L’attuale fase politica dell’Esagono è caratterizzata da un’agenda serrata per ciò che concerne il governo, impegnato ad affrontare alcuni dossier rilevanti, tra cui l’approvazione del corrispettivo francese del Documento di Programmazione Economico Finanziaria, il “budget” d’Oltralpe.
Allo stesso tempo, questo periodo ha fatto emergere la capacità di contrasto della France Insoumise con l’elaborazione di proposte circostanziate sui singoli temi affrontati che stanno particolarmente a cuore alla popolazione francese.
Due questioni hanno un ruolo di primo piano: la prima è relativa al programma di “transizione” ecologica che intende intraprendere il governo, dopo le dimissioni “a sorpresa” del suo popolare ministro Nicolas Hullot il 28 agosto scorso.
Le esplicite dichiarazioni di Hullot sul potere delle lobby nel processo decisionale governativo, che hanno minato la capacità di scelte coerenti con il programma annunciato riguardo alle tematiche ambientali, sono state un monito che ha ricevuto una particolare attenzione presso una opinione pubblica sempre più sensibile ai temi ecologici.
“Spero che il governo trarrà delle lezioni”, aveva detto il ministro dimissionario contestualmente alla sua dipartita.
Considerato il potere dei gruppi di pressione dei giganti economici nell’attuale configurazione governativa, che ha recentemente conosciuto un nuovo rimpasto, si può essere realisticamente dubbiosi sul fatto che queste lezioni siano state imparate.
La seconda questione rilevante è il modello sociale che l’attuale maggioranza governativa vuole costruire rivedendo il profilo dello “stato sociale” francese.
Durante il suo discorso di fronte al Parlamento riunito in Congresso a Versailles il 10 luglio, Emmanuel Macron aveva affermato, sorprendendo più di una persona, che: “la priorità dell’anno che viene è semplice: noi dobbiamo costruire l’Etat-providence del ventunesimo secolo”.
Durante la sua campagna elettorale il leader di En Marche! aveva espressamente dichiarato di ispirarsi al sistema di “Flex-security” di tipo scandinavo, un modello che – è sempre bene ricordarlo – ha notevolmente peggiorato la condizioni delle classi subalterne di quel quadrante, minando il consenso delle forze politiche che avevano co-gestito il più avanzato contratto sociale continentale e spianato così la strada alle forze dell’estrema destra, facendole uscire dall’irrilevanza politica a cui era state relegate dal dopo-guerra in avanti.
In realtà Macron sembra avere scelto un modello di stampo più anglosassone che scandinavo, ma in ogni caso vuole “mettere in soffitta” un modello di relazioni ed un contratto sociale ereditato dal Conseil national de la résistance nel 1945; cioè un sistema gestito da partner sociali – i cosiddetti corpi intermedi – e basato sugli oneri sociali versati da salariati ed imprese.
Questo “modello” va verso una transizione che richiede una modifica anche formale della Costituzione, come proposto da Olivier Véran, deputato LREM de l’Isère, che ha proposto questa estate – suscitando vivaci reazioni – di sostituire pressoché ovunque nella costituzione il termine “Sécurité Sociale” con “Protezione Sociale”.
Vanno in questo senso le proposte di “omogeneizzazione” dei 42 sistemi di regime pensionistico in un unico sistema di pensioni o la creazione di un “reddito universale” (revenu universel d’activité), che fonderebbe differenti prestazioni sociali erogate senza però sapere esattamente quali...
Altre due problematiche, per quanto rimosse nel dibattito politico pubblico, stanno emergendo al centro della questione sociale francese e sono pressoché ignorate dalla maggioranza governativa: la sostanziale stabilità nel paese della quota di disoccupati, in particolare di lungo periodo, e la perdita di posti di lavoro nel settore industriale, cui solo alcuni settori come il lusso e l’aeronautica, o alcune regioni particolarmente dinamiche, sembrano sottrarsi.
Il caso dell’acciaieria Ascoval, che impiega direttamente 281 lavoratori, a rischio chiusura, senza un accordo tra Vallourec e il nuovo proprietario, malgrado l’intervento governativo, ha riaperto la questione del dissanguamento del “settore”.
Entrambe le questioni sono strettamente legate alla configurazione della divisione del lavoro e alle politiche sociali conseguenti alle scelte adottate dall’Unione Europea, che appunto aumenta la divaricazione tra regioni “ricche” e “povere” all’interno dello stato-nazione secondo una logica ascrivibile allo sviluppo ineguale, oltre a cronicizzare una quota consistente di lavoratori che non “possono” trovare spazio all’interno del mercato del lavoro, se non a condizioni semi-schiavistiche.
Un’altra questione di prim’ordine – che qui accenniamo solamente – è il tema delle diseguaglianze nel sistema scolastico, che sono state messe a nudo da un interessante ricerca dal Consiglio nazionale di valutazione del sistema scolastico (Cnesco) della regione parigina, che ha evidenziato chiaramente la disparità di opportunità di cui soffrono gli alunni. Come ha commentato la presidentessa del Cnesco, Nathalie Mons: “non vedere le disuguaglianze, vuol dire assumersi il rischio di non sapere come meglio affrontarle”.
Ci sono nella Francia “metropolitana” – secondo le rilevazioni basate sui dati raccolti dai pôle emplois e non secondo le statistiche elaborate dal Bureau International du travail – 2 milioni e 450 mila persone che cercano un impiego, di cui una parte consistente risultano essere disoccupati di lunga durata.
Secondo Alexandre Delaigue, ricercatore all’università di Lille-I: “la disoccupazione di lunga durata è stata talmente rilevante in Francia che alcuni hanno smesso di cercare lavoro e sono scomparsi dagli elenchi”, rinunciando ad iscriversi agli enti preposti.
In campagna elettorale Macron aveva promesso di abbassare entro fine mandato il tasso d’occupazione al 7% della popolazione attiva, ma a più di un anno e mezzo dal suo insediamento sul fronte della disoccupazione di massa nulla è cambiato.
Le boutade di Macron – che sembravano attribuire la disoccupazione, o una condizione sociale particolarmente vulnerabile, ad una scarsa volontà dei singoli che si trovavano in quella condizione – non hanno fatto che aumentare la percezione popolare del sostanziale “disinteresse” con cui il leader di En Marche! affronta queste delicate questioni.
Con una battuta si può dire che la macronie parla spesso di creazione di posti di lavoro, ma ignora la disoccupazione.
Perché se cresce relativamente l’occupazione, ma la metà dei contratti registrati sono a tempo determinato (vengono contabilizzati quelli superiori ad un mese), la disoccupazione “non decresce”.
Questo “paradosso francese” è in realtà comune al mercato del lavoro continentale.
Un altro tassello importante è stata il drastico abbassamento dei contrats aidés.
In un anno il numero di questa tipologia di contratti, di cui godevano soprattutto le fasce più deboli della popolazione, tra cui i disoccupati di lunga durata, è passato da 474.000 a 280.000, colpendo particolarmente le regioni più “povere” della Francia.
Questi contratti erano sovvenzionati fino al 95% al netto del salario minimo intercategoriale, riservati al settore “non imprenditoriale” e teoricamente dovevano servire come “cuscinetto sociale” e di accompagnamento al lavoro.
Il governo li ha notevolmente ridotti, con la giustificazione basata su studi empirici, secondo i quali solo poco più di un quarto di coloro che ne beneficiavano riuscivano a trovare uno sbocco nel mercato del lavoro sei mesi dopo la fine.
Il loro posto è stato preso dai parcours emploi competence (PEC) creati nel gennaio di quest’anno, molto più ferrei sulla formazione e molto meno sovvenzionati rispetto ai dispositivi precedenti, che si affiancano allo sviluppo della “garanzia giovani” (garantie jeune), modellati per i 16-25enni in situazione di grande precarietà, che prevedono il versamento di una quota pari a 485 euro al mese, un tutoraggio individuale e 24 giorni di esperienza lavorativa in una impresa.
È chiaro che anche queste misure si iscrivono più nel solco del modello anglosassone del “Workfare” o “Welfare to work” piuttosto che nell’assistenza sociale in sé, e non affrontano strutturalmente le cause delle regioni “abbandonate” con un tasso di disoccupazione e di povertà più alto, spesso “a fianco” dei circuiti metropolitani.
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Approfondiamo ora i due dossier, quello ecologico e quello del modello sociale.
“Le Monde” di mercoledì 24 ottobre cita un importante studio epidemiologico pubblicato due giorni prima nella rivista JAMA Internal Medicine, che mette in correlazione il consumo di cibo biologico e la riduzione del rischio di sviluppare patologie cancerogene di circa il 25%, che raggiunge il 34% per il cancro al seno post-menopausa e il 76% per i linfomi (un tipo di tumore del sangue).
Come spiega l’epidemiologo Philippe Landrigan, ricercatore presso il Boston College, negli Stati Uniti: “uno dei risultati significativi di queste conclusioni è che sono largamente coerenti con i risultati degli studi condotti sull’esposizione professionale ai pesticidi. Questo rafforza notevolmente il fatto che sia plausibile il legame tra gli effetti messi in luce e la presenza di residui di pesticidi nell’alimentazione”.
Gli fa eco, Remy Slama che afferma: “questo nuovo lavoro si somma a un edificio di prove già importanti secondo cui, nella catena alimentare, si depositano residui di pesticidi sintetici classificati “cancerogeni probabili”, attualmente autorizzati o interdetti, ma che sono presenti nei suoli e nell’ambiente”.
Il tema dei pesticidi, e del “rinvio” del loro divieto da parte dei deputati della maggioranza, è particolarmente sentito in Francia ed è stato uno dei casus belli anche nell’elettorato di En Marche!.
Sullo studio, cui è stata data la giusta rilevanza dalla stampa internazionale, torna Stépahne Foucart in un articolo su “Le Monde” – domenica 28 ottobre – che mette in evidenza i valori di un particolare tipo di “linfomi” detti “non-hodgkinien”(LNH), citando un precedente studio britannico del 2014 che, pur giungendo a conclusioni differenti, “ha messo in evidenza una riduzione significativa del rischio del 21% dei LNH tra i più grandi consumatori di cibo biologico”.
Numerosi studi hanno dimostrato che gli LNH sono tra le tipologie cancerogene che colpiscono maggiormente gli agricoltori che fanno uso di pesticidi.
Ci troviamo, secondo l’autore dell’articolo, davanti ad un “fascio di indici concordanti” che devono far riflettere, al di là della retorica sul rigore della ricerca scientifica, per cercare di rimuovere quelle cause che assumono sempre più una incontestabile valenza empirica e dunque hanno bisogno di essere affrontate politicamente.
Le cifre fornite sulla progressione delle malattie tumorali negli ultimi decenni sono impressionanti anche a livello mondiale, ma restando nei confini francesi questi sono i dati: “in Francia, i quattro registri più anziani (Doubs, Isère, Bas-Rhin, Calvados) risalgono alla fine degli anni Settanta. Dopo questo periodo, indicano un aumento dell’incidenza degli LNH compresa tra il 115% e 135%.”
Le tematiche ambientali dovranno essere affrontate quest’autunno nella programmazione pluriannuale dell’energia (PPE), cioè la road-map energetica della Francia, e nella futura legge d’orientamento delle mobilità (LOM), che dovrebbe permettere ai francesi di muoversi più facilmente ma tutelando l’ambiente.
Macron, il 16 ottobre, ha promesso delle “decisioni storiche e strutturali” sulle tematiche ambientali che saranno al centro del dibattito per le prossime elezioni europee, e i successi in Germania e in Belgio di forze politiche “centriste” d’ispirazione ecologica, come i “Verdi”, sembrano confermare questo trend.
La riduzione della dipendenza energetica francese dal nucleare, che dovrebbe essere ridotta dall’attuale 75% al 50% entro il 2025, rischia di essere posticipata al 2035, mentre la chiusura delle centrali (quante ed entro quando?) e il passaggio alle rinnovabili – tra cui l’eolico – sono al centro del dossier ambientale e saranno oggetto del contendere con i padroni dell’energia, EDF in testa.
Proprio EDF chiede che la chiusura dei siti nucleari non incominci prima del 2029 e che lo stato s’impegni nella costruzione di un EPR: un impianto nucleare di ultima generazione dal costo esorbitante e dalla incerta realizzazione, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello dell’industria nucleare francese anche a livello internazionale.
Secondo un sondaggio di Odoxa, pubblicato da Challenges lo scorso giovedì, il 53% delle persone intervistate dichiarano di opporsi alla “produzione di energia con le centrali nucleari”. In un’inchiesta di BVA, del settembre 2013, il 67% erano allora favorevoli.
Un dato, quello della maggiore coscienza ambientale, non solo rispetto al nucleare, confortato da altri sondaggi, come ha confermato il direttore generale delegato dell’IPSOS: “I francesi sono sempre più sensibili alla preoccupazione per l’ambiente. Anche se si colloca molto dopo la disoccupazione e il potere d’acquisto, questa cresce continuamente. E la crescita ha conosciuto un leggero rialzo questa estate”.
Macron ha incontrato il 24 ottobre l’establishment dell’energia, in una sessione di lavoro con una trentina di dirigenti del settore, ma esclude dal confronto le ONG che si occupano dall’ambiente e coloro che sono collegati all’eolico: un chiaro segnale di deficit democratico e di cultura del non-confronto nel voler co-determinare scelte strategiche, che si reitera in diversi campi secondo la strategia del “rullo compressore” decisionista, perno della narrazione macroniana, che ha mostrato in poco tempo falle sempre più evidenti.
La transizione ecologica, incentivazione dell’agricoltura biologica e promozione dell’educazione alimentare, drastica riduzione del nucleare sulla produzione di energia e passaggio alle energie rinnovabili, tutela dell’ambiente a tutto tondo e mobilità sostenibile, sono invece uno degli assi principali della France Insoumise.
Per ciò che concerne il “modello sociale”, appare evidente il deficit di dibattito pubblico promosso dal governo, che intanto attua sia una politica di notevoli sgravi fiscali alle imprese sia l’annullamento di alcuni oneri sociali per incrementare il potere d’acquisto dei salariati, assumendo su di sé – statalizzandole – alcune funzioni espropriandole ai partner sociali.
I deputati sono stati chiamati in questi giorni a discutere il progetto di legge di finanziamento della Sicurezza Sociale (PLFSS), un piano che secondo i suoi critici mira alla demolizione della Sicurezza Sociale così come è stata costruita nel dopoguerra.
È sempre bene ricordare che il piano di “riforma costituzionale”, che doveva essere una delle priorità dei cinque anni di presidenza Macron, è stata posticipato nell’agenda politica anche a causa dello scoppio dell’affaire Benalla e dall’imposizione delle commissioni d’inchiesta all’Assemblea Generale e al Senato, che hanno di fatto impedito la discussione.
Sia detto di sfuggita, ma la guardia pretoriana del Presidente – le cui funzioni e poteri non sono ancora stati del tutto chiariti, in una vicenda che non ha per nulla perso opacità e che si arricchisce sempre più di particolari inquietanti – ha dichiarato al processo di “essere fiero di avere fatto ciò che ha fatto”, riferendosi al pestaggio di una coppia di manifestanti alla manifestazione del Primo Maggio a Parigi, insieme a M. Crase (gendarme della riserva all’Eliseo e membro della sicurezza della LREM), che quel giorno portava con sé – senza alcuna autorizzazione – una pistola Glock 17.
Contractors con funzioni molto elevate, che senza alcuna reale giustificazione, da semplici “osservatori” hanno preso un ruolo attivo nella repressione di piazza.
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Alla luce di quanto scritto, non sembra peregrino pensare che l’attuale maggioranza governativa e le lobby che la supportano, in forte crisi di legittimità, cerchino di screditare l’unica forza in grado di ricompattare un ampio fronte politico-sociale d’opposizione e fornire una credibile proposta alternativa, implementando il programma con cui aveva riscosso quasi il 20% dei consensi alle elezioni presidenziali di più di un anno e mezzo fa.
La proposta politica avanzata dalla France Insoumise sta assumendo una configurazione continentale sempre più consistente, in termini di adesioni, coordinamento e di “centralità” delle questioni poste. L’intervento di Jean Luc Mélenchon di fronte agli esponenti del GUE, la scorsa settimana, ha spiegato le modalità e la natura politica dell’attacco subito nelle scorse settimane ed ha ben delineato la strategia della FI in Francia. Le prese di posizione successive sullo “scontro” tra governo italiano e Commissione Europea riguardo al DPEF hanno dato un respiro “europeo” alla sua figura, facendo riemergere la natura del dispositivo politico-economico dell’Unione e il suo strutturale deficit di democraticità, di cui Macron è un fedele esecutore.
Allo stesso tempo, il suo intervento all’Assemblea in Francia ha ribadito la centralità della critica alla UE ed evidenziato “l’eterogenesi dei fini”, col palese contrasto tra le aspettative positive riposte nella costruzione dell’edificio politico dell’Unione e l’attuale realtà dei fatti rispetto a una serie di questioni: dalla tendenza alla guerra all’impoverimento crescente della popolazione, alla questione della tutela ambientale, l’Unione Europea – da ipotetica utopia – ha dimostrato di essere una concreta distopia.
La conferenza stampa degli avvocati dei coinvolti nelle due “indagini preliminari” che hanno portato alle spettacolari perquisizioni a membri della France Insoumise, ai sequestri di svariato materiale, e agli “interrogatori” fiume successivi, ha fatto il punto replicando alle accuse mosse, e ha richiesto una prassi che offrisse sufficienti garanzie di difesa e una maggiore indipendenza dell’azione giudiziaria dall’esecutivo, considerando che allo stato attuale queste minime condizioni non sono soddisfatte.
Su questa vicenda non si può che essere d’accordo con l’Eurodeputato socialista Emmanuel Maurel – uscito dal PS insieme ad altri esponenti della sinistra del suo ex partito per formare una lista comune con la FI – che ha dichiarato, premettendo “se dovessi fare una provocazione”, “non credo che esista alcun affare Mélenchon, al massimo c’è un affaire Macron”.
Ha dichiarato che in altri tempi – parlando dell’epoca gaullista – una attacco così diretto all’opposizione avrebbe scaturito ben altra reazione nel “corpo” della sinistra, chiamando a dimostrazioni di piazza.
Un ulteriore conferma di come, anche Oltralpe, “federare la sinistra” non abbia alcun senso, mentre assume sempre più importanza il progetto degli Insoumise di “Federare il Popolo”, molto più cosciente del pericolo della macronie e della legittimità della reazione collerica e compatta della dirigenza degli insoumis.es, considerata da fasce sempre più crescenti l’unica exit strategy vincente dall’attuale corso politico-sociale.
Un principio basilare dell’arte militare insegna che il più debole se non è scemo attacca per primo, ed è ciò che ha fatto Macron, sbagliando probabilmente i calcoli e non contemplando l’effetto boomerang che ha invece suscitato; non solo tra gli aderenti alla France Insoumise (aumentati di 3.000 unità dopo le perquisizioni), ma in una parte rilevante della popolazione, che ha visto nell’inchiesta giudiziario il colpo di coda di un “monarca repubblicano”.
Il progetto della FI è stato fin qui capace di influenzare sulle sue tematiche un spettro più ampio di forze, e soprattutto di sviluppare un polo politico d’attrazione che sta esercitando una egemonia reale, in grado di agglutinare o di incentivare parti del “vecchio” ceto politico, dissanguando – di fatto spaccando – il partito socialista, attirando esponenti dei verdi e condizionando parti del PCF più inclini ad un confronto con gli insoumis.es che non al “ripiegamento identitario” o alle alleanze “a destra”, come quella con il movimento Génération di B.Hamon.
Per parafrasare uno dei maggiori storici nord-americani, Eric Foner, in tempi di grandi cambiamenti la determinazione nel portare avanti un programma, patrimonio di una minoranza – in termini di rappresentanza politica pregressa – può dare voce alle aspirazioni popolari e portare a conquiste impensabili fino a poco tempo prima.
Questa è la sfida.
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