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19/10/2018

Verso il 20 ottobre. Intervista al prof. Francesco Petrini

A ridosso della manifestazione del 20 ottobre per rivendicare la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, consideriamo utile pubblicare un’intervista da noi realizzata questa estate a Francesco Petrini, professore presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova.

Oggetto della chiacchierata erano stati la genesi e lo sviluppo delle istituzioni dell’Unione Europea. Una battuta su tutte: gli organismi comunitari vedevano la luce mentre contemporaneamente in Italia si stava per animare il dibattito che alla fine del 1962 avrebbe visto la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e già allora la Cee ebbe un ruolo nel fornire a Confindustria argomentazioni favorevoli a osteggiare questo risultato. Cinquanta e più anni dopo, siamo qui a raccogliere i cocci delle reti infrastrutturali nazionali privatizzate sotto la spinta della consolidata architettura comunitaria, e come giovani continuiamo a essere il target prescelto per una propaganda ormai già stantia secondo cui le privatizzazioni dovrebbero essere l’orizzonte di un futuro desiderabile. Sappiamo invece il danno che hanno provocato in questi decenni, e come l’infiltrazione dei meccanismi ordoliberali all’interno dell’amministrazione statale abbia condizionato anche istituzioni ancora formalmente in mano al controllo pubblico: il caso emblematico del mondo della formazione e della ricerca, ancora pubblico ma sempre più rivolto agli interessi del mercato, ci permette di parlare di una eterogenesi dei fini in cui la semplice rivendicazione di maggiori investimenti pubblici nel settore, tanto cara alla sinistra, risulta una lancia spuntata quando non porta addirittura acqua al mulino dei sostenitori della costruzione di pochi modelli di eccellenza. Nazionalizzare quindi significa invertire questa rotta mettendo un bastone negli ingranaggi delle macine che ci stanno tritando, riportare al centro gli interessi del pubblico con un cambio di prospettiva sistemico che va ben aldilà della mera titolarità sulla proprietà delle reti, dei beni e dei mezzi. Nazionalizzare è oggi una parola d’ordine di rottura con il quadro delle compatibilità, un concetto che abbiamo provato a sviluppare anche nel libro fresco di stampa Giovani a Sud della Crisi.

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L’Unione Europea è diventata un argomento sempre più centrale nel dibattito politico a sinistra. L’interferenza comunitaria nelle politiche interne tramite l’austerità viene sempre da più soggetti avvertita come una minaccia antidemocratica e classista. Però varie sono le analisi e le ipotesi che si prospettano nel panorama politico. Da una parte c’è chi ritiene che l’Unione Europea sia un progetto di integrazione in chiave progressista rifacendosi al Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli, il progetto Erasmus, ecc. In questa visione, le politiche di austerità hanno senz’altro prodotto impoverimento, in particolare delle fasce più deboli, ma la risposta politica risiede nel riformismo che punti a recuperare quello che ritengono essere stato lo spirito originario dell’“Unione dei popoli”.

Dall’altra parte ci sono soggetti politici, come Eurostop, che ritengono che il progetto di integrazione europea nasca come strutturalmente classista e che, dunque, l’austerità non si ponga in contraddizione con le origini storiche dell’Unione Europea ma, piuttosto, che sia in assoluta continuità con esse, e che anzi la crisi sia servita a legittimare tutte le misure che erano in cantiere da tempo.

Dal suo punto di vista di storico, quali ritiene essere le più importanti ragioni alla base di questo progetto? Quali ritiene siano le forze che maggiormente influenzano l’andamento di questo progetto?

Il processo di integrazione europea è nato per una pluralità di ragioni, ovviamente. Nel discorso corrente circa le origini dell’integrazione l’enfasi cade sulla volontà di pacificazione delle rivalità nazionali. L’integrazione sarebbe stata il frutto dell’azione di élite illuminate e amanti della pace decise a superare definitivamente le divisioni nazionali e ad avviare la creazione degli Stati Uniti d’Europa. Vi è del vero in questa interpretazione. Certamente la questione della pace, soprattutto sotto forma del reinserimento della Germania nel contesto dell’alleanza occidentale in maniera non destabilizzante degli equilibri europei, è uno dei temi chiave della storia dell’integrazione. Ma limitarsi a una lettura di questo genere appare parziale e semplicistico, occorre andar oltre, occorre ancorare i processi di integrazione alle dinamiche profonde delle società europee. Già a partire da metà anni Ottanta lo storico inglese Alan Milward evidenziò come l’integrazione, lungi dal rappresentare il superamento degli Stati nazionali, fosse stata, all’opposto, uno strumento di rafforzamento di questi ultimi. Uno dei suoi libri più importanti si intitola appunto The European Rescue of the Nation State (Il salvataggio europeo dello Stato-nazione). In Europa la guerra totale e ancor prima il disastro economico della Grande Crisi avevano minato il consenso popolare verso le classi dirigenti e le stesse istituzioni. Dopo il 1945 il tema cruciale della politica europea divenne, secondo lo storico britannico, la restaurazione dello Stato nazione dopo il collasso precedente. Ciò rendeva ineludibile e urgente un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita e la garanzia di adeguati standard di protezione sociale. L’abbattimento, graduale e controllato, delle barriere agli scambi commerciali e la messa in comune dei sistemi di protezione del settore agricolo, i due pilastri della costruzione europea nei primi decenni della sua vita, rappresentarono due strumenti chiave per perseguire gli obiettivi di crescita economica al cuore dei progetti di ricostruzione della “fedeltà” (allegiance è il termine che usa Milward) dei cittadini verso i propri Stati nazionali.

L’analisi di Milward rimane fondamentale per chi intenda addentrarsi nella storia dell’integrazione europea. All’epoca essa animò il dibattito accademico soprattutto perché metteva in luce l’assoluta prevalenza dei governi nazionali nei processi di integrazione, a discapito dei gruppi federalisti il cui ruolo Milward mostrava come assolutamente marginale. Ma il suo lascito più importante è l’avere collocato le origini dell’integrazione sul terreno concreto delle dinamiche politiche, sociali ed economiche dell’epoca in cui avvenne, facendole calare dai cieli dell’idealismo e della disputa dottrinaria, dissipando, anche con qualche eccesso polemico, la retorica sui “padri fondatori” e la lettura teleologica di un processo inesorabilmente teso alla costruzione di uno Stato federale continentale.

Occorre però andare oltre Milward, che sembra postulare l’esistenza di un interesse nazionale oggettivamente definito, e introdurre nell’analisi le divisioni di classe e i conflitti sociali che caratterizzano le società capitaliste. C’è, in altre parole, da chiedersi cosa e chi esattamente fu “salvato” dall’integrazione. Nel secondo dopoguerra, nel clima di anomia e fermento sociale portato dalla guerra e dalla crisi economica, ciò che era in questione non era tanto la sopravvivenza dello Stato nazionale, quanto quella del capitalismo. Per capire il clima dell’epoca, permettetemi di citare il brano di apertura del programma approvato nel febbraio 1947 dalla risorgente Unione cristiano-democratica, il partito oggi guidato da Angela Merkel:
Il sistema economico capitalistico non ha soddisfatto gli interessi vitali dello Stato e gli interessi sociali del popolo tedesco [...]. La nuova struttura dell’economia tedesca deve fondarsi sull’assunto che il tempo del potere illimitato del capitalismo privato è finito. [...] Il contenuto e lo scopo di questo nuovo ordine sociale ed economico non possono più essere l’aspirazione capitalistica al profitto e al potere, ma unicamente il bene del popolo.
Se questi erano i toni di un partito centrista, ci possiamo ben immaginare quelli delle formazioni più a sinistra. Prevaleva, come affermò nel 1943 il grande economista Joseph Schumpeter, l’opinione generale” che “i metodi capitalisti saranno inadeguati all’impresa della ricostruzione […] non si nutre alcun dubbio che la decadenza della società capitalista sia in fase molto avanzata. In questi frangenti l’integrazione rappresentò un tassello di una più vasta opera di rilegittimazione che permise di dare respiro e un nuovo slancio a un sistema sociale che pareva sull’orlo di una crisi terminale. La costruzione di un grande mercato e l’istituzione di una politica agricola comune si inserivano nel quadro di una ricostruzione del sistema degli scambi internazionali fondata su una forma di “liberalismo temperato” che mirava a correggere quelli che erano visti come gli eccessi del laissez faire del liberalismo classico, gestendo le dinamiche dell’interdipendenza economica in modo da attutirne l’impatto sulle società nazionali. Perciò, se è necessario sottolineare il ruolo giocato dall’integrazione europea nella restaurazione delle gerarchie capitaliste, sarebbe però astorico vedere prevalere in essa un carattere neoliberale fin dalle origini. Nei primi due decenni della sua esistenza, il suo ruolo ancillare rispetto alle dinamiche capitaliste assunse i caratteri dettati dallo spirito del tempo, un tempo in cui era forte il potere di condizionamento esercitato dalle organizzazioni che facevano capo al mondo del lavoro. In quel contesto essa svolse una funzione anche progressiva, fornendo il respiro necessario al dispiegarsi dei vari “miracoli” economici, e perciò al miglioramento delle condizioni di vita di ampie fasce di popolazione, alla realizzazione di regimi di piena occupazione e alla costruzione dei sistemi di welfare nazionali.

In sostanza, nei suoi primi decenni di esistenza, il progetto europeo si fece portatore di un paternalismo sociale da “capitalismo illuminato” che aveva assorbito la lezione del produttivismo di oltreoceano, preoccupato del benessere delle classi lavoratrici in nome della stabilizzazione del sistema (come disse il presidente dell’Alta Autorità della Ceca, René Mayer, al Segretario di Stato statunitense John Foster Dulles nel febbraio 1956, il mercato comune come dispositivo di crescita economica era “lo strumento più sicuro per evitare l’arrivo al potere dei partiti comunisti”). In questo senso, se mi pare corretto parlare di una costruzione europea sospettosa quando non ostile rispetto alle richieste di cambiamento radicale, pienamente inserita nelle logiche della guerra fredda (i comunisti e i partiti a loro vicini rimasero esclusi dalle istituzioni comunitarie fino a fine anni Sessanta), non mi spingerei però a definirla, nei primi decenni della sua esistenza, “neoliberale”.

Detto questo, non si può però nascondere il carattere ambivalente della costruzione europea, che fin dagli inizi conteneva elementi di sovversione del prevalente ordine di liberalismo temperato. Come mostra lo storico statunitense Quinn Slobodian, in un bel libro uscito di recente, la firma dei trattati di Roma nel 1957 fu accolta con giubilo da una parte degli intellettuali neoliberali, come possibile agente sovranazionale di costituzionalizzazione dei diritti dei mercati contro la minaccia rappresentata dai sistemi democratici nazionali. Tali tratti erano evidenti anche al di fuori di ristretti, e all’epoca scarsamente influenti, circoli intellettuali. Per esempio, in Italia al momento dell’entrata in vigore dei trattati di Roma la Confindustria accoglieva con favore “l’affermazione dei principi liberisti” – affermava l’Annuario confindustriale del 1958 – contenute nel trattato CEE. Ci si appellava alle norme a tutela della concorrenza contenute nel trattato per osteggiare l’apertura a sinistra e la politica di riforme, come emerse in tutta evidenza nel corso della battaglia per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. E, sempre per rimanere in Italia, occorre ricordare il ruolo della Commissione CEE – a sostegno del fronte deflazionista che faceva capo a Confindustria, Banca d’Italia e destra democristiana – durante l’ondata di conflittualità sociale scatenatasi nel triangolo industriale ad inizio anni Sessanta. In quei frangenti, che rappresentano un passaggio cruciale della storia dell’Italia repubblicana, emerse per la prima volta la funzione del vincolo esterno come ancoraggio per la conservazione dei rapporti di classe.

L’Unione europea di oggi ha mantenuto i suoi tratti originari, o lei vede momenti di discontinuità in questa storia?

Certamente li vedo. Il momento di svolta, a partire dal quale i tratti ordoliberisti contenuti in nuce nella costruzione originaria diverranno prevalenti, può essere collocato tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Se nel decennio del “lungo ’68” anche la costruzione europea era stata investita dall’ondata di radicalizzazione democratica che di quegli anni fu la caratteristica fondante, con la chiusura del decennio essa divenne parte integrante di uno sforzo di stabilizzazione che, partendo dalla svolta deflazionista inaugurata dalla Federal Reserve statunitense, investiva il complesso dei paesi del capitalismo avanzato. Così, per esempio, nel corso dei Settanta erano fioriti progetti per istituire a livello comunitario forme di controllo delle attività delle multinazionali, nel tentativo di arginare il crescente fenomeno delle delocalizzazioni. O ancora, la Comunità si era proposta come interlocutore dei Paesi del Sud del mondo alla ricerca di un nuovo assetto delle relazioni economiche internazionali. Questa fase si chiuse a partire da fine decennio. I progetti di controllo delle multinazionali furono ridimensionati fino all’irrilevanza, così come le aperture a un nuovo ordine economico internazionale. Se nel complesso l’integrazione confermava la sua funzione di stabilizzazione capitalista, cambiavano le forme di questa funzione. Al tempo del compromesso sociale fordista tali forme erano state, se non labour friendly, perlomeno compatibili con il miglioramento delle condizioni di vita e del potere contrattuale dei lavoratori. Al tempo della controrivoluzione liberista, l’integrazione diventava organica all’affermazione del monetarismo e dei processi di liberalizzazione dei mercati, rispondendo alle esigenze di stabilizzazione capitalista dopo un periodo di crisi caratterizzato dalla crescita del conflitto sociale all’interno e, a livello internazionale, dall’inasprirsi della concorrenza tra i maggiori paesi.

Da entrambi i punti di vista l’istituzione a fine 1979 del Sistema monetario europeo, antesignano dell’attuale unione monetaria, rappresentò plasticamente il momento di svolta. Da punto di vista interno essa offrì l’ancoraggio ai processi deflazionistici che nel giro di breve tempo avrebbero portato al ridimensionamento e poi all’annullamento della forza del movimento dei lavoratori. Dal punto di vista internazionale, il varo di un sistema di coordinamento monetario regionale per la Germania rappresentò – come ha osservato Marcello De Cecco – l’accantonamento delle velleità di competizione diretta con gli Stati Uniti per la leadership monetaria globale e al contempo significò per gli altri Paesi europei la convergenza verso il modello Bundesbank caratterizzato da moneta forte e bassa inflazione.

A un livello più generale, il nuovo corso dell’integrazione dava corpo a livello europeo alla tendenza al “raffreddamento” del clima politico delle democrazie industriali, lanciata nel 1975 dallo studio The Crisis of Democracy pubblicato a cura della Trilaterale, che implicava un trasferimento di poteri e competenze, soprattutto in campo economico, dalle turbolente arene democratiche nazionali verso organismi sovranazionali o autorità “tecniche”. In questo svuotamento delle democrazie nazionali, non compensato dalla crescita del ruolo delle istituzioni rappresentative a livello sovranazionale, sta il senso profondo del ruolo dell’Unione negli ultimi trenta anni. Lo spostamento di poteri a favore di organismi dominati da una logica tecnocratica, impermeabili, per quanto possibile, alle pressioni dal basso e omogenei ideologicamente ha rappresentato la cifra dell’azione dell’UE. Da fine anni Settanta in poi, il trasferimento di sovranità verso le istituzioni sovranazionali ha rappresentato, in sinergia con l’affermarsi del dogma dell’indipendenza delle Banche centrali, uno strumento di costruzione di uno spazio politico in cui le voci alternative e contestatrici giungono attenuate o non giungono affatto, per non coprire i sussurri di chi è vicino alle orecchie dei potenti. In questo senso è corretto parlare della UE dagli ultimi tre decenni come espressione dell’ideologia ordoliberale, ricordando che tale ideologia nasce nella Repubblica di Weimar di fine anni ’20 proprio come tentativo di isolare la sfera economica dalla perniciosa influenza della democrazia parlamentare.

Parlando della crisi degli anni Settanta e della nascita del sistema monetario europeo, lei faceva cenno al ruolo dell’integrazione nei rapporti interstatali. Ci può dire qualcosa di più al riguardo?

Questo è un punto fondamentale che illumina l’altro grande motore dell’integrazione. Da un lato, come abbiamo visto, l’esigenza di arginare il conflitto sociale. Dall’altro, la risposta alle dinamiche della competizione intercapitalista. Su questo piano vedo una continuità ancora maggiore. Il discorso sulla necessità di integrare i Paesi europei nasce negli anni tra le due guerre come risposta al declino della centralità del Vecchio continente a livello globale e per raccogliere la “sfida americana”. Se si analizzano le personalità e i circoli federalisti degli anni Venti, la necessità di “fare come l’America” – cioè costruire un grande mercato che permettesse l’applicazione dei metodi di produzione di massa – emerge come un tema centrale. “Fare come l’America” per scacciare lo spettro socialista grazie al miglioramento delle condizioni di vita e per rilanciare il ruolo europeo a livello mondiale, in una fase storica segnata dal dissanguamento delle potenze europee nella guerra mondiale e dall’incipiente rivolta dei popoli colonizzati. È questo un tema che attraversa tutto il dibattito sull’integrazione, che andrebbe perciò letto in stretta connessione con la fine degli imperi coloniali e con l’evolvere della competizione tra i maggiori centri di produzione. Non per caso, si dice che la sconfitta della spedizione anglo-francese di Suez nel 1956, estremo esempio di politica delle cannoniere, abbia aperto la porta alla firma da parte francese dei trattati di Roma. L’esigenza di rispondere alla concorrenza transatlantica è una delle ragioni alla base dell’avvio dell’integrazione monetaria, così come oggi la retorica a sostegno dell’UE fa perno sulla necessità di unire le forze per affrontare la sfida cinese. Inoltre, appare evidente come lo sviluppo dell’integrazione, specie in campo monetario, sia stato determinato e abbia rafforzato i meccanismi di sviluppo ineguale interni all’Unione stessa, tra “centro” e “periferia”.

Le ipotesi riformiste sull’UE hanno un qualche fondamento? È possibile spostare l’impianto ordoliberale di questa unione europea e ottenere (o quantomeno mantenere) maggiori diritti sociali?

No. A parte i problemi giuridici che ciò comporterebbe, uno spostamento “a sinistra” delle politiche e della costituzione dell’UE implicherebbe l’accettazione generalizzata della possibilità di trasferire risorse dai Paesi più ricchi verso i più poveri. Questo non pare ricadere nel novero delle possibilità reali, alla luce delle posizioni politiche prevalenti nei vari Paesi e degli orientamenti delle opinioni pubbliche. Inoltre, come ho cercato di argomentare, la dinamica dell’integrazione europea rispecchia le logiche del suo tempo. È fuorviante quindi appellarsi a un mitologico carattere “progressista” dell’integrazione delle origini nell’intenzione di restaurarlo. Nella misura in cui quel carattere esisteva, esso era figlio di un’epoca in cui i rapporti di forza sociali erano ben diversi dall’attuale e che è finita minata dalle sue contraddizioni interne. Nella fase presente di crisi strutturale del capitalismo, mi pare molto più probabile che si assista alla continuazione, e finanche a un inasprimento, delle politiche di austerità attuali e al rafforzamento delle tendenze imperialiste, interne ed esterne, insite nell’Unione. Data l’insostenibilità di tali politiche, l’esito più probabile sarebbe una disintegrazione della UE, almeno nella forma in cui la conosciamo oggi. Credo che per le forze politiche sarebbe molto più costruttivo interrogarsi sul che fare nel caso si verifichi questa ipotesi e su come gestirla, piuttosto che immaginare scenari di riforma irrealistici e poco credibili.

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