L’allarme sulla rinnovata vulnerabilità del sistema finanziario internazionale questa volta viene dall’Ocse. Secondo il ‘Business and Finance Outlook’ dell’Ocse, si stanno palesando diversi rischi che possono fermare la crescita nell’economia globale. Si tratta della fine delle politiche espansive delle banche centrali che potrebbe innescare un periodo di volatilità, dei persistenti fattori di vulnerabilità del settore finanziario, dove una volta “passata la festa è stato gabbato lo santo” (cioè le misure di controllo dopo la crisi dei subprime del 2007/2008) e degli alti livello di debito in particolare in Cina, su cui sono stati puntati i riflettori dopo la fortissima espansione del credito negli ultimi 10 anni.
C’è forte preoccupazione sugli Npl (i Non Performings Loans ossia i crediti deteriorati) delle banche europee, che seppur diminuiti restano troppo alti, c’è preoccupazione per il fatto che i mercati si sono abituati al “denaro facile” emesso dalle banche centrali (Quantitative Easing), che ha portato ad una sopravvalutazione di obbligazioni e azioni.
Finita la pacchia del denaro facile, adesso dovrebbe essere il settore privato ad assorbire più obbligazioni, oltre a quelle che arriveranno sul mercato per l’abbandono del Quantitative Easing.
Ad esempio, secondo i dati mensili forniti dalla Bce e riferiti dalla Reuters, ad agosto gli acquisti di titoli di stato italiani sono stati pari a 3,598 miliardi di euro il mese scorso, contro i 4,069 miliardi di luglio, mentre a livello di Eurozona, a fine agosto il portafoglio di titoli del settore pubblico acquistati nell’ambito del programma di quantitative easing è salito a 2.059,246 miliardi dai 2.036,627 del mese precedente. A fine dicembre tutto questo finirà.
I titoli pubblici nella pancia delle banche centrali sono ormai numeri rilevanti: i bilanci delle banche centrali degli Usa, dell’area euro, del Regno Unito e del Giappone sono passati da circa 3,2 trilioni di dollari nel gennaio 2007 a circa 15 trilioni all’inizio del 2018. “Il che porta a stimare che le banche centrali in questione dovranno ‘alleggerirsi’ di asset per circa 10 trilioni di dollari per tornare ai livelli del 2007. Gli istituti centrali potrebbero decidere di detenere più asset rispetto all’ante-crisi, ma comunque ci vorranno anni per la normalizzazione, tanto più che al momento solo negli Usa i tassi d’interesse hanno iniziato a tornare verso la normalità” commenta Il Sole 24 Ore.
Inoltre l’accordo tra le banche centrali, conosciuto come Basilea 3 – scrivono gli esperti dell’Ocse – ha sì raggiunto l’obiettivo di assicurare la solidità del sistema finanziario in situazioni di stress, ma la normalizzazione delle politiche monetarie e la fine del QE le obbligherà a riallocare gli assets accumulati il che porterà a una maggiore volatilità dei prezzi nei tempi a venire.
Lo stesso accordo Basilea 3, non ha intaccato la filosofia delle banche, soprattutto di quelle “troppo grandi per fallire”, ed ha lasciato che il loro modello di business fosse simile a quello precedente alla crisi del 2007/2008, non producendo quella necessaria separazione tra le attività di banca d’investimento e quelle di deposito e non eliminando o limitando l’uso dei derivati finanziari che tanti danni hanno prodotto.
Secondo il documento dell’Ocse “Questo crea leva e contribuisce al rischio finanziario”. Oltre tutto, “usare i derivati in questo modo non aiuta l’economia reale”. I numeri dei derivati finanziari restano altissimi: il loro valore nozionale, era di 532 trilioni di dollari nella seconda metà del 2017, una cifra non molto distante dai 586 trilioni nella seconda metà del 2007, poco prima dello scoppio della crisi. Secondo l’Ocse su questo terreno hanno fatto meglio Usa e la Gran Bretagna che non Ue e Svizzera che teme le dimensioni di eventuali bail-in nelle banche europee e le loro ripercussioni sull’intero sistema finanziario internazionale.
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