Il giro a l’izquierda in America Latina, la svolta a
sinistra che ha visto l’andata al potere di governi progressisti in
Argentina e Brasile e la nascita di regimi variamente definiti
postneoliberisti, populisti di sinistra o socialismi del secolo XXI in
Bolivia, Ecuador e Venezuela non ha mai suscitato l’entusiasmo delle
sinistre radicali (autonomi e trotskisti in particolare). Negri,
ad esempio, ha definito Chavez e Correa come due ducetti fascisti e
dichiarato che il liberismo è preferibile al loro neosviluppismo
statalista; quanto ai trotskisti, è noto che qualsiasi regime che non
segua la loro linea politica (cioè tutti, visto che non hanno mai svolto
un ruolo egemone in qualsiasi processo rivoluzionario – ad eccezione di
Trotsky, che non era trotskista) è per loro un nemico.
Questa postura ideologica riflette sentimenti e interessi di
quell’ampio e variegato corpaccione di ceti medi latino americani
(professori, studenti, funzionari pubblici, artigiani, piccoli
imprenditori e commercianti, nuove professioni “creative”, tutti coloro
che si è ormai soliti chiamare “ceto medio riflessivo”) che, ancor più
di quello di casa nostra, oscilla fra reazione e sovversivismo piccolo
borghese. Quando i movimenti di massa avanzano, come è avvenuto fra fine
anni Novanta e inizio del Duemila, costoro si accodano, lucrando
vantaggi economici, ideali e di status sociale (le costituzioni
bolivariane registrano non a caso i desiderata dei “nuovi movimenti” che
hanno appoggiato i processi rivoluzionari in cambio del riconoscimento
di certi diritti individuali). Ma quando il gioco si fa duro, perché il
nemico contrattacca e la crisi economica morde ai garretti, si
dissociano prontamente, denunciando l’autoritarismo e il falso
progressismo dei governi che hanno appoggiato fino a ieri, e salutando
con entusiasmo il ritorno dei vecchi padroni.
Riscontro tracce di questo mood in un articolo di Daniele Benzi, dal titolo “Chiuso per fallimento (e lutto”),
pubblicato da “Sinistrainrete”. Ho conosciuto Benzi, ricercatore che
vive e lavora da diversi anni in America Latina, cinque anni fa, in
occasione di un viaggio in Ecuador. Discutendo con lui avevo registrato
un punto di convergenza e molti punti di divergenza: concordavamo
sull’errore, comune a tutti i governi progressisti del subcontinente, di
puntare sull’estrattivismo per finanziare le politiche sociali,
trascurando gli sforzi per modificare la matrice produttiva.
Tuttavia io criticavo quella scelta dal punto di vista di Samir Amin,
giudicandola cioè come un insufficiente impegno di “delinking” dal
mercato globale, necessario per riconquistare sovranità nazionale (a
partire dalla sovranità monetaria e alimentare), mentre lui contestava
(negrianamente) la possibilità stessa di sganciarsi dall’egemonia
liberista. Io esprimevo perplessità su un progetto politico
eccessivamente basato sulla leadership carismatica, progetto al quale
lui contrapponeva (secondo i canoni dell’ideologia statalista e
orizzontalista dei nuovi movimenti) improbabili “rivoluzioni dal basso”.
Nel frattempo io ho avuto modo di rivalutare (soprattutto in relazione
al contesto europeo) le teorie di Laclau sulla forma populista della
lotta di classe nell’attuale fase storica, lui di scivolare dalla
critica a un odio feroce per i protagonisti del giro a l’izquierda,
fino a salutare con malcelata soddisfazione (non inganni il titolo) la
vittoria del fascista Bolsonaro in Brasile in quanto segna il definitivo
tramonto dell’illusione bolivariana.
L’attacco più duro è nei confronti del Venezuela, sede della
trasformazione “di un non mai chiarito socialismo del XXI secolo in una
cleptocrazia pretoriana”, un Paese, scrive Benzi, che rischia
un’invasione e/o una guerra civile “qualora certe trame geopolitiche
fuori controllo del governo lo rendessero conveniente o necessario
(sic!)”. Siamo dunque all’incitamento all’invasione da parte del regime
reazionario della Colombia sostenuto dagli Stati Uniti!? Del resto
perché stupirsi: non abbiamo ascoltato dichiarazioni di simpatia di
certi troskisti nei confronti del governo nazista di Kiev sostenuto da
Ue e Nato (in nome di un odio antirusso che ha preso il posto dell’odio
antisovietico)? Non assistiamo quotidianamente agli attacchi delle
“sinistre” occidentali contro il regime siriano di Assad (che, con
notevole sprezzo del ridicolo, ha preso il posto di Saddam come “nuovo
Hitler”) a favore di una “opposizione democratica” che ha il volto
criminale di Al Qaeda (finanziata dagli Usa, per esplicita ammissione di
madama Clinton).
Ma attenzione: tornando in America Latina, Benzi ci mette in guardia
contro il complottismo: chi parla di “guerre economiche”, golpe
parlamentari”, “guerre mediatiche e giudiziarie”, contro i regimi
progressisti dice solo fesserie, i poveri americani non c’entrano nulla
in questa controffensiva su scala continentale. Queste “rivoluzioni
passive” sono fallite per loro esclusiva responsabilità e non saranno
“la stabilità economica boliviana né il carisma di Linera
(sprezzantemente chiamato il Vice) a ribaltare la fine del ciclo”.
Linera, raffinato teorico marxista e combattente rivoluzionario che ha
gustato guerriglia e galera, non ha bisogno che io lo difenda dalle
punzecchiature di un nanetto, ma fa ugualmente specie sentir irridere
una rivoluzione alla quale i simili di Benzi hanno partecipato come un
pugno di parassiti a rimorchio dei movimenti di massa.
Due parole, per finire sull’uso del concetto di “rivoluzione
passiva”. Per Gramsci si tratta di fasi storiche in cui, nell’assenza di
cosciente iniziativa popolare, il progresso avviene come risposta delle
classi dominanti a sporadiche esplosioni sovversive: si conserva il
potere concedendo qualcosa alle esigenze popolari. Posto: 1) che le
rivoluzioni in questione sono avvenute sotto la spinta di potenti
sollevazioni di massa e non di sporadiche esplosioni; 2) che hanno dato
origine a situazioni di dualismo di potere, in cui quest’ultimo non è
stato (o meglio: non era stato finora) restituito alle vecchie élite, è
chiaro che la definizione non calza. Però fa comodo a Benzi e soci per
rivendicare come unico elemento rivoluzionario lo striminzito contributo
di minoranze politiche e sociali che si sono fatte trainare dal flusso
storico e, nel momento del riflusso, voltano le spalle alle masse e
invocano il “ritorno della democrazia” (manca che si avvolgano nella
bandiera a stelle e strisce).
Il “lutto” evocato del titolo è un capolavoro di ipocrisia (in realtà
brindano alla fine cantando “noi lo avevamo detto da subito”), quanto
al fallimento riguarda esclusivamente loro, in quanto autori di idee
fallite a priori, viceversa le sconfitte rivoluzionarie sono battaglie
perse che non chiudono il discorso perché la storia non è finita e
perché, come diceva Guevara, chi lotta può perdere, chi non lotta ha già
perso.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento