Avessero scritturato Maurizio Crozza, con un solo onorario avrebbero quasi sicuramente risparmiato sui compensi delle decine di attori e il risultato sarebbe stato anche più divertente: l’obiettivo era in ogni caso quello di rendere i protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre e il ruolo da essi svolto nel quindicennio precedente – come direbbe appunto il Crozza-De Luca – dei “personaggetti” da operetta. E l’operetta dovrebbe essere l’avvenimento che, per i lavoratori dell’intero pianeta, ha segnato il novecento: la presa del potere da parte degli operai e del loro partito.
Da domenica scorsa, stanno andando in onda su due diversi canali della televisione russa due distinti serial che, definire ispirati alle vicende dei rivoluzionari russi del ‘900, significa prendersi gioco del pubblico televisivo. “Il demone della rivoluzione” (Lenin) e “Trotskij” potrebbero benissimo inserirsi sulla scia delle italiche rivisitazioni televisive, finto-psicologiche, sui gerarchi del ventennio. Con la differenza che questi ultimi vengono accuratamente presentati come estremamente “umani”, nel solco della vulgata degli “italiani brava gente”, travolti purtroppo da circostanze terribili al di fuori del loro controllo; mentre i rivoluzionari bolscevichi non sono stati altro che “demoni”, cospiratori finanziati da stati stranieri, infatuati delle proprie personali brame di dominio e sopraffazione, anche dell’uno sull’altro. Snob, aristocratici di fine belle époque che trascorrono il tempo tra Francia, Svizzera, Austria, Inghilterra, in lussuosi caffè, esclusivi palchi a teatro, appartamenti nobiliari e, tra un incontro e l’altro con inviati dei governi imperiali giapponesi (anche per la guerra russo-giapponese e la rivoluzione del 1905, le trame di film e documentari non possono fare a meno “dell’oro di Tokyo”) austriaci o tedeschi, o con loro emissari (Aleksandr Parvus) preparano il “tragico destino” dell’operoso popolo russo, tramando, in combutta anche con alcuni circoli liberali, per abbattere la “statualità russa” incarnata nello zar.
Una statualità durante la quale il Sacro impero si stava sviluppando economicamente – ci viene raccontato in decine di documentari in onda da settimane – al pari e forse più dei maggiori stati europei e che è stata vigliaccamente liquidata da pochi terroristi (esemplificativa, la vicenda di Vera Zasulič, per quanto antecedente al movimento socialdemocratico e della sua “ignobile” pistolettata contro il generale Trepov e l’ancora più “indicibile” assoluzione in giudizio) estranei ai sentimenti di concordia nazionale.
Le pose e i gesti di Lenin, resi in forma a dir poco comica – qualcuno ha paragonato la scena della sua danza sul cornicione e la sua lotta sul medesimo tetto parigino con Trotskij, per costringerlo a schierarsi con lui, a un remake dello scontro tra il dott. Moriarty e Sherlock Holmes – come pure l’accentuazione smodata del suo rotacismo fonetico, in ambedue le soap opere sembrano studiate apposta per ispirare solo antipatia, dipingendo un personaggio nevrastenico e sopraffattore, specialmente nei rapporti personali. In ogni caso, il capo bolscevico appare, soprattutto in “Trotskij”, un “personaggetto” di secondo o terzo piano, accomunato al protagonista principale da una sfrenata mania di superiorità, ma inferiore a lui per autorevolezza individuale e soprattutto politica.
In una vicenda ridotta a disputa psico-familiare tra affettati circoli di emigrati (nello specifico, il termine indica persone estranee all’anima russa) è pressoché totalmente trascurato l’attore primo della storia: il proletariato russo.
E se gli atteggiamenti da primadonna di Trotskij servono in un caso a contrapporre la sua “enorme” figura, a inizi ‘900 già in grado di competere con Sigmund Freud nel suo salotto viennese, a quella di un apparentemente giovanissimo e ostentatamente “insignificante” Stalin (ma, non erano coetanei?!) poi, in un’altra occasione, gli stessi atteggiamenti sono utili a metterne in ridicolo la vanagloria allorché, durante la guerra civile, furioso di fronte a un reparto ubriaco dell’Esercito Rosso, si rabbonisce immediatamente alla proposta di farsi fotografare insieme ai soldati.
Questa è la rappresentazione oggi, in Russia, della Rivoluzione d’Ottobre; con Vladimir Putin che parla dei presunti “controversi risultati”, dell’intreccio tra “conseguenze negative e positive” e si chiede se “davvero non sarebbe stato possibile uno sviluppo non attraverso la rivoluzione, su una strada evolutiva, non a prezzo della distruzione dello stato e della spietata eliminazione di milioni di destini umani, ma attraverso un graduale e conseguente movimento in avanti?”. Con il presidente della Russia postsovietica che, all’avvicinarsi della festa dell’Unità nazionale (che dal 2005 si celebra il 4 novembre, a ricordo dell’insurrezione contro il dominio polacco, nel 1612, mentre il 7 novembre è giorno lavorativo) aveva detto di sperare che tale festa venga “percepita dalla nostra società come linea di confine con i drammatici eventi che avevano diviso il paese e il popolo, che essa diverrà il simbolo del superamento di quella divisione, il simbolo del reciproco perdono”. E a tale scopo, per “superare la divisione del popolo” provocata dalla Rivoluzione, da tempo si inaugurano sempre nuove targhe agli “eroi” sanguinari (l’ammiraglio Kolčak, per dirne solo uno) della reazione bianca e a Ekaterinburg già si stanziano 90 milioni di rubli per il 2018, ad espiazione nel centenario della fucilazione della famiglia zarista.
E se ancora Vladimir Vladimirovič, nel messaggio indirizzato ai rappresentanti delle organizzazioni comuniste internazionali riunite a Mosca in occasione del centenario della Rivoluzione, ha affermato che importante è attenersi ai fatti storici, non si può dire che gli autori di “Trotskij” e de “Il demone della rivoluzione” se ne siano curati. Ben altra, per fortuna, è stata la storia sovietica e dei rivoluzionari che vi si incarnarono, rispetto a quella così sfacciatamente ridisegnata; e se qualcuno di essi, per indole personale da protagonista mancato e per percorsi politici “mai completamente bolscevichi”, si è ritrovato a tentare avventure golpiste (ricordate il “Tecnica del colpo di stato” di Malaparte?) e a propugnare l’abbattimento del socialismo, i rivoluzionari comunisti, prima e dopo la Rivoluzione, hanno sempre dimostrato di esser spinti non certo dalle manie personali dei televisivi cospiratori di celluloide, ma solo dagli interessi popolari, fino al vero e proprio ascetismo.
Proprio oggi, intervistato da Russkaja Vesna, il regista e attore Vladimir Men’šov, ricorda come, durante la tanto vituperata epoca staliniana, “i Commissari del popolo morissero nei propri uffici, sopraffatti dal lavoro. Ma sono stati proprio loro a creare tutto ciò di cui godono oggi gli oligarchi! Abbiamo oggi olio e gas siberiani, grazie a persone che avevano stipendi normali, vivevano in trilocali e disponevano al massimo di una dača. Nell’ottobre 1917 il paese fece una grande scelta e credo sia stato il periodo più creativo nella storia della Russia. Che ottimismo travolgente! L’intera società era infiammata. Nei più remoti villaggi penetravano i richiami del potere sovietico all’uomo: migliorati, cresci! Studia costantemente! Arricchisciti nell’istruzione, nelle capacità! Solo nell’Unione Sovietica il figlio di una povera mungitrice poteva diventare giornalista militare, studiare nelle migliori università. Da dove sono sorti i nostri scrittori, i matematici, i grandi fisici? Il ventesimo secolo è quello della Russia. Per 70 anni siamo stati la lanterna, il faro per tre quarti dell’umanità. L’onda della liberazione dal colonialismo è venuta senza dubbio per la nostra influenza. Ed è quindi tanto più oltraggioso vedere che stiamo abdicando a questa grande eredità”
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