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03/12/2019

Dazi, Stato e Rivoluzione (digitale)

“La Cina è vicina” gridavano le piazze degli anni '70, e dopo quasi mezzo secolo di storia quello slogan non è mai stato tanto aderente alla realtà come lo è oggi, anche se in forme ben diverse da quelle auspicate allora. Non si intravede nessun nuovo Mao al timone, nessuna Rivoluzione Culturale si profila all’orizzonte e non ci sono nemmeno le guardie rosse intente a bombardare il quartier generale. Da Deng Xiaoping in poi la Cina ha smesso di rappresentare un’alternativa ideologica di riferimento, non solo rispetto al comunismo sovietico, ma anche, e soprattutto, rispetto a quell’occidente capitalistico a cui si è andata viepiù, per l’appunto, avvicinando.

La tappa fondamentale di questo percorso è stata sicuramente, tra il 1999 e il 2001, il negoziato finale e poi l’ingresso della Repubblica Popolare nella World Trade Organization (WTO). Com’è noto l’ultimo ventennio di crescita dell’economia globale si è di fatto retto sulla complementarietà tra gli Stati Uniti e la Cina, diventata nel frattempo, la “fabbrica del mondo”. Un’interdipendenza talmente forte da spingere i media internazionali a definire questo G2 informale come “Chimerica”, termine coniato dallo storico statunitense Niall Ferguson e nato dalla crasi di China e America. Questo processo d’inserimento nel mercato internazionale è rimasto sostanzialmente immutato per tutto il primo decennio del nuovo secolo. La trasformazione della Cina nel principale hub della manifattura globale ha portato con sé, però, uno squilibrio commerciale crescente a danno degli Stati Uniti che, almeno in parte, è stato compensato dai flussi di capitali cinesi a sostegno del debito pubblico USA.

All’alto debito dei consumatori statunitensi ha cioè fatto da corrispettivo l’alto risparmio delle famiglie cinesi, e i disavanzi commerciali Usa che hanno riempito le riserve valutarie di Pechino sono stati poi regolarmente “riciclati” in dollari, con la sottoscrizione di Treasury bond statunitensi. Stando agli ultimi dati del 2019 i buoni del tesoro Usa posseduti dalla Cina ammonterebbero a 1.112 miliardi di dollari. Una cifra sicuramente considerevole che, però, crea più preoccupazioni alla Cina creditrice che non agli Usa debitori. Considerando anche i 22.000 miliardi di debito complessivo di Washington, i titoli in mano a Pechino rappresentano infatti solo il 5% del totale.

Questo sistema si è però parzialmente inceppato con la crisi del 2008, quando il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina è crollato del 15% nel giro di pochi mesi. Per far fronte al rallentamento dell’economia, Pechino è stata “costretta” a varare misure anticicliche con un pacchetto impressionante di stimoli, circa 580 miliardi di dollari,  finanziato centralmente ed incentrato soprattutto sugli investimenti nelle infrastrutture fisse e sui sussidi fiscali alle imprese esportatrici. È in questo frangente, e sotto l’amministrazione Obama, che inizia a mutare l’atteggiamento statunitense nei confronti della Cina a cui vengono addossate le responsabilità per il doppio debito Usa da deficit commerciale e da indebitamento statale e a cui viene rimproverata l’eccessiva debolezza dello yuan. Dall’altra parte del Pacifico la percezione è invece che Washington non voglia far altro che scaricare la crisi sugli “alleati” continuando a stampare moneta e alimentando nuove bolle speculative. L’impalcatura che aveva retto la fase ascendente della globalizzazione si è rapidamente trasformata in una gabbia troppo stretta per il gigante asiatico.

Alla fine degli anni Dieci del nuovo secolo il quadro geopolitico vede così riemergere una competizione strategica di lungo termine tra gli Stati Uniti e quella che viene ormai pubblicamente descritta come una “potenza revisionista”, una definizione che nella teoria delle relazioni internazionali viene utilizzato per indicare quelle potenze emergenti che intendono modificare a proprio vantaggio l’ordine politico mondiale. Il “momento unipolare” del potere politico ed economico statunitense che aveva contrassegnato la fine della (prima?) guerra fredda ha così lasciato il posto a un bipolarismo, sempre più esplicito, tra Stati Uniti e Cina.

A rendere particolarmente incandescente la congiuntura è la sovrapposizione tutt’altro che casuale, anzi potremmo dire esplicitamente causale, tra le dinamiche geopolitiche e lo scontro per la leadership tecnologico-industriale. La competizione globale e quella tecnologica s’incrociano, e sempre di più la seconda dà forma e contenuti alla prima.

Occorre avere ben chiara, infatti, la distinzione tra le guerre commerciali in corso tra le due sponde del Pacifico e lotte per la leadership sulla tecnologia. Le prime, soprattutto sotto l’amministrazione eclettica di Donald Trump, oltre ad avere una certa dose d’imprevedibilità sono soprattutto condizionate da ragionamenti di natura tattica, anche per via dell’intreccio spesso inestricabile delle catene produttive e distributive. Il loro obiettivo è pragmaticamente misurato a breve termine dai risultati della bilancia commerciale o dal saldo tra delocalizzazione e ri-localizzazioni delle imprese e dei posti di lavoro. Cosa ben diversa è invece la lotta per leadership sulla tecnologia e le industrie del futuro, qui l’orizzonte è strategico e la posta in gioco è l’egemonia economica e geopolitica dei prossimi decenni. Non è un caso che molte delle iniziative di politica dell’innovazione digitale dispiegate dall’attuale amministrazione statunitense siano state impostate o addirittura avviate dai democratici sotto la presidenza Obama che, proprio attraverso il suo “Pivot to East Asia”, fu il primo ad indicare la Cina come nuovo avversario strategico.

Senza dilungarci troppo sull’argomento “scientifico”, che ci porterebbe lontano dalle ragioni di questa riflessione, è ormai acclarato come la nuova fase della cosiddetta terza rivoluzione industriale, o per alcuni la seconda fase della rivoluzione digitale, abbia avuto come innesco una serie impressionante di rotture qualitative in molti settori delle tecnologie digitali. Innovazioni che si stanno alimentando a vicenda e che stanno determinando la nascita di un nuovo “cluster tecnologico secolare” destinato a condizionare profondamente il nuovo secolo tanto quanto l’elettricità influenzò quello precedente. Supercomputer e computer quantistici che promettono potenze di calcolo finora inimmaginabili; reti neurali e machine learning per allargare a dismisura gli orizzonti e le possibilità dell’intelligenza artificiale; l’internet of things (IoT) per far dialogare attraverso il protocollo IP dispositivi, e oggetti di ogni tipo finora esclusi dalla grande convergenza di computer, smartphone e reti di telecomunicazioni;  la cognitive automation per il settore manifatturiero e la logistica, e infine il 5G, la tecnologia delle reti di quinta generazione, per connettere e mettere tutto questo a sistema e che non a caso è diventato il terreno di scontro più acceso tra Stati Uniti e Cina.

Un campo, quello delle nuove tecnologie, dove si è davvero compiuto il “Grande Balzo” cinese e che ha portato gli Stati Uniti a vivere un nuovo “momento Sputnik”, così come venne definito lo shock del 4 ottobre 1957 quando l’Unione Sovietica riuscì a mettere in orbita il primo satellite anticipando Washington nella corsa allo spazio. Ma al contrario dell’Urss che rappresentò solo temporaneamente un competitor tecnologico, oggi la Cina ha sopravanzato gli Stati Uniti in molti campi.

Alcuni esempi possono dare un’idea dell’ordine di grandezza della questione: attualmente il 60% degli investimenti mondiali totali sulla A.I. è cinese, a partire dal 2013 la Cina ha conquistato il primato delle pubblicazioni scientifiche sul deep learning e dal 2018 quasi la metà dei supercomputer più veloci del mondo sono cinesi. La primazia cinese non si manifesta soltanto nel campo della ricerca scientifica o nel chiuso di qualche laboratorio, ma ormai investe direttamente alcuni aspetti produttivi e commerciali. Nel 2005 il valore delle transazioni online in Cina era inferiore all’1% del totale mondiale, che era pari a 495 miliardi di dollari; nel 2016 il valore dell’e-commerce nel mondo è salito a 1915 miliardi di dollari e la quota cinese è salita al 42,5 %, ben oltre quella statunitense. Grazie alle nuove tecnologie il gigante dell’e-commerce asiatico Alibaba gestisce una catena logistica in grado di effettuare 60 milioni di consegne al giorno, dieci volte più di Amazon (dati 2016), mentre Alipay, la piattaforma di pagamento di Alibaba, gestisce fino a 20.000 transazioni al secondo, il triplo delle più efficienti piattaforme americane.

La conseguenza di questa combinazione tra la seconda fase della rivoluzione digitale e il bipolarismo globale è un cambiamento di rotta, se non una vera e propria inversione, della globalizzazione in cui la ricerca dell’autosufficienza dev’essere letta più come il tentativo di costruire e difendere un proprio spazio economico che come un rigurgito autarchico. Da questo punto di vista i momenti di svolta che segnalano il cambio di fase sono essenzialmente due. Da parte cinese la nomina nel 2012 di Xi Jinping alla guida del paese dà forma a un cambiamento profondo rispetto alla strategia denghiana di prosperare economicamente senza mai porsi direttamente su un piano di confronto geopolitico con gli Usa. Solo un anno dopo dalla sua elezione, il 7 settembre del 2013, Xi Jinping presenterà al mondo la “Belt and Road Iniziative” (Bri), o come è stata successivamente chiamata “la nuova via della seta”, un progetto talmente ambizioso da essere inserito, quattro anni dopo, nella Costituzione della Repubblica Popolare proprio a sottolinearne l’importanza storica, geopolitica e strategica. Il cordone di infrastrutture terrestri previsto dal progetto non solo avvicinerà i possibili mercati di sbocco, ma permetterà di ridurre la dipendenza della Cina dalla superpetroliere che percorrono quotidianamente lo stretto di Malacca, una vera e propria vena giugulare energetica su cui gli Usa hanno le mani e che potrebbero strangolare in caso di conflitto con la Repubblica Popolare. Da parte statunitense, dopo il “Pivot to East Asia” obamiano del 2012, la formalizzazione di un cambio di strategia viene esplicitata nel dicembre 2017 con il documento “National Security Strategy” licenziato dall’amministrazione Trump e in cui la Cina viene descritta come “competitore strategico”. Una concezione ribadita dopo nemmeno un anno dal vice presidente Mike Pence in un famoso discorso allo Hudson Institute.

Nella seconda metà degli anni Dieci, negli Stati Uniti così come in Europa, la narrazione sulla Cina cambia dunque radicalmente. Fino ad allora il racconto di come questo paese fosse ormai diventato una superpotenza economica si declinava attorno all’idea di una gigantesca manifattura di beni prevalentemente a basso contenuto tecnologico, ma anche in questo campo le strategie di Xi Jinping non collimano più con i desiderata di Washington.

Nel 2015 viene lanciato il piano “Made in China 2025” in cui Pechino esplicita per la prima volta e chiaramente come la sua intenzione sia quella di cambiare la propria collocazione nell’economia globale, risalendo le filiere dell’innovazione e caratterizzandosi come economia di manifattura avanzata e di servizi. L’aspirazione è quella di ridurre la dipendenza tecnologica dagli altri paesi promuovendo nelle industrie High-Tech la nascita di campioni nazionali in grado di dominare il mercato interno e di muoversi efficacemente sui mercati internazionali. Uno degli obiettivi espliciti è quello di riuscire a coprire entro il 2025 almeno il 70% del proprio fabbisogno di microchip con produzioni nazionali. Quello dei chip è infatti un tallone d’Achille per l’economia cinese. Nel 2017 la Cina rappresentava il 90% della produzione mondiale di smartphone e circa il 66% della produzione di computer e di smart tv, ma non disponeva ancora di un’industria dei microprocessori in grado di soddisfare la domanda interna, sia dal punto di vista qualitativo sia da quello quantitativo. Sempre nel 2017 il valore delle importazioni di microchip raggiunse la cifra enorme di 270 miliardi di dollari. Il tentativo di riuscire a colmare questo gap si è sostanziato in almeno 150 miliardi di dollari si investimenti negli ultimi dieci anni e in numerosi tentativi di acquisizioni di aziende statunitensi che sono state, però, quasi tutte bloccate dalla Casa Bianca per ragioni di sicurezza nazionale.

Come abbiamo detto, però, il terreno di scontro principale in questo momento sembra essere il 5G. Gli Stati Uniti hanno ormai maturato la concreta sensazione di essere all’inseguimento rispetto ad un paese che invece sta bruciando le tappe. Uno studio del 2018 dà una misura di questo vantaggio in termini infrastrutturali: se negli Stati Uniti ci sono 4,7 small cells per il 5G ogni 10mila abitanti, i cinesi sono già arrivati a 14,1. Il controllo delle supply chain del 5G, una filiera industriale molto articolata e che presenta una pluralità di nodi tecnologici sensibili, diviene dunque un’esigenza strategica. Controllare questi nodi significa avere il potere di condizionare, rallentare o addirittura bloccare la produzione di un paese rivale, colpendolo non solo nello sviluppo delle telecomunicazioni ma in tutte le industrie che da queste dipendono, dai servizi per le smart city alla manifattura intelligente, agli armamenti.

Così, se le minacce di guerra commerciale attraverso l’imposizione di tariffe e di limitazioni alle importazioni conquistano subito l’attenzione prioritaria dei media, il confronto sulle tecnologie in questi ultimi anni si è fatto durissimo. Il 1 dicembre del 2018 in Canada viene arrestata, su mandato statunitense, Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei. Pochi mesi dopo l’amministrazione statunitense innalza ulteriormente il livello dello scontro licenziando un ordine esecutivo, l’“Executive Order on Securing the Information and Communications Technology and Service Supply Chain” in cui si dice esplicitamente che mettere in sicurezza la propria filiera significa interrompere quella dell’avversario, dimostrando che le arterie vitali del sistema industriale di un paese “rivale” possono essere aggredite per ragioni politiche. L’embargo di Trump per bloccare la vendita di componenti statunitensi a Huawei costringerà Google, Qualcomm e Broadcom a congelare le proprie forniture e rafforzerà la convinzione cinese della necessità di arrivare alla ricostruzione delle proprie supply chain all’interno di un perimetro politicamente sicuro. D’altronde già l’umiliazione subita l’anno precedente con la vicenda di Zte, l’azienda cinese accusata di trasferire tecnologia di origine statunitense attraverso la vendita di smartphone alla Corea del Nord, aveva fatto suonare più di un campanello d’allarme a Pechino. Xi Jinping si era trovato costretto a dover intercedere presso Trump per non far fallire un’azienda con oltre 75 mila dipendenti.

Per chiudere alcune, brevissime, considerazioni. Viviamo in una fase di transizione i cui esiti sono tutt’altro che scontati. Il vecchio ordine mondiale, con la sua bilancia di potenze, non riesce più ad imporsi come l’unico ordine possibile, ma in questo interregno non sembra profilarsene un altro in grado di prenderne saldamente il posto. Ciò che è chiaro è che la globalizzazione non è in crisi perché Trump o Xi Jinping stanno alterando le regole del gioco, ma perché la nuova fase della rivoluzione industriale produce discontinuità nella produzione e distribuzione del valore. E questo impone, e sempre di più imporrà, nuove forme di conflitto economico, geopolitico e militare. Questo potrebbe, e sottolineiamo potrebbe, aprire improvvisamente finestre di possibilità per progetti di trasformazione sociale che adesso sembrano assolutamente impraticabili, ma la storia non procede in maniera lineare e progressiva,va avanti tortuosamente e per salti. Rallenta, per poi accelerare. E questa è una fase in cui tutto corre e in cui, nel caso, bisognerà farsi trovare pronti perché, come scrisse in altri tempi Ernst Bloch: l’epoca è in putrefazione, ma al tempo stesso ha le doglie.

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