Fin dal giorno dopo l’insediamento del governo giallo-blu (sulla
questione cromatica ci torneremo in un prossimo post) i due vice
ministri Salvini e Di Maio hanno continuato a ripetere urbi et orbi che
non esiste alcun piano B per la fuoriuscita dall’Unione Europea né,
tantomeno, dalla zona euro. Aggiungendo che la loro reale intenzione è
quella di riformare l’Ue e non certo di romperla.
Ognuno dei loro scontri dialettici con i “burocrati bolliti” di
stanza a Bruxelles, diventati sempre più frequenti dopo la presentazione
del DEF, è stato così idealmente procrastinato al redde rationem del
prossimo maggio, quando con le elezioni europee, a detta loro, l’ondata
populista metterà finalmente fine al duopolio PPE-PSE. Ora, noi non
abbiamo elementi per dire se queste dichiarazioni servano
opportunisticamente a non far “agitare i mercati” da cui dipende il
costo del debito italiano, o se invece i due siano effettivamente
convinti di quanto sostengono. A naso, però, propenderemmo per la
seconda ipotesi, visti anche i limiti strategici che sono intrinseci ad
ogni ragionamento populista.
Tanto per fare un esempio il ministro leghista Lorenzo Fontana, in
un’intervista riportata sul Corriere della Sera del 23 ottobre (leggi)
in cui annuncia la nascita dell’internazionale sovranista per il
prossimo febbraio, è arrivato addirittura a sostenere che dopo maggio
l’europarlamento a trazione sovranista porrà mano ai trattati,
cambiandoli. Fontana, forse troppo occupato a svelare i complotti dei
gay per dominare il mondo, parrebbe quindi ignorare che i trattati europei sono accordi tra stati e che una loro eventuale revisione (secondo l’articolo 48 del Tue) prevederebbe la ratifica da parte degli stessi.
A fronte dello scontro al calor bianco che si sta determinando con la
governance europea, l’ingenuità populista non tiene conto di almeno 3
elementi, alcuni di architettura istituzionale ed altri più
squisitamente politici:
Primo: L’Ue, nonostante le successive approssimazioni istituzionali
con cui si è andata ridisegnando, resta fondamentalmente una struttura
intergovernativa. Per riformarla mettendo mano ai trattati occorrerebbe
dunque che i populisti (o, nel caso, anche le sinistre unioneuropeiste)
vincessero contemporaneamente le elezioni nazionali andando al governo
in tutti gli stati membri. E in molti di questi stati anche questo non
sarebbe sufficiente e si renderebbe necessario comunque un passaggio di
ratifica referendaria.
In secondo luogo, nonostante le modifiche apportate con il Trattato
di Lisbona, il parlamento europeo non assomiglia nemmeno lontanamente,
per poteri e prerogative, a quelli nazionali. Pensare di “conquistare
l’Ue dall’interno” passando per Strasburgo è, a dir poco, illusorio.
L’europarlamento non è la stanza dei bottoni, piuttosto la stanza senza
bottoni.
Infine c’è il dato politico: quasi tutte le rilevazioni degli
istituti demoscopici europei registrano si un avanzata del populismo, ma
non tale da mettere in discussione l’asse PPE-PSE. L’internazionale
sovranista, come l’ha definista lo stesso Fontana, considerando anche il
peso ponderato che hanno i diversi paesi nella loro attribuzione,
difficilmente raccoglierà più del 30% dei seggi. A questo si aggiunge la
sua palese eterogenità venuta fuori clamorosamente in occasione della
discussione in sede europea della manovra presentata dall’Italia e che
ha visto tutti i paesi membri, compresi quelli teoricamente alleati,
bocciare il DEF di Conte, Di Maio e Salvini.
Dopo maggio dunque potrebbe tornare ad aprirsi per la sinistra di
classe (qui il condizionale è d’obbligo) un piccolo spazio in cui
ricominciare a fare politica e cercare di recuperare almeno la
“connessione sentimetale” con quei settori del nostro blocco sociale che
oggi affidano al populismo la propria rappresentanza.
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