Serena Mollicone sparisce ad Arce, in provincia di Frosinone, il primo giugno del 2001. Due giorni dopo, il suo cadavere viene ritrovato in un bosco. Un sacco sulla testa, piedi e mani legati da nastro adesivo e filo di ferro. Cosa avvenne alla diciottenne da allora, fino all’anno scorso, è rimasto un mistero. Molti indagati, tante prove del DNA ma nessun risultato.
Nel 2008 si suicida il brigadiere Santino Tuzi, in servizio presso la stazione dei Carabinieri di Arce.
Qualche giorno prima del suicidio, l’uomo era stato ascoltato come “persona informata dei fatti” dalla Procura di Cassino.
Il suicidio di Tuzi può essere collegato alla morte di Serena Mollicone?
Da quello che è emerso l’anno scorso, e confermato qualche giorno fa, parrebbe proprio di si.
Nel 2016 sempre la Procura di Cassino decide di non archiviare il caso, chiedendo una riesumazione del cadavere che affida al LABANOF di Milano (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense).
Il risultato arriva dopo 21 mesi: la perizia sostiene che le ferite sulla testa della ragazza sono compatibili con delle tracce rinvenute su una porta della caserma di Arce.
A questo punto ad intervenire è il RIS, il reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri.
Il risultato di questa nuova perizia è arrivato nei giorni scorsi, e conferma di fatto quello del LABANOF.
Non solo le ferite alla testa della ragazza sono compatibili con le tracce rinvenute sulla porta della caserma, ma anche il nastro adesivo utilizzato per legarla proverrebbe dalla stazione dei militari di Arce.
Il risultato delle due perizie va quindi a confermare l’ipotesi investigativa della Procura, che sta indagando per omicidio volontario ed occultamento di cadavere il maresciallo Franco Mottola, ex comandante della caserma di Arce, la moglie Anna ed il figlio Marco. Risultano indagati anche altri due militari per concorso morale, istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi e favoreggiamento.
Una storiaccia di cronaca, uno dei tanti “misteri italiani”, ma non c’è solo questo.
Se le ipotesi della procura fossero confermate, saremmo di fronte ad un orrendo delitto commesso da un rappresentante dello Stato, con la complicità e la connivenza di due colleghi per “solidarietà di corpo” forse, o per rapporti personali, oppure per interesse.
Una delle tante vicende che vanno a mettere in discussione il rapporto – che dovrebbe essere necessariamente fiduciario – tra le forze dell’ordine e la collettività.
Negli ultimi anni, grazie alle battaglie della madre di Federico Aldrovandi, di Ilaria Cucchi e di tanti altri, stanno emergendo – in modo evidente anche per l’opinione pubblica – una serie di storie che dicono la stessa cosa: in Italia c’è un problema di gestione, controllo, valutazione, formazione e modalità operative rispetto a chi viene scelto per gestire l’ordine pubblico.
Problema che la politica, centrodestra e centrosinistra indifferentemente, hanno quasi sempre derubricato parlando di “singoli che sbagliano”, “mele marce”, “errori e scelte personali”.
Che gli agenti siano esseri umani è un dato di fatto, e come tali non sono infallibili: però statisticamente quello che avviene appare eccessivo, per giustificare sempre tutto attribuendo al singolo la responsabilità.
Appare evidente che il problema è di sistema, ed è di vecchia data: come viene effettuata la selezione di donne e uomini che devono svolgere un compito così delicato? Come vengono valutate le loro attitudini anche morali? Il livello di sensibilità e cultura necessarie a confrontarsi con una società sottoposta a sempre maggiori tensioni, in cambiamento, sempre più arrabbiata e spaventata per le condizioni oggettive in cui vive (grazie alle scelte delle classi dirigenti – ndr).
La vicenda di Arce può essere letta come storia di cronaca nera, come esempio di devianza individuale, o come questione che ha rilevanza collettive, ennesimo esempio di una situazione che esiste e che va tenuta in considerazione da tutti.
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