“La Cina è vicina” gridavano le piazze degli anni '70, e dopo
quasi mezzo secolo di storia quello slogan non è mai stato tanto
aderente alla realtà come lo è oggi, anche se in forme ben diverse da
quelle auspicate allora. Non si intravede nessun nuovo Mao al timone,
nessuna Rivoluzione Culturale si profila all’orizzonte e non ci sono
nemmeno le guardie rosse intente a bombardare il quartier generale. Da
Deng Xiaoping in poi la Cina ha smesso di rappresentare un’alternativa
ideologica di riferimento, non solo rispetto al comunismo sovietico, ma
anche, e soprattutto, rispetto a quell’occidente capitalistico a cui si è
andata viepiù, per l’appunto, avvicinando.
La tappa fondamentale di questo percorso è
stata sicuramente, tra il 1999 e il 2001, il negoziato finale e poi
l’ingresso della Repubblica Popolare nella World Trade Organization
(WTO). Com’è noto l’ultimo ventennio di crescita dell’economia globale
si è di fatto retto sulla complementarietà tra gli Stati Uniti e la
Cina, diventata nel frattempo, la “fabbrica del mondo”.
Un’interdipendenza talmente forte da spingere i media internazionali a
definire questo G2 informale come “Chimerica”, termine coniato dallo storico statunitense Niall Ferguson e nato dalla crasi di China e America.
Questo processo d’inserimento nel mercato internazionale è rimasto
sostanzialmente immutato per tutto il primo decennio del nuovo secolo.
La trasformazione della Cina nel principale hub della manifattura
globale ha portato con sé, però, uno squilibrio commerciale crescente a
danno degli Stati Uniti che, almeno in parte, è stato compensato dai
flussi di capitali cinesi a sostegno del debito pubblico USA.
All’alto
debito dei consumatori statunitensi ha cioè fatto da corrispettivo
l’alto risparmio delle famiglie cinesi, e i disavanzi commerciali Usa
che hanno riempito le riserve valutarie di Pechino sono stati poi
regolarmente “riciclati” in dollari, con la sottoscrizione di Treasury bond
statunitensi. Stando agli ultimi dati del 2019 i buoni del tesoro Usa
posseduti dalla Cina ammonterebbero a 1.112 miliardi di dollari. Una
cifra sicuramente considerevole che, però, crea più preoccupazioni alla
Cina creditrice che non agli Usa debitori. Considerando anche i 22.000
miliardi di debito complessivo di Washington, i titoli in mano a Pechino
rappresentano infatti solo il 5% del totale.
Questo sistema si è però parzialmente inceppato con la crisi del
2008, quando il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina è crollato
del 15% nel giro di pochi mesi. Per far fronte al rallentamento
dell’economia, Pechino è stata “costretta” a varare misure anticicliche
con un pacchetto impressionante di stimoli, circa 580
miliardi di dollari, finanziato centralmente ed incentrato soprattutto
sugli investimenti nelle infrastrutture fisse e sui sussidi fiscali alle
imprese esportatrici. È in questo frangente, e sotto l’amministrazione
Obama, che inizia a mutare l’atteggiamento statunitense nei confronti
della Cina a cui vengono addossate le responsabilità per il doppio
debito Usa da deficit commerciale e da indebitamento statale e a cui
viene rimproverata l’eccessiva debolezza dello yuan. Dall’altra parte del
Pacifico la percezione è invece che Washington non voglia far altro che
scaricare la crisi sugli “alleati” continuando a stampare moneta e
alimentando nuove bolle speculative. L’impalcatura che aveva retto la
fase ascendente della globalizzazione si è rapidamente trasformata in
una gabbia troppo stretta per il gigante asiatico.
Alla fine degli anni Dieci del nuovo secolo il quadro geopolitico
vede così riemergere una competizione strategica di lungo termine tra
gli Stati Uniti e quella che viene ormai pubblicamente descritta come
una “potenza revisionista”, una definizione che nella teoria delle
relazioni internazionali viene utilizzato per indicare quelle potenze
emergenti che intendono modificare a proprio vantaggio l’ordine politico
mondiale. Il “momento unipolare” del potere politico ed economico
statunitense che aveva contrassegnato la fine della (prima?) guerra
fredda ha così lasciato il posto a un bipolarismo, sempre più esplicito,
tra Stati Uniti e Cina.
A rendere particolarmente incandescente la congiuntura è la
sovrapposizione tutt’altro che casuale, anzi potremmo dire
esplicitamente causale, tra le dinamiche geopolitiche e lo scontro per
la leadership tecnologico-industriale. La competizione globale e quella
tecnologica s’incrociano, e sempre di più la seconda dà forma e
contenuti alla prima.
Occorre avere ben chiara, infatti, la distinzione tra le guerre
commerciali in corso tra le due sponde del Pacifico e lotte per la
leadership sulla tecnologia. Le prime, soprattutto sotto
l’amministrazione eclettica di Donald Trump, oltre ad avere una certa
dose d’imprevedibilità sono soprattutto condizionate da ragionamenti di
natura tattica, anche per via dell’intreccio spesso inestricabile delle
catene produttive e distributive. Il loro obiettivo è pragmaticamente
misurato a breve termine dai risultati della bilancia commerciale o dal
saldo tra delocalizzazione e ri-localizzazioni delle imprese e dei posti
di lavoro. Cosa ben diversa è invece la lotta per leadership sulla
tecnologia e le industrie del futuro, qui l’orizzonte è strategico e la
posta in gioco è l’egemonia economica e geopolitica dei prossimi
decenni. Non è un caso che molte delle iniziative di politica
dell’innovazione digitale dispiegate dall’attuale amministrazione
statunitense siano state impostate o addirittura avviate dai democratici
sotto la presidenza Obama che, proprio attraverso il suo “Pivot to East Asia”, fu il primo ad indicare la Cina come nuovo avversario strategico.
Senza dilungarci troppo sull’argomento “scientifico”, che ci
porterebbe lontano dalle ragioni di questa riflessione, è ormai
acclarato come la nuova fase della cosiddetta terza rivoluzione
industriale, o per alcuni la seconda fase della rivoluzione digitale,
abbia avuto come innesco una serie impressionante di rotture qualitative
in molti settori delle tecnologie digitali. Innovazioni che si stanno
alimentando a vicenda e che stanno determinando la nascita di un nuovo
“cluster tecnologico secolare” destinato a condizionare profondamente il
nuovo secolo tanto quanto l’elettricità influenzò quello precedente.
Supercomputer e computer quantistici che promettono potenze di calcolo
finora inimmaginabili; reti neurali e machine learning per allargare a dismisura gli orizzonti e le possibilità dell’intelligenza artificiale; l’internet of things
(IoT) per far dialogare attraverso il protocollo IP dispositivi, e
oggetti di ogni tipo finora esclusi dalla grande convergenza di
computer, smartphone e reti di telecomunicazioni; la cognitive automation
per il settore manifatturiero e la logistica, e infine il 5G, la
tecnologia delle reti di quinta generazione, per connettere e mettere
tutto questo a sistema e che non a caso è diventato il terreno di
scontro più acceso tra Stati Uniti e Cina.
Un campo, quello delle nuove tecnologie, dove si è davvero compiuto
il “Grande Balzo” cinese e che ha portato gli Stati Uniti a vivere un
nuovo “momento Sputnik”, così come venne definito lo shock del 4 ottobre
1957 quando l’Unione Sovietica riuscì a mettere in orbita il primo
satellite anticipando Washington nella corsa allo spazio. Ma al
contrario dell’Urss che rappresentò solo temporaneamente un competitor
tecnologico, oggi la Cina ha sopravanzato gli Stati Uniti in molti
campi.
Alcuni esempi possono dare un’idea dell’ordine di grandezza della
questione: attualmente il 60% degli investimenti mondiali totali sulla
A.I. è cinese, a partire dal 2013 la Cina ha conquistato il primato delle
pubblicazioni scientifiche sul deep learning e dal 2018 quasi la metà
dei supercomputer più veloci del mondo sono cinesi. La primazia cinese
non si manifesta soltanto nel campo della ricerca scientifica o nel
chiuso di qualche laboratorio, ma ormai investe direttamente alcuni
aspetti produttivi e commerciali. Nel 2005 il valore delle transazioni
online in Cina era inferiore all’1% del totale mondiale, che era pari a
495 miliardi di dollari; nel 2016 il valore dell’e-commerce nel mondo è
salito a 1915 miliardi di dollari e la quota cinese è salita al 42,5 %,
ben oltre quella statunitense. Grazie alle nuove tecnologie il gigante
dell’e-commerce asiatico Alibaba gestisce una catena logistica in grado
di effettuare 60 milioni di consegne al giorno, dieci volte più di
Amazon (dati 2016), mentre Alipay, la piattaforma di pagamento di
Alibaba, gestisce fino a 20.000 transazioni al secondo, il triplo delle
più efficienti piattaforme americane.
La conseguenza di questa combinazione tra la seconda fase della
rivoluzione digitale e il bipolarismo globale è un cambiamento di rotta,
se non una vera e propria inversione, della globalizzazione in cui la
ricerca dell’autosufficienza dev’essere letta più come il tentativo di
costruire e difendere un proprio spazio economico che come un rigurgito
autarchico. Da questo punto di vista i momenti di svolta che segnalano
il cambio di fase sono essenzialmente due. Da parte cinese la nomina nel
2012 di Xi Jinping alla guida del paese dà forma a un cambiamento
profondo rispetto alla strategia denghiana di prosperare economicamente
senza mai porsi direttamente su un piano di confronto geopolitico con
gli Usa. Solo un anno dopo dalla sua elezione, il 7 settembre del 2013,
Xi Jinping presenterà al mondo la “Belt and Road Iniziative”
(Bri), o come è stata successivamente chiamata “la nuova via della
seta”, un progetto talmente ambizioso da essere inserito, quattro anni
dopo, nella Costituzione della Repubblica Popolare proprio a
sottolinearne l’importanza storica, geopolitica e strategica. Il cordone
di infrastrutture terrestri previsto dal progetto non solo avvicinerà i
possibili mercati di sbocco, ma permetterà di ridurre la dipendenza
della Cina dalla superpetroliere che percorrono quotidianamente lo
stretto di Malacca, una vera e propria vena giugulare energetica su cui
gli Usa hanno le mani e che potrebbero strangolare in caso di conflitto
con la Repubblica Popolare. Da parte statunitense, dopo il “Pivot to East Asia” obamiano del 2012, la formalizzazione di un cambio di
strategia viene esplicitata nel dicembre 2017 con il documento “National
Security Strategy” licenziato dall’amministrazione Trump e in cui la
Cina viene descritta come “competitore strategico”. Una concezione
ribadita dopo nemmeno un anno dal vice presidente Mike Pence in un
famoso discorso allo Hudson Institute.
Nella seconda metà degli anni Dieci, negli Stati Uniti così come in
Europa, la narrazione sulla Cina cambia dunque radicalmente. Fino ad
allora il racconto di come questo paese fosse ormai diventato una
superpotenza economica si declinava attorno all’idea di una gigantesca
manifattura di beni prevalentemente a basso contenuto tecnologico, ma
anche in questo campo le strategie di Xi Jinping non collimano più con i
desiderata di Washington.
Nel 2015 viene lanciato il piano “Made in China 2025” in
cui Pechino esplicita per la prima volta e chiaramente come la sua
intenzione sia quella di cambiare la propria collocazione nell’economia
globale, risalendo le filiere dell’innovazione e caratterizzandosi come
economia di manifattura avanzata e di servizi. L’aspirazione è quella di
ridurre la dipendenza tecnologica dagli altri paesi promuovendo nelle
industrie High-Tech la nascita di campioni nazionali in grado di
dominare il mercato interno e di muoversi efficacemente sui mercati
internazionali. Uno degli obiettivi espliciti è quello di riuscire a
coprire entro il 2025 almeno il 70% del proprio fabbisogno di microchip
con produzioni nazionali. Quello dei chip è infatti un tallone d’Achille
per l’economia cinese. Nel 2017 la Cina rappresentava il 90% della
produzione mondiale di smartphone e circa il 66% della produzione di
computer e di smart tv, ma non disponeva ancora di un’industria dei
microprocessori in grado di soddisfare la domanda interna, sia dal punto
di vista qualitativo sia da quello quantitativo. Sempre nel 2017 il
valore delle importazioni di microchip raggiunse la cifra enorme di 270
miliardi di dollari. Il tentativo di riuscire a colmare questo gap si è
sostanziato in almeno 150 miliardi di dollari si investimenti negli
ultimi dieci anni e in numerosi tentativi di acquisizioni di aziende
statunitensi che sono state, però, quasi tutte bloccate dalla Casa
Bianca per ragioni di sicurezza nazionale.
Come abbiamo detto, però, il terreno di scontro principale in questo
momento sembra essere il 5G. Gli Stati Uniti hanno ormai maturato la
concreta sensazione di essere all’inseguimento rispetto ad un paese che
invece sta bruciando le tappe. Uno studio del 2018 dà una misura di
questo vantaggio in termini infrastrutturali: se negli Stati Uniti ci
sono 4,7 small cells per il 5G ogni 10mila abitanti, i cinesi
sono già arrivati a 14,1. Il controllo delle supply chain del 5G, una
filiera industriale molto articolata e che presenta una pluralità di
nodi tecnologici sensibili, diviene dunque un’esigenza strategica.
Controllare questi nodi significa avere il potere di condizionare,
rallentare o addirittura bloccare la produzione di un paese rivale,
colpendolo non solo nello sviluppo delle telecomunicazioni ma in tutte
le industrie che da queste dipendono, dai servizi per le smart city alla
manifattura intelligente, agli armamenti.
Così, se le minacce di guerra commerciale attraverso l’imposizione di
tariffe e di limitazioni alle importazioni conquistano subito
l’attenzione prioritaria dei media, il confronto sulle tecnologie in
questi ultimi anni si è fatto durissimo. Il 1 dicembre del 2018 in
Canada viene arrestata, su mandato statunitense, Meng Wanzhou, figlia
del fondatore di Huawei. Pochi mesi dopo l’amministrazione statunitense
innalza ulteriormente il livello dello scontro licenziando un ordine
esecutivo, l’“Executive Order on Securing the Information and Communications Technology and Service Supply Chain”
in cui si dice esplicitamente che mettere in sicurezza la propria
filiera significa interrompere quella dell’avversario, dimostrando che
le arterie vitali del sistema industriale di un paese “rivale” possono
essere aggredite per ragioni politiche. L’embargo di Trump per bloccare
la vendita di componenti statunitensi a Huawei costringerà Google,
Qualcomm e Broadcom a congelare le proprie forniture e rafforzerà la
convinzione cinese della necessità di arrivare alla ricostruzione delle
proprie supply chain all’interno di un perimetro politicamente sicuro.
D’altronde già l’umiliazione subita l’anno precedente con la vicenda
di Zte, l’azienda cinese accusata di trasferire tecnologia di origine
statunitense attraverso la vendita di smartphone alla Corea del Nord,
aveva fatto suonare più di un campanello d’allarme a Pechino. Xi Jinping
si era trovato costretto a dover intercedere presso Trump per non far
fallire un’azienda con oltre 75 mila dipendenti.
Per chiudere alcune, brevissime, considerazioni. Viviamo in una fase
di transizione i cui esiti sono tutt’altro che scontati. Il vecchio
ordine mondiale, con la sua bilancia di potenze, non riesce più ad
imporsi come l’unico ordine possibile, ma in questo interregno non
sembra profilarsene un altro in grado di prenderne saldamente il posto.
Ciò che è chiaro è che la globalizzazione non è in crisi perché Trump o
Xi Jinping stanno alterando le regole del gioco, ma perché la nuova fase
della rivoluzione industriale produce discontinuità nella produzione e
distribuzione del valore. E questo impone, e sempre di più imporrà,
nuove forme di conflitto economico, geopolitico e militare. Questo
potrebbe, e sottolineiamo potrebbe, aprire improvvisamente finestre di
possibilità per progetti di trasformazione sociale che adesso sembrano
assolutamente impraticabili, ma la storia non procede in maniera lineare
e progressiva,va avanti tortuosamente e per salti. Rallenta, per poi
accelerare. E questa è una fase in cui tutto corre e in cui, nel caso,
bisognerà farsi trovare pronti perché, come scrisse in altri tempi Ernst
Bloch: l’epoca è in putrefazione, ma al tempo stesso ha le doglie.
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