento fiori era infatti sfuggita di mano al
controllo del partito e le stesse persone che vi avevano aderito furono
inviate, senza tanti complimenti, nei campi di rieducazione. Ma
l’espressione di Mao che è poco circolata nel ventunesimo secolo,
rispetto ad altre, è forse la più efficace per descrivere il terreno
dove si giocano guerra finanziaria e guerra. È la notissima espressione
sulla “tigre di carta” dedicata ai nemici sistemici della Cina di Mao.
La frase, come qualsiasi gesto anche minore di Mao, è originale ma non
estemporanea. Si riferisce al periodo in cui l’antica arte cinese del
ritaglio degli animali di carta viene esplicitamente immessa tra le
strategie educative alla rivoluzione. Come in questa poesia:
“Le forbicine scintillano,
il grande foglio rosso è tagliato e ritagliato:
tu ritagli la bandiera rossa che sventola a Tian’anmen,
lei ritaglia gonfie lanterne appese,
poi ritaglia un trattore che rovescia mille ettari di terra”
In questa rappresentazione di Mao il
nemico come tigre di carta è qualcosa che, ad occhi occidentali come
cinesi, rappresenta un processo effimero, senza sostanza, destinato a
dissolversi in breve tempo nonostante i tentativi di conservazione. Ma
ad occhi cinesi dell’epoca, la tigre di carta è un personaggio interno
ad un sistema di rappresentazioni dove l’arte del ritaglio rappresenta
un processo di abilità manuale, e di costruzione del simbolico, in grado
di avviluppare il mondo. Ma, se guardiamo ai fatti, di quel mondo è
proprio la tigre di carta che è sopravvissuta. Soprattutto se intendiamo
come carta quella delle cedole azionarie, oggi digitalizzate in un
processo di complessità di archiviazione inaudito per i tempi di Mao. E
quella tigre di carta, la finanza, non solo è penetrata in Cina ma lo ha
fatto su invito del braccio monetario del partito, grazie a un decreto
della Banca del Popolo Cinese, il 26 novembre 1990. Con la riapertura,
dopo 41 anni, della Borsa di Shangai. E nel 2016 lo Shangai Stock Exchange, solo
parzialmente aperto ai capitali internazionali per non compromettere il
ruolo di porta sulla Cina per i capitali globali della borsa di Hong
Kong, rappresentava la quinta piazza borsistica del mondo per
capitalizzazioni di mercato, la seconda in Asia. Decisamente la tigre di
carta, nella versione dei mercati finanziari globali, si è fatta
accettare di nuovo bene in Cina. Ma, anche qui, si trattava, come in
tante leggende orientali, più di un animale di ritorno che di una novità
che si presenta agli occhi del mondo. C’è infatti qualcosa che i nostri
colonnelli cinesi, che hanno studiato le guerre sul campo e quelle
finanziarie, conoscono bene. Le basi normative per una borsa a Shangai
non sono questione solo dell’immediato ieri ma furono gettate anche dal
trattato di Nanchino del 1842, che chiuse la prima guerra dell’oppio,
tra il governo inglese e la dinastia Quing. Un caso, classico, di
apertura militare forzosa alla globalizzazione, di finanza che segue gli
esiti della guerra, che portò alla cessione di Hong Kong alla Gran
Bretagna, entro un processo in grado anche di sviluppare una borsa a
Shangai. Così nel 1866, all’epoca della terza guerra di indipendenza
italiana, alla borsa di Shangai apparve una prima lista di titoli
trattati. Appena cinque anni dopo il primo panico di borsa da
speculazione da titoli, poi l’entrata dei capitali stranieri in borsa a
Shangai dopo l’accordo (1895) sino-giapponese, che metteva fine alla
prima grande guerra sul campo nell’epoca moderna. E poi le grandi
oscillazioni, e speculazioni, del primo novecento della borsa di Shangai
(su gomma e cotone). Insomma, guerra sul campo e guerra finanziaria si
sono rincorse, ben prima dell’immissione di tecnologie digitali, della information warfare
e della guerra contemporanea dove si connettono droni e soldati. La
tigre di carta è quindi tornata in Cina, dove era già passata mietendo
fascino, si pensi alle descrizioni della Shangai del primo novecento, e
vittime.
Mao aveva sicuramente presente la
leggenda popolare cinese del serpente bianco che esiste in innumerevoli
versioni. Tante da far pensare che il serpente bianco spieghi non solo
la difficoltà di distinguere moralmente i fenomeni, tra bene e male, ma
anche di percepire la distinzione tra gli oggetti e le forme.
Insomma, Mao, che molto probabilmente
conosceva le leggende del serpente bianco avrebbe dovuto sapere che,
all’apparenza, quelle della tigre di carta erano sicuramente le forme di
un nemico vecchio e fragile, da rappresentare con l’ironia nell’arte
del ritaglio. Ma anche che si trattava di un’apparenza che nascondeva
nuovi e terribili modi con i quali la vecchia tigre si sarebbe
presentata in Cina. Invitata dallo stesso partito comunista cinese, in
meno di un quarto di secolo dalla morte di Mao.
Rimane quindi da chiedersi cosa sia la
dimensione del politico quando l’intreccio tra guerra finanziaria e
guerra sul campo è in grado di riprodursi, nel tempo, entro vestiti
tecnologici molto diversi tra loro (tanto che il telegrafo della prima
borsa di Shangai e le piattaforme online e le app dello Shangai Stock
Exchange sono comparabili quanto il proiettile di una catapulta e un
missile). E cosa sia la politica quando, con forza, la guerra
finanziaria è in grado di attraversare le epoche. Aspetto, quello
dell’attraversamento della storia, che la politica credeva prerogativa
propria. Ma, come nelle leggende del serpente bianco, l’apparenza
confonde fino a rivelare un oggetto che porta con sé tratti inauditi di
verità [...]
[...] Cominciamo con un'annotazione che potremmo trovare su qualche appunto, in un tablet o sul cellulare, di una qualsiasi analista finanziario: “Deutsche Bank,
che prendiamo a considerare, è tra i più grandi gruppi bancari, se non
addirittura il più grande” . Solo che l’appunto, se lo vogliamo chiamare
così, non è del 2017 o del 2025 ma del 1917 e si riferisce a uno dei
passi iniziali de L’imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin. Deutsche Bank
non era certo il gigante dei derivati che sarebbe divenuto nel
ventunesimo secolo ma era già centrale nella finanza tedesca dell’epoca e
strategica a livello mondiale. Molto spesso, dopo Lenin, il concetto di
imperialismo è stato declinato solo sul piano politico-militare, come
capace di spiegare i motivi di golpe o invasioni, oppure per sostenere
gli aspetti più illegittimi e odiosi del colonialismo di cui è stato
spesso sinonimo.
Il punto è che il celebre testo
sull’imperialismo è un’analisi della concentrazione finanziaria-bancaria
a livello mondiale. Una analisi dove la “lotta per l’egemonia tra le
banche tedesche, ci riporta sul piano della guerra finanziaria per
essere ricondotta alla questione della concentrazione di potere bancario
a lotta avvenuta. Lenin, che scrive dopo la sequenza di crisi di borsa
che si apre nel 1873 e finisce nel 1907, si focalizza sul quanto avviene
a livello bancario e non di Stock Exchange, ha una idea
sfuocata dei movimenti di capitali dell’ottocento ma ha ben chiaro
quello che sta avvenendo in pieno 1917 che suona familiare anche nel
nostro secolo, quello successivo: “l’inizio del secolo XX segna il
punto critico del passaggio dall’antico al nuovo capitalismo, dal
dominio del capitale in generale al dominio del capitale finanziario”.
Il piano finanziario come la dimensione del dominio, dove Lenin cerca di
entrare, grazie alle analisi di Schulze Gavernitz nel ruolo della borsa
in questi processi, rispetto a quello che aveva chiamato “il capitale
in generale” che rappresenta la sua visione del capitalismo produttivo,
legato principalmente allo sviluppo dell’industria. A questo punto la
guerra finanziaria, che in Lenin è sostanzialmente una “lotta per
l’egemonia tra le banche tedesche” visti anche i limiti che si era
imposto per motivi di censura, assume la generale conformazione di uno
scontro che, progressivamente, riduce i posti di comando costruendo così
il trionfo del capitale monopolistico. Non stupisce quindi che Lenin
faccia emergere queste considerazioni: “per il vecchio capitalismo,
sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica
l’esportazione di merci; per il recente capitalismo, sotto il dominio
dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale”.
Non è nell’economia di questa
riflessione fare un confronto sulla lettura leniniana dell’esportazione
dei capitali e il suo effettivo svolgersi nell’ottocento. Piuttosto qui è
evidenziato il rapporto tra esportazione dei capitali, guerra
finanziaria (che qui assume i caratteri dello scontro tra banche) e
sviluppo della guerra sul campo che determina il fenomeno
dell’imperialismo. Insomma guerra finanziaria e guerra sul campo si
tengono assieme, in questo caso, in equilibrio. Tanto da far affermare a
Lenin che negli Usa, i profitti delle cedole obbligazionarie superano
di cinque volte quelli del commercio estero. L’imperialismo diviene una
conseguenza quasi meccanica di questo processo: nell’egemonia della
finanza sull’economia ogni conflitto, interno alla dimensione bancaria
intesa come egemone sulla finanza, si risolve con una concentrazione di
potere, con l’esportazione dei capitali, con la guerra ma anche con la
finanza pura delle cedole azionarie. Quest’ultima, a sua volta, è il
riflesso di una produzione di profitti che è superiore nel capitalismo
finanziario rispetto a quello produttivo. L’imperialismo, il
nesso tra finanza e guerra sul campo, in Lenin avviene quindi come
necessità di garantire l’esportazione di capitale, caratteristica matura
ed essenziale del capitalismo del ‘900, su nuovi territori. L’esempio
cinese fatto da Lenin, proprio sui tentativi di colonizzazione militare
del primo ‘900 fatti in questo paese per la costruzione di uno
sbocco all’esportazione di capitali, è uno dei più calzanti per la
definizione leniniana di imperialismo. La tigre di carta, intesa come
carta delle cedole azionarie, rappresentata dall’imperialismo è però ben
presente davanti agli occhi di Lenin. La “spartizione del mondo tra le
grandi potenze” è quindi il riflesso politico-militare di due aspetti
della guerra finanziaria. Il primo riguarda la necessità di trovare,
fisicamente, nuovi mercati dove esportare capitali. Il secondo di
garantire l’egemonia al cartello di potere vincente, nelle guerre
finanziarie per il controllo dei monopoli, proprio attraverso il
passaggio dalla guerra finanziaria a quella sul campo. Sono due riflessi
della compiuta spazializzazione della guerra finanziaria. Quel fenomeno
che porta l’esigenza dell'esportazione di capitali a trovare un campo,
immediato, da conquistare per aprire mercati e immettere denaro.
Rispetto allo schema classico
dell’imperialismo fissato da Lenin ci sono delle considerazioni, delle
mutazioni e delle permanenze da fissare per avere un’idea non sfumata
dei cambiamenti del fenomeno della guerra finanziaria. Una prima
considerazione da fare è sicuramente legata all’analisi del capitale
finanziario, che comunque rimane al comando dei processi produttivi in
modo simile e differente rispetto alla concezione di Hilferding,
analizzato qui più dal punto di vista delle banche che da quello del
capitale di rischio presente in borsa. In Lenin, come in modo simile e
differente per Hilferding, il capitale finanziario è visto soprattutto
come un sistema integrato di finanza e industria dove la dimensione
della borsa, dei capitali che si fanno con i movimenti e gli scontri tra
capitali, viene messa in secondo piano.
Ma quando il primo bailout
bancario moderno già viene censito nel 1837, quando una lunga teoria di
crisi di borsa si distende, prima di Lenin, dal 1873 fino al 1907 è
evidente che lo scoppio delle bolle, la guerra finanziaria, le crisi del
capitalismo di carta devono trovare ulteriore sistemazione in questo
schema. E’ evidente infatti che il capitalismo finanziario non è quella
cupola rigida che governa, tramite le banche, dalla moneta alla
produzione ma è anche, e sopratutto, altro. Un potente elemento di caos
piuttosto che di ordine tanto per cominciare [...]
[...] Se dobbiamo invece occuparci delle
mutazioni, rispetto allo scenario leniniano di inizio ventesimo secolo, possiamo affermare che è
sicuramente cambiato l’equilibrio tra guerra e finanza. La dimensione
finanziaria è l’aspetto decisivo, sul campo e successivamente, per
misurare il successo di un conflitto. In poche parole, l’esportazione di
capitali, elemento di forza del capitalismo finanziario oggi come ai
tempi di Lenin (nell’esigenza di trarre profitto in questa dinamica di
esportazione), deve sempre più contare sulla stessa dimensione
finanziaria per risolvere dinamiche di guerra. Esemplare è qui questa
considerazione presente in What U.S. Can Learn from China: l’uso del “financial warfare
contro i paesi emergenti” diviene efficace molto più dell’antica guerra
sul campo per convincere questi ultimi ad accettare l’esportazione del
capitale altrui e condizioni commerciali migliori per il paese
aggressore. Gli stati come la Cina ingaggiano, per muovere guerra
finanziaria ad altri paesi, “specialisti che provengono da banche
private”. La mutazione rispetto ai tempi di Lenin è evidente: la Cina,
che nel testo sull’imperialismo, è il grande mercato (invano) conteso
dall’imperialismo, nel nesso di allora tra guerra sul campo e guerra
finanziaria, oggi diviene un paese benchmark nelle tattiche della guerra finanziaria. Quella che permette di sottomettere i paesi emergenti con un financial warfare
che ottiene i risultati della guerra sul campo senza dover ingaggiare
conflitti militari complessi e di difficile risoluzione: “lo stato di
guerra sta uscendo dalla dimensione del massacro sanguinario esibendo
una tendenza che va verso la bassa intensità di vittime, quando non la
loro assenza, unita ad un’alta intensità. Quest’ultima è information warfare, guerra finanziaria.” . Queste frasi, provenienti da Guerra senza limiti, sono citate in un testo, The Oil Card, dove
si cerca di capire quale sia la dimensione spaziale della guerra
finanziaria nel momento in cui la guerra sul campo lascia
tendenzialmente lo spazio alla guerra finanziaria nella determinazione
del prezzo del petrolio.
La guerra finanziaria serve così per favorire l’export dei capitali sempre più in luogo della guerra sul campo. Il petrolio è invece il benchmark
di come, e quando, coincidono le ragioni della guerra finanziaria e
quelle della guerra sul campo. Oppure la prova di quando la guerra
finanziaria, su questo terreno, prende piede rispetto alle ragioni
“tradizionali” della guerra sul campo. La teoria dell’imperialismo,
nonostante la mutata composizione del rapporto tra guerra finanziaria e
guerra sul campo dai tempi di Lenin, si configura come una teoria
spaziale della guerra finanziaria. Ovvero un corpo di concetti grazie al
quale la guerra finanziaria trova una visualizzazione spaziale e
geopolitica e un rapporto, di tipo nuovo, con la guerra sul campo [...]
[...] L’imperialismo si configura così,
oggi, come una teoria spaziale della guerra finanziaria, tesa a
localizzarne gli effetti sul piano geopolitico, che si sovrappone
all’esercizio del primato della guerra finanziaria, rispetto a quella
sul campo, che si svolge dallo spazio non naturale, quello delle
transazioni tecnologiche in tempo reale. La nuova geografia della
finanza, e della guerra finanziaria, è quindi composta dalla geopolitica
e dalla geopolitica dello spazio non naturale. L’imperialismo, rispetto
ai tempi di Lenin, si è clonato: oggi esistono un imperialismo
geopolitico e uno dello spazio non naturale, tecnologico dove la guerra
finanziaria appare sempre più sia lo strumento bellico principale sia lo
sbocco all’esportazione dei capitali. Ad esempio l’allargamento del
debito pubblico, attraverso un maggior tasso di interesse sull’emissione
di bond di uno stato sovrano, è un ottimo sbocco alla necessità di
esportazione di capitali per il denaro che, per moltiplicarsi, non può
rimanere fermo. Intervenire per forzare l’andamento della moneta, o sui bond
di questo stato sovrano, è un ottimo strumento per ottenere il proprio
scopo: scatenare un conflitto finanziario sia per guadagnare subito,
speculando, sia per imporre poi i propri capitali da esportare a questo
paese. La quinta tigre di carta è proprio l’imperialismo. Nel duplice
senso. Quello pensato da Mao, “l’imperialismo è una tigre di carta”, e
quello del fatto che l’aspetto di carta, quello azionario,
dell’imperialismo rappresenta l’evoluzione vincente di questo fenomeno.
Quello dove la guerra finanziaria è prevalente su quella sul campo e
parte dagli spazi non naturali, quelli delle transazioni
tecnologicamente regolate.
Novembre 2017
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