di Gioacchino Toni
Su
come le immagini dalle guerre mondiali possano essere di aiuto nella
comprensione dei conflitti odierni si soffermano diversi studiosi nella
prima parte del volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) [su Carmilla 1 – 2].
Prenderemo qua in esame i saggi di Pierandrea Amato, Raffaele Scolari e
Adolfo Mignemi che si occupano rispettivamente di come la gestione
delle immagini da parte dei media abbia determinato uno scollamento tra
visione ed esperienza, il primo, del rapporto tra essere umano e
paesaggio nell’esperienza bellica, il secondo, e dell’interazione tra
immagini di guerra e memoria relativa al confitto, l’ultimo.
Pierandrea Amato, nel suo intervento “Dov’è il nemico? Il paradigma della Grande guerra”,
riflette su come la guerra possa essere negata tanto dalla mancanza di
immagini che ne diano testimonianza, quanto da un eccesso di
rappresentazione che finisce con il sottrarle i suoi caratteri specifici
e perturbanti. A volte è lo stesso nemico ad essere fatto scomparire;
se si pensa al conflitto irakeno del 1991, le immagini televisive non
hanno mostrato che uno spettacolo luminoso notturno costituito da
traccianti verdastri. «Tutto ciò ha una conseguenza ontologica ed
estetica straordinaria che porta a compimento un processo esploso circa
un secolo fa; la relazione tra la guerra e le immagini sancisce
l’epilogo di un fenomeno registrato da Walter Benjamin: l’eclissi
dell’esperienza per l’uomo contemporaneo. Di fronte all’orrore della
guerra, rimaniamo attoniti spettatori di un evento cui non facciamo
alcuna esperienza (neppure, in fondo, visiva; meno che mai verbale,
psicologica, affettiva). Nella vicenda della Prima guerra mondiale
Benjamin riesce a estrarre un carattere essenziale dell’età
contemporanea: l’ordinaria esperienza dell’impossibile. La prima guerra
totale del Novecento, cioè, si colloca oltre la misura del concepibile,
determinando la definizione di assi concettuali in grado di fornire un
senso all’insensato in cui, evidentemente, le prerogative del logos sono
ampiamente sottomesse ad altre costellazioni concettuali» (pp. 23-24).
«In Benjamin la guerra è il centro di gravità di un’operazione che
distilla la sua violenza mediante l’adozione di una serie di filtri
estetici in grado di rimuovere la profondità del suo orrore. Questa
operazione è reazionaria non soltanto perché si riferisce a categorie
ampiamente corrose dalla guerra industriale – eroismo, coraggio, ecc. – e
quindi si preoccupa di rendere torbido il valore del massacro della
Grande guerra (il riferimento diretto di Benjamin) ma più essenzialmente
perché fa della guerra un evento estetico» (p. 28). Dunque, sostiene
Amato, rifacendosi al ragionamento del filosofo tedesco, qualsiasi
guerra contemporanea, caratterizzata com’è da una notevole sublimazione
iconica, potrebbe essere intesa strutturalmente un avvenimento fascista
per il suo «rimuovere gli umori della guerra: cadaveri, dolore, traumi
permanenti. Celerebbero una matrice fascista i conflitti armati
contemporanei, se analizzati secondo il caleidoscopio benjaminiano,
perché impongono una forma d’estetizzazione della violenza militare il
cui destino è sviare dalla sua esperienza effettiva sollecitando,
invece, la sua rappresentazione spettacolare. […] La condizione della
guerra contemporanea è la perdita di un’esperienza visiva in grado di
strapparci da ciò che normalmente vediamo; di produrre uno scollamento
tra noi è le nostre esperienze. Ma proprio questa eclissi
dell’esperienza ci consegna immancabilmente al cuore dell’esperienza – o
meglio: non esperienza – della Grande guerra» (pp. 28-29).
Raffaele Scolari, nel suo “Kurt Lewin e la mutazione dell’immagine dei territori di guerra”, prende invece in esame Paesaggio di guerra
(1917) dello studioso tedesco ragionando attorno alla mutevolezza e
alla complessità dei legami tra essere umano e paesaggio nell’esperienza
bellica. Nella parte finale del suo intervento Scolari si sofferma
sull’immagine della guerra come narrazione. «La latente ubiquità e la
progressiva invisibilizzazione dei dispositivi impiegati rendono
obsolete le nozioni di teatro bellico, di fronte, di retrovia eccetera.
Terra, acqua e cielo non configurano più un territorio verso cui
avanzare, bensì […] un corpo in cui sono introdotte sonde aventi lo
scopo di osservarlo dall’interno per poi eventualmente disabilitarne
talune funzioni. Non diversamente dalle immagini fornite per esempio
dalla tomografia computerizzata, che per essere comprese richiedono
particolari competenze disciplinari, quelle sulla scorta delle quali
agiscono i combattenti o, com’è meglio chiamarli, gli operatori bellici
delle guerre contemporanee sono elaborati digitali. Propriamente non
sono immagini, nel senso che non narrano la storia di eventi in corso,
bensì grafici, visualizzazioni di insiemi complessi di dati, ossia
riduzioni di complessità che consentono di operare in tempi estremamente
stretti» (p. 89).
In un contesto come quello contemporaneo in cui le operazioni
belliche vengono sempre più raccontate in maniera addomesticata dai
reportage giornalistici, quando non direttamente messe in scena dagli
apparati militari, converrebbe concedere scarsa credibilità a tali
narrazioni, ma, sostiene Scolari, nonostante tutto, «continuano a
circolare immagini potenzialmente capaci di “porci dentro” l’evento e il
luogo della guerra. Sono lampi nell’oscurità prodotta [dal] processo
generale di invisibilizzazione […]. In quanto tali, riprendendo un
concetto chiave delle teorizzazioni di Benjamin, sono “immagini
dialettiche”, le quali però non si contrappongono alle “immagini
arcaiche”, bensì a quelle prodotte e poste in circolazione da un
complesso di dispositivi appunto invisibilizzanti» (p. 90).
Nel saggio di Adolfo Mignemi, “La fotografia e la memoria. Osservazioni sulla violenza nelle immagini e sulla violenza delle immagini”,
lo studioso, a partire dall’analisi di diverse fotografie, riflette
sulla narrazione della violenza e sulla durezza della sua
rappresentazione. «Ciò che lega la fotografia alla memoria è la
reciproca interazione che consente, da un lato, di riconoscere le
situazioni ed i contesti che strutturano l’immagine, dall’altro di
trasformare la narrazione proposta in una esperienza verosimile» (p.
94).
Visto che ogni conflitto si differenzia dai precedenti ed elabora una
propria immagine della guerra, l’autore si sofferma in particolare su
alcuni casi emblematici: il primo esempio di immagine-rappresentazione
di caduti in combattimento che ritrae una delle fosse comuni di
Melegnano realizzate dopo la battaglia dell’8 giugno 1859; le raccolte
di Paolo Valera del 1912 relative alla repressione in Libia delle
resistenze all’occupazione italiana come primo utilizzo di fotografie di
denuncia di crimini di guerra; il filmato comparso sul web nel gennaio
del 2012 realizzato da alcuni militari americani mentre infieriscono sui
cadaveri dei nemici; il video girato e diffuso in internet dall’Isis
relativo alla decapitazione del giornalista americano James Wright Foley
ad al-Raqqua nell’agosto del 2014.
Il saggio si sofferma anche sul fatto che in numerose pubblicazioni
edite nel corso del Primo conflitto mondiale i caduti vengono mostrati
con immagini che li ritraggono in abiti borghesi e non in divisa. «Che
cosa può aver indotto le famiglie a consegnare alla memoria pubblica
questo tipo di ritratti? È l’assenza di una foto in divisa militare tra
le immagini conservate a casa? È la volontà di confermare il proprio
ricordo della persona cara fissando la memoria visiva alle condizioni di
vita normale, precedente la guerra?» (p. 99). Oltre a tali possibili
motivazioni, secondo lo studioso, vi sarebbero parecchi elementi che
rendono possibile ipotizzare anche un cosciente atto di contrarietà alla
guerra.
«Nell’ambito di una riflessione sulla memoria visiva dei caduti è
molto interessante soffermarsi sui ricordini di lutto familiari intesi
come espressione del percorso di elaborazione del lutto. In generale
possiamo affermare che, a partire dalla prima guerra mondiale,
progressivamente la retorica patriottica si impossessa della memoria e
l’immagine diviene l’elemento costitutivo principale delle
rappresentazioni. Successivamente la simbolica istituzionale prende a
impossessarsi di tutto: compaiono i simboli politici al posto delle
tradizionali simbologie del sacrificio, del dolore, della consacrazione
alla Volontà superiore. Progressivamente, in conseguenza anche della
ritualizzazione della politica autoritaria, la rappresentazione del
soprannaturale lascia il posto all’immagine della Nazione, arbitra unica
delle sorti dei cittadini e soggetto pienamente legittimato
all’esercizio della violenza collettiva. È in questo contesto che la
contrarietà alla guerra si manifesta in innumerevoli forme» (p. 99).
Una riflessione viene riservata dall’autore alla diffusione di
immagini dai teatri di guerra da parte di militari: se è pur vero che
oggi grazie agli smartphone è facile realizzare e diffondere immagini,
dunque disporre di documentazione circa episodi di violenza nei teatri
di guerra, Mignemi sottolinea come, in molti casi, le fotografie e i
filmati testimonianti episodi particolarmente violenti non vengano
realizzati dai militari per denunciare i fatti ma per diffondere una
“immagine-ricordo” compiaciuta del loro essere combattenti.
Alle
immagini si è fatto ricorso, sin dall’avvio del Secondo conflitto
mondiale, anche per la loro capacità di rappresentare e proporre
violenza: tra le prime pubblicazioni che ricorrono a tale uso delle
fotografie nel saggio viene citato il libro prodotto ufficialmente dal
governo tedesco, dopo l’annessione della Polonia, sulle atrocità
commesse dai polacchi nei confronti delle minoranze tedesche.
Venendo invece agli interventi militari italiani novecenteschi, di
questi esiste, ad esempio, un’ampia documentazione visiva delle guerre
di aggressione in territorio balcanico a partire dal 1940, che «ben
rappresenta il ripetersi del progetto imperiale fascista di
conquista e dominazione del Mediterraneo» ma, denuncia lo studioso,
ancora oggi, in Italia, la ricerca storica sembra non riuscire a
scalfire «l’opinione assolutoria diffusa nella mentalità comune circa il
ruolo di aggressore del nostro Paese» (p. 107).
Un caso su cui si sofferma il saggio riguarda invece alcune immagini
che testimoniano le infami modalità con cui l’Italia ha partecipato
all’Operazione Ibis in Somalia; dalle foto dei nemici incappucciati e
con mani e piedi legati dietro la schiena con una corda intorno al
collo, a quelle del prigioniero denudato e sottoposto a scariche
elettriche, fino all’episodio dello stupro con razzo di segnalazione di
una donna somala effettuato dai militari italiani nel novembre 1993 ad
un posto di blocco tra Mogadiscio e Balad. Di tutte queste immagini non
si parla più, così come è sceso il silenzio su quella e altre operazioni
militari tricolori. Si tratta di un oblio sicuramente utile sia a
evitare, nuovamente, al Paese di fare i conti con le proprie
responsabilità, che a non intralciare la costruzione del capro
espiatorio del momento: il migrante che spinge alle porte di casa.
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