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04/11/2020

Un DPCM ridicolo, per prendere tempo

Se per combattere una pandemia servono velocità, decisioni prese su basi scientifiche, serietà assoluta, poche eccezioni alle regole... beh, questa classe politica decisamente non ha come priorità quella di sconfiggere il virus.

Ci sono voluti giorni di furibonde riunioni per arrivare alla firma del nuovo Dpcm (decreto della presidenza del consiglio dei ministri). Intorno ai tavoli si affannavano i più vari “portatori di interesse” – industriali, commercianti, albergatori, ristoratori, ecc – ognuno con i suoi parlamentari o ministri di riferimento.

A un secondo livello c’è stato poi il contenzioso con i presidenti di regione, i quali – indipendentemente dal partito di teorica appartenenza – sono portatori degli stessi interessi, sintetizzati in maniera diversa a seconda della struttura produttiva e sociale dei rispettivi territori.

Sul piatto un solo assillo: chi si assume la responsabilità di apparire come autore di decisioni comunque impopolari?

Una lunga discussione, insomma, tra vigliacchi in perenne campagna elettorale, preoccupati solo di poter restare in sella (persino quelli appena eletti o rieletti!) e chissenefrega della salute della popolazione e ancor meno del “futuro del Paese”.

Da quest’orgia è venuto fuori un testo che sarà bene riassumere nei dettagli fondamentali, prima di esprimere un giudizio.

I provvedimenti

Il governo più “indecisionista” degli ultimi decenni ha tirato infine fuori, se non altro per necessità, il criterio minimo che dovrebbe animare un esecutivo nazionale: qui comando io.

Ha quindi sancito una “cornice nazionale” uguale per tutto il territorio, dividendo poi il Paese tra regioni “rosse”, “arancioni” e “verdi” a seconda delle curve epidemiologiche locali.

Di fatto, ha assegnato a ogni regione un codice comportamentale minimo, che i sedicenti “governatori” (la legge li chiama “presidenti”, e c’è un perché) possono solo implementare in senso restrittivo.

Questo per rimuovere il principale ostacolo istituzionale – la “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni, esaltata specialmente sulle questioni sanitarie, affidate appunto alle Regioni – che rischiava di rendere inutile ogni decreto. Se, infatti, ogni regione potesse davvero decidere per sé, diventerebbe impossibile raggiungere persino l’obbiettivo minimo di questo e altri Dpcm: tenere la curva dei contagi e dei ricoveri entro i limiti della “governabilità”.

In dettaglio. Su tutto il territorio nazionale e quindi nelle “regioni verdi”:

– coprifuoco dalle 22 alle 5. Dopo le 22 si potrà uscire solo per lavoro, necessità e salute, e sarà necessario provarlo (tornano le autocertificazioni e la “liberatoria” del datore di lavoro o equivalenti);

– nelle scuole diventa obbligatoria la didattica a distanza al 100% per gli istituti superiori; le scuole elementari e medie, nonché i servizi all’infanzia, andranno avanti con l’attività in presenza, ma diventa obbligatorio l’uso delle mascherine (salvo che per i bimbi al di sotto dei 6 anni);

– i centri commerciali e anche le “medie strutture di vendita” resteranno chiuse nei weekend e nei festivi, ad eccezione di farmacie, generi alimentari, tabaccherie ed edicole;

– i trasporti pubblici potranno essere riempiti massimo al 50% (ma chi controlla?);

– bar e ristoranti dovranno chiudere alle 18 ma avranno la possibilità di restare aperti per il pranzo della domenica, come già stabilito dal precedente Dpcm;

– sospesi i concorsi pubblici e privati, “a esclusione dei casi in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su basi curriculari ovvero in modalità telematica”;

– chiudono i “corner scommesse e giochi” nei bar e nelle tabaccherie;

– barbieri e parrucchieri restano aperti, ma devono ricevere i clienti su appuntamento;

– sospese mostre e servizi museali.

Differenze regionali a seconda del grado di contagiosità

Nelle “zone rosse” (Lombardia, Piemonte, Calabria, Valle d’Aosta, provincia di Bolzano) per almeno 15 giorni è imposto lo stop a ogni spostamento in entrata e in uscita dalla Regione e anche all’interno del territorio stesso (salvo “necessità e urgenza”, ossia lavoro, spesa, cure mediche). Vengono chiusi anche i negozi al dettaglio, tranne alimentari, farmacie, edicole; chiusi i mercati di generi non alimentari (elettronica, auto, ecc).

Vengono chiusi bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie. È consentita però la consegna a domicilio, nonché la ristorazione con asporto fino alle ore 22.

Vietate anche le attività sportive, anche nei centri sportivi all’aperto. Resta invece possibile fare jogging o passeggiare, ma nei pressi della propria abitazione, individualmente.

Resta l’attività scolastica in presenza per scuola dell’infanzia, elementare e prima media.

Nelle “regioni arancioni” (Campania, Puglia, Liguria, forse Veneto; ma continua su questo lo “scontro” tra “governatori” e governo), ristoranti, bar, gelaterie e pasticcerie resteranno chiusi sempre e non più solo dopo le 18, ma saranno consentite le consegne dei prodotti a domicilio o le vendite dirette per asporto.

Sono vietati gli spostamenti in un comune diverso da quello di residenza o domicilio, salvo le comprovate ragioni di lavoro, studio, salute.

Previste inoltre tutte le altre regole istituite per le zone verdi: 50% di capienza sui mezzi pubblici, didattica a distanza integrale alle superiori, stop ai musei e coprifuoco dalle 22.

L’opposizione parlamentare

Nulla da registrare, se non una lunga serie di dichiarazioni inutili, contraddittorie, smentite pochi minuti dopo da altre dichiarazioni parimenti inutili.

Si capisce perfettamente che anche i vari Salvini, Meloni, Tajani, non hanno la minima idea di come andrebbe gestita una situazione del genere. Ma cercano solo di ricavarsi uno spazio mediatico dicendo qualcosa che sembri diversa da quelle che spara il governo.

Il senso dei provvedimenti

Il giudizio sull’efficacia antivirus di queste misure deve essere oggettivo, dunque impietoso: non servono a molto. Un altro lockdown finto, insomma, che penalizza alcuni settori e non altri, senza cambiaremodificare in nulla il dispositivo sanitario per renderlo adeguato al problema.

Da quello che ci spiegano da mesi epidemiologi, infettivologi e virologi seri – quelli che non cambiano opinione da un talk show all’altro – il contagio avviene soprattutto negli assembramenti e nei luoghi chiusi.

Il Dpcm elimina una certa parte di queste occasioni di contagio (genericamente e come sempre quelle relative al “tempo libero” o alla cura di sé), ma ne lascia attive decine di altre: prime fra tutte le attività produttive e fra queste, in primo luogo, le attività manuali, che non si possono fare in smart working. Gli operai, i facchini della logistica, ecc. insomma, potranno continuare allegramente a contagiarsi sul lavoro e portare a casa il virus.

Così come i bambini delle elementari, medie inferiori – le scuole primarie, nelle motivazioni del governo, restano aperte come “parcheggio” indispensabile per i genitori che devono andare a lavorare – e tutti coloro che debbono spostarsi con i trasporti pubblici.

Su quest’ultimo punto, neanche questa volta si è minimamente pensato ad aumentare temporaneamente il numero dei mezzi in circolazione. Eppure si potrebbero facilmente “precettare” i pullman turistici fermi nelle rimesse – il turismo era fermo anche prima del Dpcm – con relativi autisti in cassa integrazione. La spesa per “l’affitto” dei mezzi sarebbe in totale irrisoria, e anche l’integrazione dello stipendio (già lo Stato versa la cassa integrazione...) non costituirebbe un problema insormontabile.

Dunque il senso profondo di questo Dpcm è “prendere tempo”, abbassare un po’ la curva epidemiologica in modo tale da non intasare totalmente gli ospedali e soprattutto i posti di terapia intensiva.

Nelle pieghe dei ragionamenti a contorno, infine, si capisce che “il progetto” prevede di alleggerire queste misure in prossimità delle vacanze di Natale, per un fine esclusivamente di consenso sociale-elettorale. Per poi riprendere, inevitabilmente, con un mezzo lockdown simile di fronte alla “terza ondata” di pandemia che dovrebbe manifestarsi in febbraio.

Prendere tempo in attesa di un vaccino efficace, “convivere con il virus” tenendo d’occhio i posti in ospedale, sperare che le cose non evolvano (troppo) in tragedia. Nulla di più.

Cosa bisognerebbe fare

Il “piano Crisanti” non è più stato applicato, dopo il successo di Vò Euganeo. Ma è grosso modo quello che hanno fatto i cinesi e che ha permesso a quel paese di eliminare sostanzialmente l’epidemia – resta alto il livello d’allarme di pronto intervento, anche per un singolo caso di contagio “di importazione” – consentendo anche una rapida ripresa dell'attività economica.

In barba alle stronzate di Confindustria, ripetute in “leghese stretto” da un oscuro parlamentare per miracolo, tale Borghi, che si è messo a pontificare sul “diritto costituzionale al lavoro” che verrebbe prima di quello alla “salute”. Come se da morti o intubati si producesse egualmente...

Non vorremmo annoiare i lettori ripetendoci, ma se toccasse a noi governare faremmo così:

Bisogna testare tutta la popolazione, nel periodo di lockdown, altrimenti il blocco temporaneo di alcune attività produttive o commerciali non servirà a niente. Giusto una pausa, per poi ripiombare nell’incubo.

Cosa serve?

– un numero altissimo di tamponi, che vanno prodotti senza attendere che “il mercato” ce li metta a disposizione a un prezzo altissimo (più forte è la domanda, più sale, come da manuale); per questo, come in guerra, si riconvertono d’autorità alcune linee produttive nelle aziende del settore;

– un numero corrispondente di medici e infermieri, precettando anche quelli della sanità privata, per il periodo necessario; giorni, non mesi...

– reagenti e laboratori per processare quei tamponi (non sono stati potenziati, in otto mesi di pandemia, “aspettando il mercato”);

– risorse e reddito per tutti quelli che dovranno stare fermi (per giorni, non mesi).

Costa troppo? NO. Costa infinitamente meno di quanto si è già speso fin qui, infinitamente meno di quanto si è perso finora in termini di produzione, commercio, turismo, ecc.
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