Con questa sortita il giovine democristiano abbandona definitivamente i panni del “capopopolo antisistema” per indossare quelli dell’establishment (“la kasta!”). E nella versione peggiore, quella salviniana, impastata di menzogne, razzismo, legalismo a senso unico (mai nei confronti dei potenti o dei ricchi, come dimostra il condono confermato dopo lo scandaletto della “manina”) e presa in giro quotidiana del “pubblico pagante”.
Un “difensore integerrimo della legalità”, oltretutto assurto al ruolo di bi-ministro e vicepremier, dovrebbe in teoria essere dotato di uno staff adeguato in grado di fornirgli le informazioni giuste per non fare figuracce in giro. Se esiste questo staff e gli passa le informazioni, il bi-ministro dovrebbe anche leggerle prima di sparare giudizi su vicende che sono giudiziariamente ancora aperte, quindi dall’esito non predeterminabile da un politico in vena di chiacchiere. Per esempio, per sua informazione, dopo il Tribunale del riesame, di 15 capi di imputazione ne è rimasto in piedi soltanto uno (altro che “sono state violate molte leggi“).
Se avesse trovato il tempo e l’interesse per informarsi sulla vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano, il bi-ministro avrebbe potuto apprendere che tutto parte da un “piccolo” conflitto di interessi. Non a carico di Mimmo, ma della sua prima accusatrice, un’ispettrice ministeriale incaricata di monitorare tutti i progetti Sprar della Calabria (quindi anche quello di Riace), ma a sua volta co-interessata a far crescere il proprio Sprar, figurativamente intestato al compagno di vita una volta investita dell’autorità di ispezione da parte del ministero dell’interno.
Il tutto, ripetiamo, è iniziato al tempo in cui il ministro dell’interno non era ancora Salvini, ma Marco Minniti, forse futuro segretario di quel partito, ma certamente calabrese a sua volta. Con – diciamo così – una certa conoscenza degli ambienti politici, funzionariali e “imprenditoriali” di quella regione.
Ecco, Luigi Di Maio arriva decisamente ultimo, e in perfetta continuità, come un qualsiasi Maramaldo, nella fila dei nemici del “modello Riace” (nella foto, a colloquio con Mimmo, c’è l’eurodeputata del MoVimento 5 stelle, Laura Ferrara).
Un’esperienza, come spiega il giudice cosentino Emilio Sirianni, che fa risaltare la criminalità congenita del modello costruito negli anni dai diversi ministri dell’interno (Alfano, Minniti, Salvini), ovvero quello delle “mega strutture, rese inaccessibili dall’esterno e gestite con modalità note”.
A voi la ricostruzione della vicenda fatta Raiawadunia e dal giudice Sirianni.
Buona lettura, ministro!
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Riace: il giudice Sirianni spiega il conflitto d’interessi dell’ispettrice che ha inguaiato Lucano
Raiawadunia
Uno dei primi interventi a porre quantomeno la questione su chi ha prodotto l’infame relazione su Riace, alla base del clamoroso arresto di stamattina del sindaco Domenico Lucano, è stato il giudice cosentino Emilio Sirianni. Rimasto unico e solo. Dalle colonne del Manifesto, poco meno di due anni fa, e all’indomani della diffusione del famigerato video in cui Lucano si dice disponibile a dirottare un finanziamento regionale, il giudice spiega che quella in atto contro Lucano è una vera e propria guerra per togliergli la gestione dell’accoglienza a Riace, a favore di un sistema diverso che guarda solo ai profitti e poco all’umanità, e dice: “Perché l’affare funzioni, però, il modello deve essere quello delle mega strutture, rese inaccessibili dall’esterno e gestite con modalità note”. Perciò le realtà piccole come Riace danno fastidio. Impediscono il diffondersi del grande business sui migranti. Ed è per questo, secondo il giudice, che Lucano si trova nel bel mezzo di una tempesta. Il giudice, che è anche il responsabile di Magistratura Democratica di Catanzaro, è talmente convinto di ciò che dice che non ha problemi a suggerire ai “colleghi” di dare una occhiata su chi ha prodotto quella relazione, perché dalla firma apposta si può capire anche il perché.
E dice riferendosi ai “controllori”: “Peccato, questo nessuno lo dice, che tanto nella struttura regionale che fra gli addetti al servizio centrale Sprar, abbondino i conflitti di interessi, cioè siano presenti persone che hanno la gestione di enti o associazioni che beneficiano di contributi per l’accoglienza o che l’hanno avuta, per poi passarla a prossimi congiunti. Come nel caso dell’ispezione a Riace”.
Capito? Sirianni sprona i compagni e le istituzioni a fare il nome di questa ispettrice, senza però nulla sortire, infatti il suo appello cade nel vuoto. Ma allo steso tempo spiega che la relazione su Riace potrebbe non essere una relazione obiettiva dato che l’ispettrice, prima di diventare tale, ha gestito per lustri progetti Sprar, per poi passarli al compagno quando è diventata ispettrice. Il nome lo abbiamo fatto noi ieri: l’ispettrice si chiama Enza Papa e il compagno si chiama Alessandro Gordano, a cui ha passato il progetto Sprar di Cosenza che nessuno ha mai controllato proprio perché l’ispettrice è la compagna.
Quindi è il giudice, seppur con parole garbate, a suggerire un controllo sia ai progetti del compagno dell’ispettrice, sia sull’ispettrice stessa che ispeziona tutti i progetti Sprar della Calabria, tranne quello del suo compagno. In sostanza l’ispettrice fa risultare il progetto di Riace e tutti gli altri scadenti e truffaldini, col fine di favorire quello del suo compagno che non ricevendo ispezioni, risulta sempre il primo della classe. Un conflitto d’interessi grande quanto una montagna.
Di seguito l’intervento integrale del giudice Emilio Sirianni pubblicato dal Manifesto nel dicembre del 2016:
Fermo immagine sul viso di Mimmo Lucano, l’audio, quasi incomprensibile, lascia intendere la sua voce e quella di due interlocutori. Parlano in dialetto, si capisce solo che parlano di un’opera da realizzare con finanziamento pubblico. Il contesto iconico è del giornalismo d’inchiesta televisivo, in sovraimpressione didascalie come «Mimmo Lucano, l’uomo che ha preso per il culo il mondo!».
Riavvolgiamo il nastro. Alcuni mesi fa, rappresentanti del servizio centrale Sprar, dopo una verifica a campione sul sistema di accoglienza di Riace, muovono diversi rilievi critici. I principali, la non adeguatezza di talune abitazioni, l’uso della moneta locale inventata dal sindaco per evitare che i migranti risentano dei ritardi negli accrediti.
Avanti veloce ed eccoci ad oggi. Lucano denuncia gli attacchi ricevuti, manifesta tutta la sua amarezza e mette il mandato a disposizione dei suoi consiglieri e dei cittadini che chiama a un pubblico confronto per il giorno 30. Subito dopo l’annuncio, la Mediateca comunale che avrebbe dovuto ospitare l’incontro è devastata da ignoti. Questa, la premessa.
L’ALTRO FILM. E' da diversi anni che Mimmo Lucano mi onora della sua amicizia. Da quando vidi il cortometraggio dedicato a lui e alla sua Riace da Wim Wenders e lessi le parole pronunciate dal regista ad una platea di disorientati premi Nobel, accorsi alla porta di Brandeburgo per l’anniversario della caduta del muro. Wenders raccontò d’aver visto l’Utopia realizzata nella misera e dimenticata terra di Calabria, nella Riace di Lucano. Quasi mi precipitai lì e rimasi sopraffatto, come non può non esserlo chiunque sia dotato del minimo sindacale d’empatia per il dolore degli uomini e la loro capacità di riscatto.
EROE SCOMODO. Se, però, da un lato, Mimmo è celebrato come eroe anche da riviste importanti, se ogni anno centinaia di giovani raggiungono la sua Riace da tutta Europa per campi di volontariato e riceve lettere ammirate da Papa Francesco, dall’altro, quel modello d’accoglienza è scomodo nell’Europa dei muri e delle connesse fortune politiche, degli hotspot e della vetrina-Lampedusa, progettata per occultare gli interessi geopolitici e militari che presiedono al sistema del pattugliamento del Mediterraneo. È un modello scomodo anche nel Sud degli eterni Gattopardi, in cui il detto di Tomasi di Lampedusa s’incarna nel dilagare del business dell’accoglienza: milioni di euro sparsi a pioggia e centinaia di associazioni «umanitarie» a spartirsi il bottino.
IL BUSINESS. Perché l’affare funzioni, però, il modello dev’essere quello delle mega strutture, rese inaccessibili dall’esterno e gestite con modalità note. Nella mia Calabria sono decine gli alberghi ormai in disuso da anni convertiti allo scopo. Stipandovi i migranti, dopo qualche tinteggiatura di facciata, è agevole lucrare bei soldoni, facendo la cresta sulla qualità del cibo e sui servizi o violando impuniti le soglie di capienza.
RIACE, invece, ha i suoi nuovi cittadini nelle vecchie case degli emigrati, donate all’amministrazione e ristrutturare in economia, spesso con il lavoro degli stessi inquilini. Certo, non sono hotel a cinque stelle, ma vi si conduce la vita dignitosa di molti calabresi onesti. Soprattutto da eguali fra eguali. Riace non sconta i lunghi tempi morti fra un finanziamento e un altro, perché, come dice Mimmo, le persone mangiano tutti i giorni. Così ha inventato la moneta locale, un sistema semplice: banconote stampate dal Comune e distribuite ai migranti, che le usano presso gli esercizi del paese, i cui gestori collaborano, restituendole poi al Comune e ricevendone il controvalore, una volta giunti i finanziamenti. Si eliminano i tempi morti, ma non è previsto dal regolamento, ecco allora i rilievi.
I CONTROLLORI. Peccato, questo nessuno lo dice, che tanto nella struttura regionale che fra gli addetti al servizio centrale Sprar, abbondino i conflitti di interessi, cioè siano presenti persone che hanno la gestione di enti o associazioni che beneficiano di contributi per l’accoglienza o che l’hanno avuta, per poi passarla a prossimi congiunti. Come nel caso dell’ispezione a Riace.
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